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Il tesoro di Palawan

Come la ricchezza di nichel cambia (e mette in pericolo) una tra le più suggestive isole delle Filippine

Affatato Paolo

Il mare cristallino di Palawan non è poi nemmeno tanto frequentato. L’isola lunga e stretta – a forma di stivale rovesciato – nella parte occidentale delle Filippine non è la più gettonata tra le mete turistiche che attirano nell’arcipelago turisti da tutto il mondo, pronti a godersi la bellezza dei luoghi e la proverbiale accoglienza della gente. Boracay è molto più famosa, anche se meno pittoresca. Al paradiso marittimo di Palawan, ricchissimo di biodiversità, con angoli e baie incontaminate e incantevoli, si associa un territorio rigoglioso, colorato e fiorito, interamente ricoperto da una vegetazione prorompente, in cui le strade appaiono come strisce sottili di terra, sassi o cemento che la foresta pluviale è sempre pronta a inghiottire nuovamente.

“Il nostro è un paradiso in pericolo”, dice l’avvocato Grizelda Mayo Anda, Direttore esecutivo del “Centro di assistenza legale ambientale” (Environmental Legal Assistance Center, ELAC) che nella sua sede a Puerto Princesa, capoluogo della provincia di Palawan, da 35 anni si batte per la tutela dell’ambiente e della vita delle comunità locali, soprattutto pescatori. Fondata da Mayo Anda nel 1990, Elac è oggi una delle Ong più attive nelle Filippine, e il suo impegno precipuo è rendere consapevoli, istruire e dare potere alle comunità per proteggere le loro risorse naturali, incoraggiando uno sviluppo che sia sempre attento alla sostenibilità ambientale, ai diritti umani, alla trasparenza dei processi economici e politici, perchè non siano inquinati da pratiche corruttive e perchè non si cada nello sfruttamento indiscriminato e distruttivo.

Il motivo principale che oggi mette a rischio l’isola di Palawan è la ricchezza del suo sottosuolo, soprattutto di un elemento, il nichel, che è oggi un minerale fondamentale per la produzione di batterie al litio utilizzate nei veicoli elettrici. Per questo il nichel, in special modo quello “di classe 1”, disponibile a Palawan, fa gola alle grandi compagnie multinazionali che promuovono progetti di sfruttamento di una delle materie prime la cui richiesta sul mercato internazionale registra un andamento in forte crescita. La presenza di nichel è considerata con favore dal governo filippino, che vede nei progetti estrattivi un polo d’attrazione di investimenti dall’estero e di impulso all’economia nazionale. Anche nelle istituzioni internazionali, nelle cancellerie e nei governi in Oriente e Occidente si vede di buon occhio l’intensificarsi dell’estrazione di nichel nell’arcipelago delle oltre 7.000 isole, perché necessario e funzionale alla svolta “green” nella vita dei rispettivi paesi.

Le Filippine risultano, dunque, tra i paesi al centro della transizione energetica globale. Un maggiore sfruttamento delle risorse minerarie trova consenso unanime, anche se porta con sé delle domande che altri attori – forse proprio i protagonisti – pongono, ma che spesso non vengono prese in considerazione. Si tratta delle comunità indigene e, in generale, delle popolazioni locali che in isole dell’arcipelago come Palawan ed altre, subiscono le conseguenze dei programmi di estrazione mineraria intensiva. La pratica estrattiva è un fenomeno che, nell’arcipelago filippino, è da sempre molto controverso proprio per il suo notevole impatto sul territorio e sulle comunità che lo abitano.

Nell’ultimo biennio, le Filippine sono state il secondo produttore mondiale di nichel (dopo l’Indonesia), con una produzione stimata di 330.000 tonnellate metriche nel 2023 e di 387mila nel 2024, secondo dati dello US Geological Survey (USGS). La Nickel Asia Corporation, impresa di proprietà congiunta di investitori locali e stranieri, controlla una quota compresa tra il 50% e il 60% della produzione totale di nichel del paese. “Tuttavia questo boom, con le concessioni per lo sfruttamento minerario date alle multinazionali dal governo di Manila, è responsabile della deforestazione, di voragini e desertificazione del territorio, di inquinamento delle arre marine; inoltre distrugge l’habitat delle popolazioni indigene, che si vedono sottrarre terre ancestrali e sconvolgere e lo stato di vita. E si stanno verificando danni alla salute”, spiega l’avvocato Grizelda Mayo Anda che di tali questioni ha fatto la ragione principale delle sua vita professionale e del suo impegno nella società civile. Un impegno che a molti è costato perfino la vita: le Filippine, infatti, sono tra i paesi più pericolosi al mondo per i difensori dell’ambiente. Secondo il rapporto Missing Voices 2023-2024 della Ong “Global Witness”, tra il 2012 e il 2023 sono stati uccisi nel paese 298 tra attivisti, avvocati, difensori dell’ambiente, 17 dei quali nel solo 2023.

