I giovani e le donne: qualcosa può cambiare negli scenari politici palestinesi?
Che lo Stato di Israele stia affrontando una fase di rimodellamento politico è un dato ormai largamente condiviso dagli analisti internazionali. Quattro tornate elettorali in meno di due anni hanno infatti prodotto una eterogenea maggioranza che per la prima volta ha lasciato all’opposizione Netanyahu e i suoi alleati dei partiti religiosi, ma che tiene insieme forze profondamente diverse tra loro e, per la prima volta, anche un partito arabo-israeliano. Riuscire ad immaginare quali siano i possibili risultati, politici ed istituzionali, del nuovo assetto politico, dall’equilibrio assai precario, è tuttavia un compito davvero troppo arduo, soprattutto in una realtà politica come quella israeliana, storicamente liquida e volatile.
È però interessante riportare come il 28 dicembre 2021, il Ministro della Difesa Benny Gantz abbia ricevuto il Presidente dell’Autorità Palestinese (AP), Mahmud Abbas, nella sua residenza di Rosh Ha’ayin, nella prima visita ufficiale del leader palestinese sul suolo israeliano dal 2010. Così come per quello israeliano, anche il mondo politico palestinese ha visto negli ultimi mesi un riaccendersi dello scontro tra i partiti ed una nuova fase dell’eterno dibattito sul tema della rappresentanza, che da anni ne caratterizza la vita politica.
Tuttavia, se lo scenario politico israeliano appare confuso ma molto veloce e mobile, decisamente diversa è la realtà palestinese. Dopo il rinvio sine die delle elezioni (legislative e presidenziali) previste con molto ritardo per il 2021 – considerato che le precedenti risalgono al lontano 2006 – il mondo politico palestinese è in effetti sempre più diviso. Le prime elezioni parlamentari e presidenziali palestinesi si sono svolte nel 1996, subito dopo la creazione dell’Autorità Palestinese in base agli accordi di Oslo. Yasser Arafat, Presidente di lunga data dell’OLP e di Fatah, è stato Presidente dell’Autorità Palestinese (AP) fino alla sua morte nel 2004, e l’anno successivo è stato eletto Abbas per sostituirlo.
Nelle elezioni del 2006 il movimento islamista Hamas si è assicurato la maggioranza dei voti, e pesanti sanzioni sono state imposte al governo palestinese da Israele, Stati Uniti e Unione Europea che classificano il gruppo come organizzazione terroristica. La conseguente lotta per il potere, esacerbata dalla pressione internazionale, si è trasformata in un violento conflitto tra Hamas e Fatah, che ha portato il primo a prendere il controllo di Gaza e il secondo a governare la Cisgiordania, immobilizzando la politica palestinese. L’AP, che avrebbe dovuto gestire la Striscia di Gaza e meno del 40% della West Bank, è ampiamente percepita come corrotta e incompetente. Secondo i dati del Palestinian Centre for Policy and Survey Research (Public Opinion Poll N.82 del dicembre 2021), l’84% degli intervistati ritiene infatti che le istituzioni dell’AP siano corrotte e il 69% afferma lo stesso delle istituzioni controllate da Hamas nella Striscia di Gaza.
Da quando è succeduto a Yasser Arafat come leader palestinese nel 2004, Abbas ha puntato soprattutto a consolidare il suo potere all’interno dell’Autorità Palestinese (AP), l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e Fatah. Nel corso degli anni, Abbas ha costantemente epurato i suoi rivali politici, monopolizzato i processi decisionali palestinesi e perseguito misure sempre più autoritarie per soffocare il dissenso e ridurre lo spazio democratico e la partecipazione popolare (si veda a questo proposito l’uccisione del noto oppositore Nizar Banat del giugno 2021). Questa condizione di frammentazione e fragilità politica è stata aggravata dalle continue lotte intestine tra Fatah e Hamas, principali partiti protagonisti della scena politica, e dalla conseguente separazione politica tra la West Bank e Gaza.
