Gente di mare: quando la povertà determina le scelte migratorie
Diversi strumenti esistono per esprimere e sintetizzare il significato e la diffusione, incidenza e gravità della povertà. Uno di questi è l’indice di povertà multidimensionale (MPI) che nell’edizione 2022 misura, in 111 Paesi in via di sviluppo, la somma delle condizioni di deprivazione delle persone (in relazione a salute, istruzione e standard di vita). Il dato per il Senegal evidenzia che il 50,8% della popolazione (8,35 milioni) è povera in modo multidimensionale, mentre il 18,2% è vulnerabile alla povertà multidimensionale.
Parafrasando e adattando una frase di Lev Tolstoj ad un contesto diverso, vale qui dire che “tutti i Paesi sviluppati si somigliano; ogni Paese povero lo è a modo suo”. Traducendo l’indice multidimensionale in frammenti di vite, la storia raccontata in Senegal da Mousatpha Diouf e Mohamed Ndiaye (a Novembre 2022) mette in luce l’articolazione con cui la povertà profonda attraversa le condizioni individuali, comunitarie e societarie e ne condizioni scelte e prospettive.
L’incontro con entrambi è avvenuto durante una missione in Senegal, organizzata dalla Friedrich Naumann Foundation for Freedom a Novembre 2022 coinvolgendo un gruppo di parlamentari europei, esperti e giornalisti di diversa provenienza per analizzare le sfide del cambiamento climatico e della migrazione nel Paese, nel quadro del progetto “Raccontando il cambiamento climatico”, realizzato con l’associazione italo-senegalese Sunugal e Dare.ngo, sostenuto con i fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese.
Moustapha e Mohamed hanno vissuto e lavorato come pescatori a Thiaroye sur Mer, uno dei 16 distretti della città di Pikine, alle porte di Dakar, fino al 2006. Tra il 2005-2006 il settore della pesca ha subito un forte arresto a causa della profonda crisi economica e sociale in cui è entrato il Paese (disoccupazione giovanile, malcontento, governance pubblica incapace di gestire la situazione). È in quel momento che la via migratoria è apparsa come l’unica soluzione possibile.
Moustapha confida che nessuno fosse a conoscenza della sua decisione di partire: né la moglie, né i figli, né la madre. Il suo segreto non è stato condiviso, perché forse qualcuno lo avrebbe potuto sconsigliare. Insieme ad altri è rimasto nascosto per cinque giorni in una casa, per poi imbarcarsi su una piroga con 92 inconsapevoli disperati, alle sette di sera del 26 febbraio 2006. Durante i dieci giorni della traversata in mare – al freddo, senza cibo, spaventato – Moustapha ha realizzato l’errore commesso e ha compreso il pericolo: “Ho capito con terrore che sarei potuto morire in quelle acque, senza che nessuno a casa sapesse della mia partenza o che mi potesse cercare. Ho pensato a chi avrebbe aiutato e protetto mia moglie e miei figli, se io non fossi mai più ritornato”.
Il viaggio migratorio di Moustapha è finito bene, perché non si è trasformato in una tragedia. Ma dalle isole Canarie è stato rimpatriato in Senegal dove, insieme a Mohamed, ha creato l’Associazione AJRAP (Association des Jeunes Rapatriés de Thiaroye sur Mer) che si occupa di sensibilizzare sui temi della migrazione irregolare e dei rischi del mare.
L’organizzazione e gestione delle partenze clandestine per la rotta atlantica sono oggi un business florido e dinamico. Serve una piroga, che costa tra i 7/8.000 euro, dotata di un motore, tra i 4/6.000 euro, e il carburante necessario. Ogni persona a bordo – di solito sono 100/150 – paga tra i 450/600 euro. Ogni piroga ha un capitano, che non paga per il trasporto, essendo responsabile di arrivare a destinazione. Per un costo complessivo di 12.000 euro, se ne guadagnano tra i 60/90.000 euro e 150 persone rischiano la morte. Il passaggio di molti pescatori dall’inattività della pesca tradizionale (oggi fortemente compromessa in termini di disponibilità ittica per effetto del cambiamento climatico e di iniqui accordi internazionali a favore di pescherecci stranieri) alla alternativa migratoria è stato piuttosto facile e comprensibile. C’è chi ha convertito la propria piroga, chi si è offerto come capitano e chi ha raccolto il denaro per il biglietto. Tuttavia la struttura criminale che in Senegal gestisce il reclutamento e il viaggio è ben più ampia e articolata.
Le motivazioni alla base della partenza, nel caso del Senegal, sono legate all’impossibilità di poter garantire a sé e alla propria famiglia alcuni bisogni essenziali: cibo, nutrimento, protezione, cure mediche, accesso all’istruzione. La mancanza di lavoro e la mancanza di una concreta prospettiva (venga essa anche dallo stato senegalese, dalle agenzie internazionali di sviluppo, dalle ONG, dalla diaspora o da altri attori della solidarietà locale e internazionale) sono le cause profonde, rafforzate e amplificate dalla vergogna sociale. Dice Mohamed: “devi partire perché altrimenti è un’onta, non puoi stare senza fare niente mentre la tua famiglia non ha da mangiare e ti chiede responsabilità”.
Tra le ricadute della povertà familiare per chi fatica a vivere di pesca, una riguarda in modo esclusivo la vita dei bambini. Quando manca una fonte di reddito e tutte le voci di spesa sono ridotte all’essenziale, la scuola e l’istruzione dei bambini vengono sacrificate. In Senegal quattro su dieci bambini non completano i percorsi di istruzione primaria, solo il 37% arriva a compimento del ciclo scolastico (primaria e secondaria), e nel 2016 1,5 milioni di bambini in età scolare erano estranei a percorsi di istruzione formale (Unicef:). Si stima che il 22% dei bambini tra i 5-14 anni lavori in ambiti quali l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, il lavoro domestico, il lavoro nelle miniere e l’accattonaggio.
Su molte barche di pescatori di Thiaroye sur Mer si vedono bambini di 10-12 anni che partecipano alle attività della pesca. Sulle piroghe che escono giornalmente, delle circa 80 persone a bordo, fino a 20 sono bambini che si dedicano a piccole occupazioni e mansioni. Sono i figli delle famiglie più povere, tra le famiglie già povere. Chi non ha soldi per mandare i bambini a scuola, li porta a lavorare nella pesca o li manda a svolgere altri lavoretti in città.
L’Associazione AJRAP (Association des Jeunes Rapatriés de Thiaroye sur Mer) fino ad ora ha formato più di mille persone, offrendo corsi professionalizzanti soprattutto per giovani senza lavoro e futuro. Tuttavia molti di questi, una volta terminati i percorsi formativi, rivolgono ugualmente i propri sguardi all’Europa. L’Associazione si impegna nella sensibilizzazione sui rischi e pericoli della migrazione irregolare. Tuttavia mancano le argomentazioni in grado di indicare come costruirsi un’alternativa alla migrazione, quando essa di fatto non esista oggi. “Convincere un giovane – senza futuro, lavoro, prospettive – a non partire, per scappare dalla povertà, è difficile e anche ingiusto. Quelli che vanno in Europa, lo fanno perché vogliono un lavoro, vogliono mandare i figli a scuola, vogliono cibo, vogliono costruirsi una casa. Se si potesse ottenere semplicemente un visto di ingresso, nessuno morirebbe più in mare”.
Foto Credits: Anna Ferro