Sull’isola di Palawan, ma anche in altre zone come nella provincia di Zambales, sull’isola di Luzon, la contaminazione da metalli pesanti, nota l’Enac, investe l’aria, l’acqua e la catena alimentare. Mai prima d’ora la gente aveva sviluppato attacchi d’asma, irritazioni alla pelle, agli occhi e alla gola. Le analisi hanno riscontrato la contaminazione di sorgenti d’acqua che “sgorgava cristallina, ora è un’acqua torbida, di un colore rossastro” rilevano gli abitanti locali.

“E’ urgente salvaguardare la popolazione, le risorse e le bellezze naturali di Palawan”, aggiunge Edwin Gariguez, un prete che, nel paese asiatico con popolazione a maggioranza cattolica, è impegno per la tutela e la “cura della casa comune”, come la definisce l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’, un documento che rimarca la connessione tra salvaguardia dell’ambiente e ragioni economiche e politiche dello sfruttamento. Una rete di Ong ha lanciato una campagna di raccolta firme per chiedere una moratoria di 25 anni sull’attività mineraria a Palawan, iniziativa che ha trovato l’appoggio della chiesa cattolica, come afferma una lettera pastorale congiunta, firmata dai vescovi di Palawan. L’iniziativa popolare auspica un supplemento di ricerca e di riflessione: “Occorrono studi approfonditi per preservare aree preziose come foreste secolari e bacini idrografici”, nota Gariguez, rimarcando l’importanza di strategie economiche sostenibili nel settore minerario. “E’ necessario – osserva – mettere sempre al primo posto l’ecosistema che include la vita dei gruppi indigeni e la tutela dei territori, come foreste, fiumi e mari. Se questo non accade, si potrebbero esacerbare l’erosione, causando frane e danni ecologici a lungo termine.

Già nel 2016, si riferisce, il Dipartimento dell’ambiente e delle risorse naturali ha autorizzato l’abbattimento di circa 28.000 alberi a Palawan. E nel 2024 un’azienda ha ottenuto l’autorizzazione ad abbattere 52.200 alberi, una vasta area di foresta, mentre un’altra ha presentato domanda per tagliarne altri 8.000. Attualmente sono sotto esame a Palawan 67 domande di esplorazione mineraria, che interessano un’area di oltre 200.000 ettari, e sono già approvati dal governo 11 accordi che concedono lo sfruttamento minerario in 29.000 ettari di territorio.

La società civile, con la sua rete di organizzazioni, gruppi e comunità, chiede ai legislatori provinciali di Palawan di dare priorità all’ambiente e al benessere delle comunità rispetto agli interessi del profitto o a interessi di potere: “In frangenti come questo emerge la natura e la coscienza della politica: si vedrà se i rappresentanti del popolo si preoccupano veramente per Palawan o se soccombono ad altre pressioni”, rileva Jayeel Serrano Cornelio, sociologo e docente all’Ateneo University della capitale Manila, ricordando che Palawan è l’unica provincia nella regione delle Filippine centrali a non avere un’ordinanza di moratoria sulle attività minerarie. Intanto la petizione che sta circolando tra la popolazione locale, e che si estende a tutta la nazione, potrà costruire una forma di pressione su una questione che “riguarda il profitto, riguarda procedure di trasparenza, il controllo delle procedure di concessioni, per evitare pratiche corruttive; riguarda la tutela del patrimonio naturalistico nazionale, che può essere fonte di reddito se ben conservato; riguarda, in definitiva, la vita delle generazioni future”, osserva Cornelio.

Sono temi emersi e dettagliati, tra l’altro, nel recente rapporto di Amnesty International, dal titolo “What do we get in return? How the Philippines nickel boom harms human rights”, una ricerca condotta tra settembre 2023 e ottobre 2024, con interviste a 90 membri della comunità di Palawan, e analisi di documenti di progetti estrattivi. “I gestori delle miniere di nichel devono porre i diritti umani al centro delle loro attività”, afferma Alysha Khambay, ricercatrice di Amnesty International. E poi, collegando la questione all’industria e allo stile di vita occidentale, si nota che, se non vi è trasparenza sulla catena di approvvigionamento, “i marchi di veicoli elettrici non possono affermare che i loro veicoli sono esenti dalla macchia dei diritti umani e degli abusi ambientali nelle Filippine”. Secondo Amnesty, non si possono “sacrificare i diritti umani, la salute e l’ambiente dei popoli indigeni e delle comunità rurali a vantaggio delle aziende estrattive, delle multinazionali automobilistiche e dei consumatori nei paesi industrializzati”. Perché la scelta di un consumatore sia realmente “green”, allora – nota il rapporto – occorrono attenzione e responsabilità lungo tutta la filiera di fornitura delle batterie, valutando i danni ambientali e antropici causati dalle attività minerarie.

Foto Credits: Wayne S. Grazio – Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic, attraverso Flickr