Non sorprende dunque che la fiducia dell’opinione pubblica palestinese nelle tradizionali strutture di governo continui a diminuire, mettendo le istituzioni palestinesi, la presidenza di Abbas e l’AP, di fronte a una crisi di legittimità senza precedenti. Inoltre, sia Fatah che Hamas – caratterizzati da imponenti e complessi apparati burocratici – stanno assistendo ad un deciso declino del consenso popolare. Tale cambiamento è particolarmente evidente tra i giovani palestinesi, sempre più alienati dalla politica e dalle élite palestinesi e sempre più inclini ad una aggregazione non partitica ma legata alla società civile e alle organizzazioni non governative locali. Vale la pena a questo proposito sottolineare come la metà degli aventi diritto al voto nel 2021 abbia un’età compresa tra i 18 ei 33 anni e non abbia mai votato alle elezioni legislative prima d’ora.
In realtà, la situazione è però potenzialmente più dinamica di quanto appaia, e segnalare gli indicatori di un simile movimento – possibile ma nascosto – è l’obiettivo di queste note. Per comprendere questo moto sotterraneo è utile prendere in considerazione le recenti elezioni locali e le candidature alle elezioni politiche nazionali (poi rinviate), che mostrano un interessante quadro di partecipazione popolare e di maggiore diversificazione della proposta politica. I risultati, e la maggiore partecipazione popolare si possono forse spiegare – in parte – con la forza dei legami familiari e di clan (hamula) e attraverso la presenza di molte liste di natura clanica, ma la maggiore offerta politica nelle elezioni nazionali è un elemento su cui vale la pena di riflettere.
Le elezioni locali del 2021-2022 sono divise in due fasi, secondo una decisione presa dal Consiglio dei ministri dell’Autorità palestinese (AP): il primo turno di voto si è svolto l’11 dicembre 2021, in 376 autorità locali, per lo più rurali, nella zona C della West Bank. Il secondo turno avrà invece luogo il 26 marzo 2022 e comprenderà le restanti 66 autorità locali di Gaza e i comuni più grandi della Cisgiordania (area A e B). Hamas ha però boicottato le elezioni locali, e impedito l’inclusione di Gaza nei procedimenti elettorali. Le ultime elezioni locali si sono tenute, solo nella West Bank, nel 2017, e sono state altresì boicottate da parte di Hamas in opposizione alla AP. Il voto del dicembre 2021 ha visto un’affluenza del 66,14% e i candidati indipendenti (cioè coloro che non hanno legami ufficiali con un partito politico) hanno conquistato più del 70% dei seggi. Un simile trend sembrerebbe confermare almeno in parte il preesistente allontanamento dalla politica bipolare visto nelle ultime elezioni locali del 2017. Tuttavia, mentre poche delle liste elettorali erano esplicitamente collegate ai partiti tradizionali, è innegabile che molti dei partiti avessero in realtà delle connessioni non ufficiali con Fatah, mentre altri sono stati formati sulla base di relazioni familiari o tribali, ancora molto forti e presenti sul territorio. Hana Nasir, Presidente della Commissione Elettorale Centrale (CEC), ha detto a questo proposito in una conferenza stampa che il 79% degli eletti appartiene a liste indipendenti, riferendosi in gran parte a liste familiari o tribali che non hanno un’affiliazione politica ufficiale e Suheir Ismael Faraj, importante attivista della zona di Betlemme, ha parlato di una “clear victory for tribal lists”.
