Povertà: non è tempo di ottimismo, e nemmeno di nutrire certezze sui dati disponibili
A seguito del Vertice del Millennio delle Nazioni Unite nel 2000, l’Assemblea generale e i 193 Paesi membri adottarono otto obiettivi di sviluppo internazionale da raggiungere entro l’anno 2015, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals, MDG). Il primo obiettivo era quello di dimezzare, tra il 1990 e il 2015, la percentuale di persone con un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno (la cosiddetta soglia di povertà assoluta o estrema). In relazione a questo impegno, ci fu grande soddisfazione quando i dati indicarono che l’obiettivo di dimezzare la proporzione fu raggiunto con cinque anni di anticipo rispetto alla scadenza del 2015: dal 1990, più di 1 miliardo di persone erano state sottratte alla povertà estrema.
Nel 2015, sempre in occasione del Vertice annuale delle Nazioni Unite a New York, l’agenda internazionale si fece più ambiziosa, sostituendo gli MDG con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG). Non solo si trattava di un’agenda integrata di obiettivi di sviluppo che non si concentrava più principalmente sulla dimensione sociale dello sviluppo (dando pari dignità anche alle dimensioni economica ed ambitale, al punto di allargare il campo di intervento a 17 obiettivi, anziché otto) e che diventava universalistica (cioè, non più un’agenda di cooperazione allo sviluppo per aiutare i Paesi in via di sviluppo – PVS –, ma un’agenda per tutti i Paesi, chiamati a migliorare le condizioni di sviluppo, indipendentemente dal livello di povertà estrema), ma si prefiggeva anche di completare il lavoro avviato dall’agenda del millennio.
In particolare, il primo obiettivo, al centro dell’agenda degli SDG, diventava quello di eliminare o sradicare – cioè, azzerare – la povertà estrema entro il 2030 per tutte le persone ovunque, sempre misurata come numero di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. A questo primo specifico traguardo da raggiungere (traguardo 1.1), se ne aggiungevano poi altri sei, da raggiungere sempre entro il 2030, relativi a:
- Almeno il dimezzamento della percentuale di uomini, donne e bambini di tutte le età che vivono in povertà in tutte le sue dimensioni (non unicamente economica), secondo le diverse definizioni nazionali (1.2);
- L’attuazione di sistemi e misure di protezione sociale appropriati a livello nazionale per tutti, compresi i piani per raggiungere una copertura sostanziale dei poveri e delle persone vulnerabili (1.3);
- La garanzia che tutti gli uomini e le donne, in particolare i poveri e le persone vulnerabili, abbiano pari diritti alle risorse economiche, nonché accesso ai servizi di base, alla proprietà e al controllo della terra e di altre forme di proprietà, all’eredità, alle risorse naturali, alle nuove tecnologie appropriate e ai servizi finanziari (1.4);
- Lo sviluppo della resilienza dei poveri e di coloro che si trovano in situazioni di vulnerabilità e la riduzione della loro esposizione e vulnerabilità agli eventi estremi legati al clima e ad altri shock e disastri economici, sociali e ambientali (1.5);
- La garanzia di una significativa mobilitazione di risorse da diverse fonti, anche attraverso una maggiore cooperazione allo sviluppo, al fine di fornire mezzi adeguati e prevedibili ai PVS, in particolare a quelli meno avanzati, per attuare programmi e politiche volti a porre fine alla povertà in tutte le sue dimensioni (1.6);
- La creazione di quadri politici solidi a livello nazionale, regionale e internazionale, basati su strategie di sviluppo a favore dei poveri e attenti alle questioni di genere, per sostenere investimenti accelerati nelle azioni di eliminazione della povertà (1.7).
A otto anni dalla scadenza programmata dell’agenda 2030 per il raggiungimento degli SDG è lecito domandarsi se si è sulla buona strada per quanto riguarda l’ambizioso obiettivo di azzerare la povertà economica estrema nel mondo e se le crisi contestuali più recenti – a cominciare da quella pandemica, dei cambiamenti climatici e della guerra in Ucraina – stiano alterando il quadro e in che direzione.
Per quanto riguarda il primo punto, è opportuno sfatare alcune confortanti convinzioni e, sulla base di questa premessa, dire che la risposta è tutt’altro che chiara, semplicemente perché le informazioni disponibili, sia affidabili che recenti, sulla povertà nei diversi Paesi del mondo non sono così numerose come forse, erroneamente, si potrebbe pensare. Per quanto riguarda il secondo punto, anche se i dati disponibili – per quanto appena detto – sono molto parziali, le stime tendono a concordare circa un significativo peggioramento della situazione e un’inversione negativa di tendenza negli ultimi anni.
