In libreria – 40 Years of China’s War on Poverty
Un volume di Xinkai Zhu * e Chao Peng**
L’agenda 2030 per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG), lanciata all’Assemblea generale della Nazioni Unite nel 2015, riconosce che l’eliminazione della povertà in tutte le sue forme e dimensioni, compresa la povertà estrema, è la più grande sfida globale e un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile.
Il primo Obiettivo di sviluppo sostenibile (SDG 1) mira a “porre fine alla povertà in tutte le sue forme, ovunque”. I sette target e quattordici indicatori associati mirano, tra l’altro, a sradicare la povertà estrema per tutte le persone ovunque, a ridurre almeno della metà la percentuale di uomini, donne e bambini di tutte le età che vivono in condizioni di povertà, ad attuare sistemi e misure di protezione sociale appropriati a livello nazionale per tutti, raggiungendo entro il 2030 una copertura sostanziale dei poveri e delle persone vulnerabili.
Tuttavia, ci sono almeno tre ragioni per essere molto preoccupati sulla possibilità di raggiungere questo obiettivo da qui a otto anni, cioè entro il termine previsto del 2030.
La prima ragione è di natura puramente informativa. A dispetto di quel che si può immaginare navigando in Internet e cercando dati – attraverso consultazioni su un motore di ricerca – sul numero di poveri al mondo e nei diversi Stati, la realtà è che sappiamo poco su quanto sia diffusa la povertà nel mondo oggi, cioè è molto difficile stabilire quanti siano i poveri oggi. Oltre al fatto che sia tutt’altro che condivisa la concettualizzazione sulla povertà e che siano perciò tutte opinabili o, perlomeno, parziali le scelte degli indicatori utilizzati per misurare la diffusione della povertà (dimensione economica o multidimensionale? Soglia nazionale o internazionale di povertà assoluta? Soglia a 2,15, 3,65 o 6,85 dollari pro capite al giorno? E così via), tali indicatori non sono rassicuranti come sembrano. In generale, la maggior parte delle stime disponibili sulla povertà nei Paesi in via di sviluppo sono caratterizzate da un’ampia interpolazione ed estrapolazione di dati raccolti una decina di anni fa che – per ragioni tecniche che non si possono qui analizzare nel dettaglio – tendono a produrre sempre stime molto ottimistiche, cioè che presentano uno scenario che tende a ridurre il numero di poveri. È, inoltre, molto difficile che poco dopo il 2030 si saprà quanti saranno i poveri nei diversi Paesi nel 2030 e, quindi, in termini di indicazioni sui risultati raggiunti e per la definizione di una nuova strategia post-2030, le informazioni essenziali di fatto mancheranno.
La seconda ragione è legata a fattori esterni, seppure a carattere spesso strutturale, cioè l’impatto negativo delle grandi crisi globali sulla diffusione della povertà. Basti pensare alla pandemia da COVID-19, ai cambiamenti climatici e alla guerra. Gli effetti negativi, in particolare per le persone più vulnerabili, a cominciare dai più poveri, sono sotto gli occhi di tutti. Con riferimento alla pandemia è sufficiente ricordare che i sistemi sanitari dei Paesi in via di sviluppo tendono a essere molto più deboli di quelli dei Paesi avanzati e, anche se mediamente giovane, la popolazione di quegli stessi Paesi ha vulnerabilità specifiche – elevata povertà, malnutrizione, malaria cronica, inquinamento, malattie come la tubercolosi e l’HIV/AIDS – che creano un’ulteriore vulnerabilità alla morbilità e alla mortalità da COVID-19. Inoltre, i lockdown sono stati quasi dovunque utilizzati come misura di base per contenere la diffusione del virus, con conseguenze in termini di perdita di reddito soprattutto per i poveri, più vulnerabili e meno protetti, che non potevano lavorare da casa. In pratica, i poveri e coloro che gravitavano appena al di sopra della cosiddetta soglia di povertà nei Paesi a basso e medio reddito non sono stati in grado di reggere l’urto della pandemia e il numero dei poveri è aumentato a livello mondiale. Si aggiunga a questo che la debolezza dei sistemi pubblici nazionali, nel caso dei Paesi poveri indeboliti da crescenti livelli di indebitamento e scarsa libertà di manovra, non può assicurare un sistema di protezione e tutela delle fasce più vulnerabili che sarebbe invece fondamentale.
La terza ragione che induce al pessimismo è legata a un eccesso di ottimismo che circolava intorno al 2015. In fondo, quando si passò nel 2015 dalla strategia 2000-2015 per raggiungere i cosiddetti Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals, MDG), a cominciare dal dimezzamento della povertà assoluta nel mondo tra il 1990 e il 2015, si registrò con grande soddisfazione il suo effettivo conseguimento con anni di anticipo rispetto alla scadenza del 2015. In realtà, quel “successo” fu dovuto soprattutto a una manciata di Paesi: si consideri, infatti, che i dati più recenti disponibili indicano che, tra il 1981 e il 2019, il numero di persone che vivevano al di sotto della soglia più bassa (1,90 dollari pro capite al giorno) di povertà monetaria assoluta, è sceso da 1,9 miliardi di persone a circa 0,7 miliardi, ovvero dal 43% della popolazione mondiale ad appena il 9%. Tuttavia, responsabili di questa riduzione in numeri assoluti sono soltanto quattro Paesi: la Cina rappresenta i due terzi e l’India, l’Indonesia e il Vietnam insieme rappresentano la parte restante. In altri termini, la povertà assoluta è diminuita (se calcolata coi dati disponibili in base alla soglia di 1,90 dollari) nel mondo, grazie a quanto è successo in quattro Paesi asiatici, a cominciare dalla Cina.