Il numero totale dei votanti è stato di 268.318 su 405.687 aventi diritto, cioè appunto il 66.14%: dato assai significativo se si considera che nelle contemporanee elezioni israeliane per la 24a Knesset l’affluenza al voto dei Palestinesi israeliani non ha superato il 44.6%. La registrazione degli elettori per la seconda fase inizierà l’8 gennaio, mentre l’inizio della campagna elettorale avverrà ufficialmente il 13 marzo. Lo scrutinio avrà luogo in 66 località, che rappresentano i comuni delle aree A e B della Cisgiordania, e 25 località a Gaza. La variabile più misteriosa a Gaza è certamente Hamas, che ha boicottato le elezioni di dicembre per protestare contro la cancellazione delle elezioni legislative dello scorso maggio. È però immaginabile che anche la dirigenza di Hamas si troverà sotto pressione, poiché l’ultima elezione a Gaza risale infatti al 2006, con la vittoria, appunto, del movimento islamico. A questo proposito è evidente il timore della comunità internazionale per una eventuale partecipazione di Hamas. Le numerose condanne contro il movimento islamista per i fatti del maggio del 2021 lasciano intendere conseguenze imprevedibili se dovesse prospettarsi uno scenario simile a quello del 2006.
Azzardando una previsione, è plausibile ipotizzare che Fatah continuerà ad essere la forza dominante all’interno dell’OLP e dell’AP, anche se l’emergere di Hamas e la sua vittoria nelle elezioni del Palestinian Legislative Council (PLC) nel 2006 hanno posto una seria sfida a Fatah e all’OLP nel suo complesso. Per quanto Fatah e Hamas – con la lunga scia di lotte intestine – rappresentino inevitabilmente l’asse intorno a cui orbita la maggior parte del consenso politico, sarebbe comunque un grave errore di prospettiva ridurre lo scenario politico e partitico palestinese a questa semplice dicotomia. Non va dimenticato infatti che altri raggruppamenti si contendono la rappresentanza. Senza correre il rischio di trascurare divergenze ideologiche significative, è il caso di ricordare, fra gli altri, Iniziativa Nazionale Palestinese (PNI) – Al Mubadara in arabo – che si descrive come un movimento democratico di resistenza non violenta all’occupazione, e sostiene la pace con Israele basata su una soluzione a due stati e il diritto al ritorno dei rifugiati. Il partito si considera una “terza forza democratica” nella politica palestinese e si oppone alla dicotomia tra Fatah (che considera corrotta e antidemocratica) e Hamas (che considera estremista e fondamentalista). Per le elezioni legislative del 2006, Iniziativa Nazionale Palestinese ha corso sotto il nome di Palestina Indipendente, candidando alcuni indipendenti e ottenendo il 2,7% e due seggi nel PLC. Un consenso non trascurabile raccoglie poi il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), partito socialista rivoluzionario fondato nel 1967 come organizzazione ombrello per gruppi marxisti-leninisti e nazionalisti arabi. Si tratta della seconda fazione più grande all’interno dell’OLP, e la principale forza di opposizione a Fatah. Il PFLP non sostiene la soluzione dei due Stati e chiede invece la liberazione di tutta la Palestina storica. In base ai risultati delle elezioni legislative del 2006, detiene 3 seggi all’interno del Palestinian Legislative Council (PLC). La Terza Via è invece un partito politico centrista palestinese attivo nell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che si presenta come un’alternativa al sistema bipartitico di Hamas e Fatah. Nelle elezioni PLC del gennaio 2006 il partito ha ricevuto il 2,41% del voto popolare e ha vinto due dei 132 seggi del Consiglio.
