Ascoltare la voce dei migranti climatici
Il Crowdsourcing come nuovo strumento di ricerca di soluzioni
La conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (COP 28) avrà luogo tra breve, e sembra quasi incredibile che sia già passato un anno dalla COP 27. In quella conferenza i paesi partecipanti vennero sollecitati a intraprendere misure straordinarie per contrastare il cambiamento climatico e furono individuati cinque punti fondamentali di partenza, che comprendevano: l’istituzione di un fondo ad hoc per i danni, la riaffermazione dell’impegno a limitare il riscaldamento globale entro 1.5° C, la trasparenza nei rendiconti di imprese e istituzioni, l’aumento del supporto finanziario ai paesi in via di sviluppo e la necessità di mettere al centro del focus l’attuazione concreta di tutti questi cambiamenti.
In occasione del COP 28, che si terrà a Dubai negli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 12 dicembre 2023, sarà essenziale riflettere sui progressi compiuti rispetto alla conferenza precedente e sul lavoro che ancora va fatto per affrontare il pressante problema del cambiamento climatico. La COP 28 intende incoraggiare un piano d’azione sul clima più rapido e più energico, che sia in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e che unisca il mondo intero nel concordare soluzioni audaci e concrete per affrontare questa sfida, che appare la più urgente a livello globale.
A partire dalla metà del XX secolo, il problema del cambiamento climatico si è manifestato in tutta la sua portata. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) ha affermato che il fenomeno minaccia la salute del pianeta e il benessere dell’intera specie umana. Le conseguenze del cambiamento climatico comprendono una gamma di eventi gravi e potenzialmente catastrofici come siccità, scarsità di risorse idriche, incendi, innalzamento del livello dei mari, inondazioni, scioglimento dei ghiacci polari, uragani e riduzione della biodiversità. Inoltre, il cambiamento climatico ha provocato fenomeni di migrazione interna e internazionale, dovuti a mutamenti ambientali improvvisi o graduali.
Secondo l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), tra il 2008 e il 2016 una media annua di 21,5 milioni di persone è stata costretta a migrare a causa di eventi legati al clima, come inondazioni, incendi, uragani e variazioni estreme delle temperature. Nel 2018 la Banca Mondiale ha affermato che entro il 2050 l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina potrebbero trovarsi ad affrontare una massa complessiva di 140 milioni di migranti climatici interni, a causa di siccità, perdita di raccolti agricoli, innalzamento dei mari ed eventi meteorologici estremi.
Passando in rassegna i singoli casi degli effetti del rischio climatico sui fenomeni migratori, ve ne sono molti documentati, come quello del ciclone tropicale Idai su Mozambico, Malawi e Zimbabwe, che ha fatto fuggire gli abitanti dalle loro case e li ha costretti a cercare rifugio altrove. L’UNHCR ha dovuto anche fornire protezione ai Rohingya rifugiati del Bangladesh meridionale a causa delle tempeste e delle inondazioni monsoniche. Il Bangladesh è uno dei punti focali, a livello mondiale, della migrazione dalle campagne alle città correlata alla situazione climatica. É un paese di pianure deltizie, colpito da inondazioni ed erosioni che hanno costretto la popolazione (che ammonta in totale a 165 milioni) a fuggire dalle aree rurali per stabilirsi in aree urbanizzate meno estese e vulnerabili ai cosiddetti cicloni killer della Baia del Bengala. La situazione del Bangladesh è tra quelle che destano maggiori preoccupazioni, ma va anche menzionato il Pakistan, dove gravi inondazioni hanno costretto otto milioni di abitanti a cercare rifugio in campi profughi, nelle città o sulle strade, insieme alle loro famiglie. In Pakistan gli effetti collaterali del cambiamento climatico, come ondate di calore e siccità, spingono gli agricoltori a lasciare le aree rurali e questo naturalmente aggrava le condizioni economiche delle città che li accolgono, fa aumentare la richiesta di servizi pubblici e acuisce le diseguaglianze.
