La voce inascoltata dei bambini Rohingya dal subcontinente indiano
Eravamo venuti a vivere in pace e volevamo che i nostri figli fossero al sicuro da ciò che abbiamo affrontato in Myanmar. Ma siamo sfortunati. Anche allontanarsi dal Myanmar non ha aiutato né noi né i nostri figli – dice Zahoora Begum, rifugiata in un campo vicino a Kinara Talab, Jammu. Si vedono bambini Rohingya giocare insieme fuori dalla loro capanna nel campo; hanno lasciato la scuola, temono la detenzione e l’atteggiamento ostile della comunità locale.
Da secoli, la comunità dei Rohingya risiede nello Stato di Rakhine, in Myanmar. Hanno cominciato a dover affrontare i primi problemi politici ed etnici all’interno del loro Stato intorno al 2012. La comunità dei Rohingya segue la religione islamica; quindi, costituisce un’etnia minoritaria all’interno del Myanmar, nazione in cui la maggioranza della popolazione è buddista. La crisi politica interna al Myanmar tra la comunità maggioritaria e quella di minoranza – buddista e Rohingya, rispettivamente – ha richiamato l’attenzione mondiale intorno all’anno 2012, con le notizie di atrocità di massa e di una ostilità pubblica e sistemica su vasta scala, accompagnate da massacri che le Nazioni Unite considerano un genocidio perpetrato contro i Rohingya nella loro patria. La repressione da parte del gruppo etnico maggioritario sulla minoranza musulmana è stata sistematicamente esercitata sotto forma di violenze pubbliche di massa, aggressioni sessuali generalizzate contro le donne Rohingya e persecuzioni discriminatorie contro uomini, donne e bambini da parte dell’esercito e delle forze di polizia nazionali. Il mondo è stato preso alla sprovvista quando in Myanmar i protettori si sono trasformati in assalitori. Secondo quanto riferito, i paesi sviluppati hanno riconosciuto questa violenza come “pulizia etnica in Myanmar”. In tutto il mondo, le organizzazioni internazionali, tra cui diverse agenzie delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia e altre organizzazioni per i diritti umani, hanno criticato ampiamente il Myanmar. Inoltre, la famosa leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi è stata aspramente criticata per il suo silenzio e il suo mancato intervento in risposta ai numerosi ed efferati crimini perpetrati a danno dei giornalisti delle minoranze etniche e religiose che denunciavano le atrocità. Da allora, è iniziata la migrazione di massa dei Rohingya verso i paesi vicini come India, Bangladesh, Thailandia, Malesia e altre regioni dell’Asia e del Sud-Est asiatico nel tentativo di salvare le loro vite.
Già a partire dal XX secolo, studiosi, accademici, attivisti sociali, editorialisti, scrittori della diaspora e commentatori politici hanno ampiamente scritto sui temi della migrazione, dello sradicamento, della perdita della madrepatria e dell’identità in generale. Le tante storie, pubblicate con regolarità, su analogie e differenze tra i rifugiati hanno preso in considerazione il tema della diversità a più livelli, sia nel discorso letterario, che in quello culturale e mediatico. Pertanto, la letteratura sulla migrazione recentemente è diventata un elemento critico di crescente interesse a livello internazionale. Tuttavia, tra i tanti lavori pubblicati, a più livelli, per comprendere, riconoscere e gestire una tra le questioni contemporanee più scottanti al mondo, come le migrazioni forzate, le emergenze internazionali, le calamità naturali e così via, la questione dei rifugiati Rohingya, in particolare quella delle donne e dei bambini, non ha ricevuto la dovuta attenzione.
Nelle crisi sociali, politiche e umanitarie più acute, le donne e i bambini sono da sempre i primi a patire le conseguenze, ma rimangono intenzionalmente inascoltati e trascurati dal discorso più generale. Non fa eccezione il caso delle donne e dei bambini Rohingya, a cui si è a malapena prestato ascolto o attenzione, nonostante la loro condizione di estrema vulnerabilità. Pertanto, è fondamentale dare voce ai racconti inascoltati e trascurati di donne e bambini Rohingya, in particolare su quanto stanno subendo nel subcontinente indiano.
La Banca mondiale (The World Bank, 2019) per il 2019 stimava una popolazione di circa 54 milioni di abitanti in Myanmar, tra cui circa 1,3 milioni di Rohingya. Secondo i rapporti pubblicati dal Ministero degli Interni indiano e da Reuters, i rifugiati fuggiti in India sono circa 40.000 (Quadir, 2019; The Hindu, 2017); tra questi, nel gennaio 2019 l’UNHCR/India ha ufficialmente riconosciuto solo 18.000 rifugiati Rohingya, concentrati soprattutto intorno a Jammu, Assam e Delhi. Ciò significa che più della metà dei Rohingya in India è costituita da rifugiati senza nazionalità e senza status, che vivono in condizioni estremamente svantaggiate. I rifugiati Rohingya apolidi e abbandonati, e precisamente le donne e i bambini, hanno trovato un altro destino infausto che li attendeva in India. Le vittime, fuggite dalla violenza di Stato per sopravvivere, una volta emigrate si sono trovate ad affrontare di nuovo una situazione altrettanto drammatica che li attendeva in India. Fanno lavori umilianti per sostenersi economicamente e vivono in fatiscenti baraccopoli sparse per l’India.