Se i due partiti maggiori, Fatah e Hamas, hanno visto ridursi il proprio seguito in modo consistente, soprattutto negli ultimi anni, di questo processo di erosione non hanno però approfittato in modo significativo neanche le nuove (o vecchie) formazioni politiche. Piuttosto, stando ai dati 2020/21 del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR), le nuove generazioni palestinesi ripongono in effetti scarsa fiducia nelle forze politiche e negli ultimi anni sembrano preferire aggregazioni di tipo civico e sociale. Nonostante il rinvio sine die delle elezioni nazionali, l’ipotesi di un progressivo emergere di forze alternative ai due partiti principali e di forze giovani che finora non hanno trovato una chiara rappresentanza politica, trova conferma anche dai dati sulle candidature giovanili alle elezioni nazionali, poi rinviate. I numeri infatti assumono grande rilevanza per disegnare un quadro più completo della vita politica palestinese, anche e soprattutto alla luce delle assurde restrizioni legislative che limitano la partecipazione giovanile imponendo alle liste una quota di registrazione di $ 20.000 ed una età minima per i candidati fissata a 28 anni, che sono inoltre tenuti a dimettersi dai loro lavori, indipendentemente dal fatto che vengano eletti o meno. Simili restrizioni sono un ovvio limite alla capacità elettorale passiva giovanile palestinese, una fascia demografica spesso poco considerata nella maggior parte delle analisi, sebbene non solo numericamente sempre più consistente, ma anche pesantemente svantaggiata in termini di prospettive di vita. Nel 2021, i tassi di disoccupazione a Gaza hanno infatti raggiunto il 50,2% ed il 68% per quanto riguarda le donne (dati del Palestinian Central Bureau of Statistics relativi al terzo trimestre 2021), e non è certamente un caso che nell’ultimo sondaggio del Palestine Center for Policy and Survey Research, un numero maggiore di palestinesi abbia indicato la disoccupazione e la corruzione – piuttosto che l’occupazione israeliana – come i problemi più gravi che la società palestinese deve affrontare attualmente.
In termini di partecipazione partitica, vale dunque la pena sottolineare come secondo i dati della Palestinian Central Election Commission del 2021 un totale di 36 liste e ben 1.389 candidati si fossero registrati alle elezioni legislative poi rinviate (di cui il 40% giovani di età compresa tra i 28 e i 40 anni), segnalando una chiara e nuova urgenza da parte dell’elettorato. Tra le liste presentatesi, avvalorando la tesi di un graduale allontanamento da una politica bipolare, vi era anche Fed Up, lista di esponenti della società civile e di molti giovani, tra cui quelli coinvolti nelle proteste della Grande Marcia del Ritorno 2018-2019 contro le restrizioni israeliane su Gaza e nelle proteste del 2019 “Let us live” (Bidna Na’ish) contro il governo di Hamas. Rilevante anche la presenza di Nabd al-Balad, altra lista indipendente orientata ad una rappresentanza giovanile. Altro dato da sottolineare è che, stando agli stessi dati, il 29% dei candidati era costituito da donne: elemento, questo, che rappresenta una novità importante (rispetto al conservatorismo culturale in generale ed islamico in particolare) e che in prospettiva può introdurre una dinamica finora rimasta del tutto marginale.
Infine, l’incremento delle candidature di esponenti dei Comitati Popolari di Resistenza (Popular Struggle Committees) mostra chiaramente come le organizzazioni della società civile palestinese si stiano progressivamente sostituendo, in termini di identità politica, ad una tradizionale politica partitica immobile e poco funzionale.
Mentre le elezioni locali si sono tenute ogni quattro anni come previsto dalla legge, la grande questione irrisolta per la politica palestinese rimane quella delle elezioni legislative e presidenziali. La leggera spinta che gli attuali risultati hanno dato a Fatah potrebbe incoraggiarne la dirigenza a considerare le elezioni legislative, ma una decisione definitiva sarà probabilmente presa solo dopo i risultati delle elezioni del 26 marzo. Nel frattempo, la paralisi istituzionale degli ultimi 15 anni testimonia come l’ordinamento palestinese, colpito dal perdurante conflitto con lo Stato di Israele ma anche da un apparato istituzionale confuso e fragile, non possa esimersi dalla necessità di riformare profondamente i propri supremi organi statali, facendo chiarezza tra le prerogative di OLP e ANP e stimolando una partecipazione politica non più incanalata in una stretta e poco efficiente politica bipolare, ma su forze politiche e sociali nuove e realmente rappresentative della popolazione, in particolare delle nuove generazioni.
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