Secondo i dati della Banca Mondiale, infatti, il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema è diminuito costantemente per quasi 25 anni. Ma la tendenza si è interrotta nel 2020, quando la povertà è aumentata a causa degli sconvolgimenti causati dalla pandemia da COVID-19, combinata con gli effetti dei conflitti e dei cambiamenti climatici, che avevano già rallentato la riduzione della povertà.
In particolare, la diminuzione del reddito, la perdita di posti di lavoro e l’interruzione del lavoro durante la pandemia avrebbero danneggiato soprattutto le famiglie povere. Le donne, i giovani e i lavoratori a basso salario e poco qualificati e quelli – la maggioranza della popolazione – impiegati nel cosiddetto settore informale (ovvero, le attività economiche svolte da lavoratori e unità economiche che – per legge o nella pratica – non sono coperte – o sono coperte in modo insufficiente – da accordi formali e dalle tutele dei diritti dei lavoratori, in termini di livello retributivo, sicurezza sul lavoro, forme assicurative e pensionistiche), soprattutto quelli che vivono nelle aree urbane, sono stati tra i più colpiti. Le disuguaglianze sono, dunque, aumentate sia all’interno dei Paesi che tra i Paesi, con effetti negativi sull’accesso alle opportunità e alla mobilità sociale a lungo termine.
Le misure di confinamento, o di blocco, il cosiddetto lockdown, che hanno imposto d’autorità durante l’emergenza restrizioni alla libera circolazione delle persone, sono state una politica di base adottata quasi ovunque nel mondo per contenere la diffusione del virus e ciò ha comportato una perdita di reddito per coloro che non possono lavorare da casa. Nei PVS, la percentuale di lavori che potrebbero essere svolti a casa è molto bassa, diversamente da quello che accade nel Nord del mondo, per cui gli effetti negativi della pandemia e la conseguente ripresa non sono stati sperimentati in modo uniforme nei diversi Paesi e all’interno dei singoli Paesi, penalizzando i più poveri. In pratica, il risultato è che l’impatto negativo della pandemia da COVID-19 è risultato maggiore per i più poveri del mondo e la forbice distributiva del reddito e delle ricchezze, oltre che delle opportunità, si è ulteriormente allargata, con un calo di reddito più marcato per i poveri e le persone appena al di sopra della soglia di povertà, che sono sprofondate nella povertà. Per la prima volta negli ultimi 20 anni, si stima che la disuguaglianza tra i Paesi sia aumentata nell’ultimo periodo, oltre all’aumento purtroppo persistente di quella all’interno dei Paesi.
Secondo recenti stime della Banca Mondiale, nel 2022 tra i 75 e i 95 milioni di persone in più potrebbero vivere in condizioni di povertà estrema rispetto alle proiezioni precedenti al COVID-19, a causa degli effetti persistenti della pandemia, della guerra in Ucraina e dell’aumento dell’inflazione. A livello mondiale, si stima che siano andati persi tre o quattro anni di progressi in direzione dell’eliminazione della povertà economica estrema. Il numero di poveri è aumentato in tutte le regioni, in particolare in Africa subsahariana, in America Latina e nei Caraibi.
Ancora più nello specifico, l’inflazione alimentare può avere un impatto particolarmente devastante sulle famiglie povere dal momento che, mediamente, una persona di un Paese a basso reddito spende circa due terzi delle proprie risorse per il cibo, mentre la stessa cifra per una persona di un Paese ad alto reddito si avvicina mediamente al 25%. Ad aggravare la situazione dei PVS, è vero che le politiche pubbliche messe in campo dai governi potrebbero mitigare l’impatto dell’aumento dell’inflazione sulle famiglie povere attraverso politiche di protezione sociale; tuttavia, le finanze pubbliche si sono impoverite a causa delle misure fiscali adottate durante la crisi pandemica e dell’accresciuto livello di indebitamento pubblico verso l’estero che restringe i margini di manovra dei governi nazionali. Inoltre, i PVS non possono neppure trarre grande giovamento dal fatto che hanno una popolazione mediamente giovane e, per questo, meno vulnerabile agli effetti della pandemia sulla salute. In generale, infatti, i sistemi sanitari dei PVS tendono a essere molto più deboli di quelli dei Paesi avanzati. Inoltre, i tassi di morbilità (cioè, il rapporto percentuale tra il numero di giornate di assenza dal lavoro per malattia e il numero di giornate lavorative previste) e mortalità più elevati a causa della pandemia da COVID-19 sono stati collegati alla concomitanza di patologie come ipertensione e diabete, ma anche a povertà, inquinamento e malnutrizione, il che rende le popolazioni dei PVS molto vulnerabili. Esistono, inoltre, legami non sufficientemente chiariti tra gli effetti più gravi della pandemia sulla salute e la compresenza di altre malattie come la tubercolosi, l’HIV/AIDS, la malaria cronica e problemi respiratori, che sono molto diffusi nei PVS. Le stime disponibili oggi indicano che circa 470 milioni di persone a livello mondiale sono ad alto rischio di risultare positivi al COVID-19 a causa di condizioni di povertà preesistenti, in particolare malnutrizione, mancanza di accesso all’acqua potabile e inquinamento dell’aria nelle abitazioni dovuto all’uso di combustibili per cucinare.