Proprio quest’ultimo punto evidenzia quanto sia importante conoscere come la Cina, protagonista assoluta di questo “miracolo” della lotta alla povertà economica, sia riuscita a conseguire risultati che appaiono eccezionali, cogliendone luci e ombre. Il volume pubblicato da due docenti cinesi di economia agraria Zhu Xinkai, Professore all’ Università Renmin a Pechino e consulente del Ministero dell’Istruzione, e Chao Peng, Professore al Centro studi sull’economia rurale del Ministero dell’agricoltura sempre a Pechino, offrono un contributo al riguardo, illustrando il percorso di riduzione della povertà in Cina ed esplorando l’approccio e la teoria alla base dell’esperienza del Paese. Certamente, occorre fare la tara alle parole, per evitare di essere vittime di toni agiografici. Ma la realtà resta impressionante: la campagna cinese contro la povertà ha liberato dalla povertà 800 milioni di persone, pari a tre quarti della popolazione mondiale povera, in soli 40 anni. Come riconosceva pubblicamente anche Helen Clark, già Primo ministro della Nuova Zelanda e poi a capo del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (United Nations Development Program, UNDP): “la Cina ha fatto uscire dalla povertà le persone più povere su una grande scala che ha catturato l’attenzione del mondo e con una velocità che non ha eguali”. Sia chiaro, la povertà non è stata sconfitta in Cina e, durante la quinta sessione plenaria del 18° Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC), era stato fissato entro il 2020 l’obiettivo di raggiungere una società “moderatamente prospera” sotto tutti i punti di vista, con l’uscita dalla povertà di tutti i poveri delle aree rurali. Al di là del fatto che i documenti governativi affermino che tutte le contee povere presenti sul territorio cinese siano riuscite a affrancarsi dalla povertà nei tempi previsti, a livello individuale e familiare la povertà non è stata debellata e lo stesso Segretario generale del PCC e presidente della Cina, Xi Jinping, ha più volte sottolineato che l’ultima fase di lotta alla povertà estrema, quella dell’eliminazione totale, sia la più difficile e cruciale.
Questo libro è una riflessione e uno studio approfondito di questa esperienza storica. La ragione principale dell’elevato numero di persone che vivevano in povertà fino agli anni Settanta in Cina era che i fattori del sistema economico limitavano lo sviluppo della produttività rurale. In seguito, con la riforma del sistema di funzionamento di base delle zone rurali, la produttività rurale crebbe molto, la produzione agricola e il reddito degli agricoltori aumentarono rapidamente e la popolazione rurale povera si ridusse notevolmente. Tuttavia, risultava difficile far uscire efficacemente i poveri delle campagne dalla povertà con la sola crescita economica e, dal 1986, il governo cinese portò avanti una serie di attività di riduzione della povertà e di sviluppo nelle aree rurali su larga scala. Fu istituito il meccanismo del “targeting” delle aree chiave (331 contee colpite dalla povertà) per il sostegno statale, costituendo così il prototipo della strategia di riduzione della povertà orientata allo sviluppo con caratteristiche cinesi. Dal 1992, l’economia cinese entrò nella fase di rapida crescita, l’effetto di riduzione della povertà della crescita economica divenne la principale forza trainante del lavoro di riduzione della povertà e dello sviluppo. Tuttavia, la rapida crescita economica creò un problema di sviluppo regionale squilibrato e di concentrazione della popolazione povera nelle aree rurali più arretrate. A fronte di grandi successi, emersero, dunque, nuove contraddizioni, a cominciare dalla situazione particolarmente grave dei poveri che vivevano in contee non sostenute dallo Stato, per cui fu adottato il “Programma per la riduzione della povertà e lo sviluppo delle aree rurali cinesi (2001-2010)”, che allentava le restrizioni sull’uso dei fondi per la riduzione della povertà, permettendo che venissero investiti a favore di popolazioni povere in contee diverse dalle aree chiave sostenute dallo Stato. Risultato: fra il 1978 e il 2011, i dati ufficiali indicano che il numero di persone in povertà estrema scese in Cina da 770 a 122 milioni.
Infine, per affrontare il nodo della sacche di povertà disperse nella Cina, il metodo di selezione per la riduzione della povertà è stato modificato da “target a livello di contea” a “target a livello di villaggio” e, nel 2011, lo Stato lanciò il “Programma per la riduzione della povertà e lo sviluppo delle aree rurali (2011-2020)”, che identificava 11 aree contigue colpite dalla povertà, come il Tibet, le aree tibetane di quattro province e le tre prefetture dello Xinjiang meridionale, quali principali campi di battaglia per la riduzione della povertà. Durante questo periodo, la strategia di riduzione della povertà e di sviluppo si è concentrata sulle differenze di sviluppo regionale, focalizzandosi sulla soluzione del problema della povertà nelle aree economicamente sottosviluppate della Cina nordoccidentale e sudoccidentale.
Su questa base, il libro ha selezionato l’equilibrio regionale (la cosiddetta crescita economica bilanciata), lo sviluppo industriale, la riduzione della povertà collegata alla protezione ambientale, la riduzione della povertà educativa e altri campi per l’analisi di casi speciali. In breve, un libro che, con un’inevitabile enfasi ortodossa – vista la prossimità degli autori alle funzioni governative – offre comunque informazioni preziose sul percorso e l’esperienza cinese.