Anche l’Europa non è rimasta immune dagli effetti del cambiamento climatico e delle migrazioni. Tra i casi più evidenti c’è la Moldavia, che è flagellata da fenomeni di siccità sempre più acuti: le carenze istituzionali nel farvi fronte e la crisi dei rifugiati dall’Ucraina ne hanno fatto una delle regioni più climaticamente vulnerabili d’Europa. Agricoltori e e ambientalisti esprimono timore per il ripetersi di episodi di siccità nelle aree rurali, che hanno effetti negativi sui raccolti agricoli e sulla sicurezza alimentare. D’altronde, anche economie avanzate come la Germania non sono rimaste immuni dagli effetti devastanti del cambiamento climatico. Nel 2021, ad esempio, ha sofferto una tremenda inondazione che ha provocato 200 morti e ha spinto a trasferirsi un numero assai maggiore di persone. Anche gli Stati Uniti sono stati duramente colpiti dall’impatto del cambiamento climatico, con eventi meteorologici estremi come incendi, uragani e ondate di calore, che hanno causato gravissimi danni infrastrutturali e nel 2022 hanno provocato il trasferimento interno di tre milioni di persone.
Anche se la quantità di emissioni pro capite dell’Africa è inferiore alla media mondiale, quel continente viene per contro colpito in modo eccezionalmente grave dall’aumento globale delle temperature e dalle relative conseguenze sul clima. Gli effetti di siccità, desertificazione e cicloni causano, tra altri problemi, penuria di cibo e spostamenti e migrazioni della popolazione. Le Nazioni Unite hanno sottolineato questo genere di problemi nel loro rapporto del 2023. L’Etiopia, ad esempio, lotta da tempo con gli effetti del cambiamento climatico e negli ultimi 50 anni ha dovuto fronteggiare quindici gravi carestie. Attualmente molte famiglie di agricolori sono in difficoltà a causa dei mutamenti degli schemi climatici, che provocano problemi come scarsità idrica e diminuzione dei raccolti, generando un aumento dell’insicurezza alimentare tra la popolazione. L’agricoltura è la fonte di sostentamento principale per gli etiopi, e l’impatto sempre più grave del cambiamento climatico probabilmente costringerà ancora migliaia di loro a migrare verso il Sud Africa e l’Europa.
I migranti climatici rappresentano una larga porzione dei gruppi umani più vulnerabili, in termini globali, e tuttavia non hanno ricevuto grandi riconoscimenti a livello nazionale o internazionale. Ad esempio, non c’è ancora consenso su chi possa esattamente considerarsi un rifugiato climatico. La definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione sui rifugiati del 1951 non comprende gli spostamenti dovuti a eventi meteorologici estremi e alle loro conseguenze. Quindi i migranti climatici non ricevono un livello sufficiente di protezione, non essendo riconosciuti in modo adeguato a livello amministrativo, in tutto il mondo. Il Global Compact on Refugees, ad esempio, non comprende i migranti climatici tra le varie categorie di rifugiati, rendendo problematico trovare soluzioni sostenibili alle difficoltà dei rifugiati, in assenza di cooperazione internazionale. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) sottolinea che la mancanza di dati sulla migrazione climatica è dovuta a problemi metodologici e alla difficoltà di quantificare l’emigrazione provocata da crisi ambientali.