Inoltre, una nuova pubblicazione congiunta di organizzazioni internazionali, compresa la Banca Mondiale, l’UNICEF, l’Agenzia statunitense di cooperazione allo sviluppo (USAID) e la Bill & Melinda Gates Foundation, che si intitola “The State of Global Learning Poverty: 2022 Update”, sottolinea che già prima della pandemia esisteva una crisi di povertà dell’apprendimento, che è aumentata notevolmente a causa della pandemia, anzitutto a seguito delle interruzioni scolastiche.
In ragione di tutto ciò, gli studi recenti suggeriscono che gli effetti delle attuali crisi si faranno quasi certamente sentire nella maggior parte dei Paesi fino al 2030. In queste condizioni, l’obiettivo di portare il tasso di povertà estrema nel mondo a meno del 3% entro il 2030, che era già a rischio prima della pandemia, appare ormai irraggiungibile.
C’è poi dell’altro, che pure non è confortante ed è legato al primo punto menzionato. I dati che utilizziamo sulla povertà nel mondo non sono così affidabili come vorremmo.
Anzitutto, il dato della soglia di povertà economica estrema fissato a 1,90 dollari pro capite al giorno non è considerato più il riferimento a partire dal 2022. I dati sulla povertà sono ora espressi in prezzi a parità di potere d’acquisto (in pratica, un metodo di conversione con cui si costruisce un indice che consente di confrontare i livelli dei prezzi tra Paesi e nel tempo) del 2017, rispetto ai prezzi a parità del potere d’acquisto del 2011 considerati finora, e la soglia è aumentata da 1,90 a 2,15 dollari. Già questa è una modificazione che altera il quadro; basti dire che se calcoliamo – utilizzando i dati della Banca Mondiale – il numero di poveri al mondo che vivevano nel 2019 con meno di 2,15 dollari (prezzi a parità potere d’acquisto 2017) abbiamo 648 milioni di persone,
I poveri sarebbero, invece, 668 milioni secondo la stessa banca dati considerando quanti vivevano con meno di 1,90 dollari (prezzi a parità potere d’acquisto 2011).
Si dirà che fortunatamente c’è stata questa correzione perché, con l’evolversi delle differenze nei livelli di prezzo nel mondo, la soglia di povertà globale deve essere aggiornata periodicamente per riflettere tali cambiamenti, dovuti a un aumento dei costi dei generi alimentari di base, dei vestiti e degli alloggi nei PVS.
In realtà – si tratta di un ragionamento legato ad aspetti tecnici, ma che è importante chiarire – la Banca Mondiale calcola, sulla base della soglia aggiornata della povertà estrema, che i Paesi a medio reddito (ricompresi all’interno del gruppo dei PVS) ospitino il 75% della popolazione mondiale e il 62% dei poveri, secondo tale soglia. Ma, tornando alla soglia di povertà estrema (in precedenza pari a 1,90 dollari), essa era stata calcolata come la media delle soglie di povertà nazionali di alcuni Paesi a basso reddito (e non a reddito medio), per l’esattezza solo 15 Paesi (in totale oggi sono 28 i Paesi a basso reddito) per i quali effettivamente si avevano stime della diffusione della povertà basate su recenti indagini campionarie: Ciad, Etiopia, Gambia, Ghana, Guinea- Bissau, Malawi, Mali, Mozambico, Nepal, Niger, Ruanda, Sierra Leone, Tagikistan, Tanzania e Uganda. Per i Paesi a medio reddito, invece, la Banca Mondiale aveva calcolato due altre soglie, rispettivamente per i Paesi a reddito medio-basso (che in totale oggi sono 54 Paesi) e medio-alto (altri 54 Paesi) che erano pari a 3,20 e 5,50 dollari al giorno, rispettivamente aggiornate nel 2022 a 3,65 e 6,85 dollari pro capite giornalieri.
Tutto questo significa che la povertà estrema è concentrata, in termini di numeri assoluti, in Paesi a medio reddito, per i quali però, si adotta una soglia ritenuta congrua per la realtà dei Paesi a basso reddito: è sufficiente calcolare l’andamento complessivo della povertà nel mondo, utilizzando la soglia di 6,85 dollari pro capite giornalieri (quella che dovrebbe essere correlata alla soglia di povertà nei Paesi a reddito medio-alto), per avere una fotografia completamente diversa della situazione, con un totale di 3,59 miliardi di poveri, un numero peraltro di poco inferiore rispetto a quello dell’anno utilizzato come base di confronto nel caso degli MDG.
