In libreria – The Son King. Reform and repression in Saudi Arabia
Capitolo "Women and Rights" di Madawi Al-Rasheed *
Nel suo ultimo libro “Il figlio Re. Riforma e repressione in Arabia Saudita” (The Son King. Reform and repression in Saudi Arabia) pubblicato a New York dalla Oxford University Press, Madawi al-Rasheed mette a nudo il sistema repressivo che si cela dietro al riformismo di Muhammad bin Salman, principe ereditario della famiglia al-Saud. Nel sesto capitolo dell’opera, “Donne e diritti” (Women and Rights) al-Rasheed analizza la realtà in cui vivono le donne in Arabia Saudita: private dei loro diritti fondamentali e sottoposte ad una rigida custodia parentale (wilaya), molte donne cercano di ottenere rifugio all’estero, alimentando quella che è divenuta la “diaspora femminile”. Tali fughe, spesso, non hanno un esito positivo: al-Rasheed ci presenta le testimonianze di alcune attiviste vittime delle conseguenze della custodia parentale, detenute o costrette all’esilio, la cui voce viene soffocata dentro i confini del regno saudita.
Ciò che traspare dalle parole di al-Rasheed è che il percorso verso l’uguaglianza di genere è ancora molto lungo e irto di ostacoli in Arabia Saudita. Nonostante la retorica statale, atta a potenziare il ruolo attivo delle donne nella società, la realtà è particolarmente contraddittoria. Da un lato, donne vicine al regime vengono appuntate ad alte cariche statali; dall’altro, attiviste dalla voce dissidente sono incarcerate per aver chiesto maggior uguaglianza sociale.
Attivismo e riflessione sull’emancipazione femminile sono inquadrati attraverso le storie personali di Hatoon al-Fassi e Hissa al-Madhi, attiviste della “vecchia” generazione, fino alle esponenti della nuova generazione, tra queste Lujain al-Hathloul, Saffaa Hassanein, Manal al-Sharif o Hala al-Dorsari. Tutte hanno militato e militano per le stesse cause, anche se la nuova generazione ha potuto beneficiare dell’ascesa e dell’affermazione di Internet e del potere comunicativo dei social media, nonché ha vissuto un rapido cambiamento sociale, in particolar modo dal 2014. Molte di loro sono state costrette a lasciare l’Arabia Saudita per continuare a reclamare una maggiore emancipazione, ricevendo asilo all’estero. Tra queste, Saffaa Hassanein ha fatto dell’arte il proprio strumento di riscatto. Attraverso la campagna I Am My Own Guardian ha sfidato il modello patriarcale saudita grazie ad esposizioni visive in cui inverte il ruolo di genere, raffigurando donne con il tradizionale copricapo saudita (shumagh), normalmente indossato dai soli uomini come simbolo di autorità.
L’attività di queste donne si concentra sul contrasto alla narrativa ufficiale saudita, contro l’eccessiva sorveglianza posta nei confronti delle donne saudite, avanzando richieste di uguaglianza sociale e maggiore partecipazione economica, oltre al rispetto di diritti umani fondamentali quali la libertà di azione, compromessa dall’esistenza del sistema della custodia parentale. La maggior parte delle testimoni presentate da al-Rasheed sono state vittime delle conseguenze di tale sistema, etichettate spesso come “runaway girls”, in arabo haribat, ovvero fuggitive.
Ma cosa si intende per “custodia parentale”? E quali sono queste conseguenze? In Arabia Saudita, il sistema della custodia parentale è stato declinato nella necessità per ogni donna di un nucleo familiare di sottostare alla tutela di un “guardiano” (wali) che approvi formalmente lo svolgimento da parte della donna di una determinata gamma di azioni: da contrarre un matrimonio a candidarsi per un posto di lavoro, dall’iscriversi all’università ad aprire un’attività in proprio, fino a ricevere cure mediche. Non solo procedimenti burocratici, è persino necessaria la presenza fisica di un wali nel caso in cui una donna voglia recarsi all’estero: se tenta di imbarcarsi autonomamente, viene rintracciata, fermata e rispedita in Arabia Saudita contro la sua volontà. Coloro che tentano di recarsi all’estero senza un guardiano o addirittura contro il suo volere o quello della famiglia, sono definite haribat: vengono imprigionate, processate con gravi capi di accusa, e spesso diventano vittime di calunnia e di abusi fisici e psicologici.
È legittimo chiedersi se tale sistema abbia radici islamiche. La risposta è: parzialmente. Infatti, nella shari’a islamica, il sistema della custodia è prevista solo nei rapporti tra padre e figlia e nel matrimonio, non in senso di diritto assoluto ma come dovere dell’uomo di proteggere ed essere responsabile economicamente della figlia, fino a maggiore età, o della moglie. Nel caso in cui il wali perde la vita, non viene sostituito da un altro wali, ma la donna diventa guardiana di se stessa. Tuttavia, nel quadro legislativo saudita, il concetto di wilaya è stato espanso e travisato mediante decreti regi, senza una base autorevole a supporto, istituendo dei requisiti specifici imposti alle donne e limitando la loro libertà d’azione. Al-Rasheed spiega che il sistema è stato avallato da un processo di fusione di norme sociali e culturali di origine tribale, piuttosto che essere una semplice applicazione della legge islamica.
In effetti, al-Rasheed trova nello stretto legame che intercorre tra politica, società e religione il fondamento della disuguaglianze sociali in Arabia Saudita: le restrizioni ai movimenti e il sistema della custodia parentale non sono le uniche manifestazioni di tale discriminazione. La cooperazione tra queste agenzie si esplica nella narrazione ufficiale del regime saudita, che si ritrae come paternalistico, benevolo e portavoce dell’empowerment femminile. Tuttavia, si tratta solo di espedienti retorici: lo stretto controllo sulla società, la restrizione dei diritti fondamentali, l’eccessiva sorveglianza posta sui cittadini ne contraddicono la veridicità.
In questo quadro, anche la promozione del ruolo della donna nella società è controllato dal regime e risulta un espediente strategico, atto a rafforzare la percezione della classe dirigente saudita sul piano internazionale. Un esempio fra tanti, è stata la concessione nel 2018 del permesso di guida alle donne saudite: da un lato, al-Rasheed lo ritrae come uno degli espedienti utilizzati per allontanare le crescenti comparazioni tra le pratiche sociali del regime saudita e quelle dell’ISIS; dall’altro lato, il regime ne ha promosso l’attuazione in quanto parte delle riforme previste dal programma Vision 2030. In particolare, al-Rasheed ci tiene a sottolineare che la classe dirigente ha voluto prendersi i meriti di tale riforma, senza menzionare le numerose campagne e petizioni promosse dalle attiviste a partire dagli anni Novanta.
In sostanza, l’opera di Madawi al-Rasheed illustra una realtà sociale inversamente proporzionale al benessere economico della società saudita, in cui i diritti delle donne sono sacrificati per il mantenimento dello status quo e strumentalizzati per scopi propagandistici. Tuttavia, la censura operata dal regime non è riuscita ad estinguere le numerose voci di donne saudite che da diverse parti del mondo reclamano i loro diritti per ottenere la parità di genere. I loro sforzi confluiscono in una causa comune, e non devono essere vanificati.