La IOM sollecita anche una maggiore partecipazione di tutti gli interessati alle decisioni relative al cambiamento climatico e alle migrazioni, compresi i partner pubblici e privati, la società civile, le donne, i giovani, le popolazioni indigene, i migranti stessi e le persone e le comunità coinvolte. In tale contesto appare di cruciale importanza fornire alle persone colpite dal cambiamento climatico, e a coloro che si interessano all’impatto di tale cambiamento sulla sicurezza dell’umanità, i mezzi per partecipare al processo politico, a livello nazionale e internazionale. Coinvolgere i migranti vulnerabili al clima può facilitare un adeguato processo di transizione e può stimolare risposte politiche e programmi mirati ai loro bisogni. La partecipazione è un aspetto fondamentale per le politiche sul cambiamento del clima, specialmente quando si parla di migrazione, delle sue potenzialità e delle condizioni necessarie a svilupparle efficacemente. Tuttavia anche la partecipazione presenta dei rischi, come l’acquisizione del controllo da parte di elite o l’esclusione dei gruppi più marginali. Il concetto di partecipazione presume che individui o intere comunità cooperino o si impegnino in azioni collettive. Gli approcci volti alla partecipazione si basano su determinati presupposti, tra cui l’omogeneità delle comunità coinvolte, la disponibilità del tempo per dedicarvisi e il desiderio e la capacità di tutti di partecipare in modo efficace. Tali presupposti purtroppo non si riscontrano in tutte le situazioni. In tali casi, è importante esplorare mezzi innovativi per organizzare la partecipazione nell’attuale era dei social media, in cui le persone possono accedere a servizi tramite le tecnologie d’informazione e comunicazione, per aprire la strada a cambiamenti sociali sui temi del clima.
Nel campo delle decisioni sulle politiche legate al cambiamento climatico il crowdsourcing può costituire uno strumento potente, consentire alle persone di prendere parte alla pianificazione e realizzazione di azioni relative al clima e conferire trasparenza alla governance nazionale e globale in questo campo. Inclusività, rendicontabilità e trasparenza sono infatti i principi guida del crowdsourcing, secondo Aitamuroto e Chen (2017).
Le piattaforme digitali di crowdsourcing forniscono informazioni sui programmi e facilitano l’accesso a piattaforme di discussione, sia quelle specializzate per esperti che quelle pubbliche, dedicate ai temi del cambiamento climatico. Permettendo ai partecipanti di condividere le loro preoccupazioni e di far nascere soluzioni rispondenti ai loro problemi ed al relativo contesto, il crowdsourcing assicura che le loro voci vengano ascoltate.
Il crowdsourcing può inoltre fornire una migliore conoscenza delle terribili realtà che vivono i migranti climatici e permettere alla comunità internazionale di occuparsi meglio delle loro necessità.
Nell’attuale epoca di intelligenza collettiva e di facilità nella creazione di piattaforme digitali, i grandi social media come Twitter e Facebook sono diventati enormi serbatoi di informazioni. Testi e commenti postati su quelle piattaforme generano una massa di riflessioni e di idee, rendendole importanti fonti di big data. Un processo ben organizzato di crowdsourcing sui temi della migrazione climatica potrebbe assicurare che, in tutto il mondo, le persone direttamente coinvolte siano rappresentate. In ogni caso, installare strumenti per il crowdsourcing su Internet, sui social media e sulle applicazioni per smartphone richiederebbe poi approfondite analisi e sintesi dei dati, con l’impiego di intelligenze artificiali e di funzioni di machine learning come il NLP (elaborazione di linguaggio naturale). Successivamente questi risultati già analizzati potrebbero essere inviati ai funzionari istituzionalmente responsabili per le politiche e le azioni sul cambiamento climatico.
In definitiva, il crowdsourcing ci può offrire nuove oppotunità di ideazione e di discussione sulla crisi rappresentata dalle migrazioni climatiche. Questo strumento potrebbe fornire una piattaforma ai singoli individui per riunirsi e scambiare idee su come affrontare la questione, e attingendo alle esperienze e conoscenze collettive di differenti gruppi di persone potremmo trovare soluzioni innovative a questo urgente problema. Il crowdsourcing può costituire uno strumento valido e potente per produrre idee e incoraggiare il dialogo, portando a decisioni più informate e all’applicazione di soluzioni efficaci. Imbocchiamo dunque questa nuova strada, e lavoriamo tutti insieme per affrontare la crisi delle migrazioni legate al cambiamento del clima.
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Foto Credits: EU Civil Protection and Humanitarian Aid, Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0) attraverso Flickr