Ciò, evidentemente, comporta il rischio di una stima al ribasso del numero di quanti vivono in povertà estrema, una stima distorta e tendenzialmente ottimistica, come conferma il fatto che, proprio in ragione di dati recenti presenti solo per pochi PVS (non più del 30%), nella maggioranza dei casi si calcola il numero di quanti vivono in povertà estrema attraverso un’estrapolazione di dati risalenti all’evoluzione del reddito e alla percentuale di poveri di dieci anni prima. L’estrapolazione è tendenzialmente distorta perché, per convenzione, presuppone discrezionalmente che l’evoluzione nel tempo sia neutra dal punto di vista distributivo, il che significa che, se negli ultimi anni la distribuzione è stata invece regressiva, come è probabile all’interno dei PVS (cioè che i più poveri abbiano guadagnato meno che proporzionalmente rispetto al passato dagli incrementi di reddito, rispetto a quanto guadagnato dai più ricchi), il numero dell’estrapolazione sottostima il numero totale di poveri.
Si aggiunga, se ciò non bastasse, il fatto che quattro Paesi sono responsabili della riduzione in numeri assoluti della povertà estrema nel mondo, che permise di raggiungere l’obiettivo del dimezzamento della povertà estrema previsto negli MDG: la Cina rappresenta da sola i due terzi della riduzione del numero assoluto dei poveri nel mondo, mentre l’India, l’Indonesia e il Vietnam quasi la totalità della parte restante. Ciò significa che, numericamente, quello che succede in pochi Paesi asiatici – in ragione della numerosità della popolazione e dei poveri che vi abitano e del successo contabile – determina il destino dell’andamento mondiale, mettendo in ombra quel che di positivo e di negativo succede in centinaia di altri PVS (che sono la somma dei 54 Paesi a reddito medio-alto, 54 a reddito medio basso e 28 a basso reddito).
A voler essere pignoli si potrebbe aggiungere che, in termini di indicazioni di policy, un’ulteriore distorsione interpretativa viene dal fatto che si guarda all’evoluzione nel lungo periodo (il dimezzamento della proporzione di poveri tra il 1990 e il 2015 e il suo azzeramento entro il 2030) che è appunto una potenziale fonte di distorsione perché, guardando a questo dato aggregato, si perdono di vista le differenze tra PVS e le variazioni di breve periodo, dando l’impressione che il risultato finale sia frutto della media di un processo lineare nel tempo, quando invece, come dimostra la pandemia, il sentiero di sviluppo è tutt’altro che lineare e occorre indagare come rilevanti le variazioni annuali (se non addirittura stagionali). Infatti, i dati sulla povertà raccolti nei PVS sono poco regolari e solo con un’interpolazione solitamente lineare si “finge” di attribuire un’evoluzione lineare e continua alla realtà della povertà che, invece, presenta “buchi” informativi in molti anni.
Di conseguenza, quel che qui preme segnalare è che, per una serie di ragioni, occorrerebbe concentrarsi molto più sul cambiamento storico e in termini granulari e non aggregati del fenomeno della povertà, ben al di là di quel che i dati disponibili consentono. Avere più dati recenti e affidabili significherebbe, però, investire molto di più nella raccolta di informazioni sulla povertà, economica e multidimensionale, il che pare purtroppo molto poco realistico almeno nell’immediato.
La disponibilità e il dettaglio dei numeri sulla povertà concorrono a determinare l’analisi che conferma o smentisce ipotesi teoriche e orienta le scelte politiche. Insomma, è corretto criticare i limiti dei dati disponibili, a cominciare da quelli relativi alla distribuzione di reddito o di consumo presenti nel database PovcalNet della Banca Mondiale, come pure in passato capitò quando furono rese disponibili le prime serie di dati a livello mondiale di contabilità nazionale relative alla crescita economica con la Penn World Table (oggi arrivata alla versione 10.0). Si trattava e si tratta di stime, parziali, non sempre affidabili e accurate, nei confronti delle quali è raccomandabile tenere un atteggiamento prudente e di cautela, in modo particolare per diversi Paesi, ma sono comunque dati fondamentali, capaci di stimolare e permettere una grande mole di ricerca empirica e di condurre valutazioni provvisorie delle politiche macro. Sarebbe sbagliato non prestare attenzione a questi dati, preziosissimi in ragione della difficoltà a raccogliere informazioni sulla povertà; l’importante è che non si confondano stime, per quanto importantissime, con dati esatti della realtà fattuale.
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