Le donne e i bambini Rohingya costituiscono il gruppo più vulnerabile tra i rifugiati. Sono circa un milione i rifugiati fuggiti dal Myanmar dal 2017; i dati dicono che più della metà sono bambini. In mezzo al caos, sono stati a malapena ascoltati e non hanno ricevuto attenzione o visibilità. Sono soggetti a malattie, oggetto di traffici, vengono sfollati o scompaiono. Le probabilità di essere infettati da malattie per loro sono più alte, a causa dell’assenza di servizi igienico-sanitari adeguati, di igiene e di un’alimentazione nutriente. Continuano a sopravvivere nella più totale incertezza. I campi profughi non sono luoghi sicuri per i bambini, se si prende in considerazione il loro benessere fisico e mentale. I bambini giungono nei campi profughi da situazioni altamente traumatiche, molti potrebbero aver assistito alle brutali uccisioni dei loro genitori, di amici o parenti. Tuttavia, nella nazione che li ospita non hanno alcun accesso a un supporto psicologico, né viene fornito loro un ambiente sano e confortevole, che possa aiutarli ad affrontare i traumi passati. Inoltre, hanno a malapena accesso diretto all’istruzione e ad altri servizi essenziali per una sana sopravvivenza nei campi profughi. I bambini sono, d’altra parte, a rischio di violenze, lavoro minorile, abusi, matrimoni infantili e sfruttamento di vario genere nei campi profughi. Onno van Manen, Country Director di Save the Children, ha spiegato chiaramente che “nonostante gli sforzi incessanti delle comunità umanitarie, un campo profughi non è un posto dove far crescere un bambino”. Manen ha aggiunto che “i bambini bloccati nei campi di Cox’s Bazar (i più grandi campi profughi con sede in Bangladesh) si trovano a dover affrontare un futuro cupo, con poca libertà di movimento, accesso inadeguato all’istruzione, povertà, gravi rischi per la protezione personale e altri abusi, incluso il matrimonio infantile”. In seguito, i ragazzi più grandi e gli adolescenti hanno maggiori possibilità di diventare la “generazione perduta”, senza concrete opportunità di istruzione e deprivati della possibilità di vivere dignitosamente entrando a far parte di una società civilizzata. Quindi, possono facilmente diventare preda di trafficanti e finire sotto custodia legale.
Inoltre, nel paese ospitante i bambini subiscono discriminazioni che impediscono loro di uscire, fare amicizia e vivere un’infanzia normale. Un articolo pubblicato su The Diplomat, datato 28 giugno 2022, descrive il tormento di un padre di 60 anni che sogna ancora di assicurare un futuro più solido, migliore e sicuro ai suoi figli. Un rifugiato di nome Noor Alam vive nel campo vicino a Jammu e ha una famiglia di sette persone. Sogna di lasciare l’India e di trasferirsi in un altro paese per dare un futuro sicuro ai suoi figli, ma non può permettersi di affrontare il costo di circa 20.000 rupie a persona, poiché è ridotto a mendicare per sfamare la famiglia. Sogna ad occhi aperti il giorno in cui si trasferirà in un posto migliore, dove i suoi figli avranno pari opportunità di istruzione e di standard di vita adeguati. Dice che “nessuno vuole che i propri figli soffrano, nessuno vuole che i propri figli siano presi di mira per la loro identità… Ogni volta che i nostri figli escono dalla baraccopoli per giocare, vengono cacciati via dagli altri bambini. Vengono presi in giro perché sono dei rifugiati e nessuno vuole giocare con loro. I miei figli mi chiedono spesso perché siamo trattati come criminali. Qual è la nostra colpa? A volte sento che i nostri figli vivono una vita da prigionieri, in cui non hanno la libertà di uscire quando vogliono. Passano l’intera giornata a giocare, ma soltanto in una baraccopoli da cui non escono per paura di essere presi in giro e identificati”.
Quindi occorre portare alla ribalta l’urgente questione dei bambini rifugiati, a cui a malapena è stata prestata attenzione o la cui voce è rimasta inascoltata. I bambini e le donne sono generalmente considerati il gruppo di vittime più vulnerabili. Per l’appunto, una civiltà prospera o prospetta un futuro migliore se le nuove generazioni sono ben istruite, ben nutrite e ben informate. L’ambiente in cui i bambini crescono influenza non solo il loro presente ma anche il loro futuro. Pertanto, è importante fornire loro un ambiente sicuro, protetto e sano per crescere. Invece questi bambini rifugiati, mentre lottano per sopravvivere e fanno lavori umilianti, vedono la loro infanzia scivolare via.
Versione originale dell’articolo
Foto Credits: Anna Dubuis /DFID, Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0), attraverso Flickr
Tasnim News Agency, CC BY 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0>, via Wikimedia Commons