In libreria – Bilateral Cooperation and Human Trafficking
Un volume di May Ikeora*
Con un passato da “regina di bellezza”, che le valse il secondo posto al concorso di bellezza femminile Miss Nigeria nel 2003 e il titolo di Miss ECOWAS (la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) nel 2004, May Ikeora ha sempre portato avanti due percorsi professionali. Non ha mai smesso, infatti, di dedicarsi allo studio e alla ricerca, emigrando dalla Nigeria, dove si era laureata in psicologia (Lagos), per poter conseguire in Inghilterra un Master in studi sulla pace e la risoluzione dei conflitti (Bradford) e poi completare il suo dottorato (PhD) in legge nel 2014 (Hull), con una tesi sulla cooperazione internazionale e la lotta alla tratta di esseri umani. Essere stata “regina di bellezza” le ha consentito di guadagnare per pagarsi gli studi, permettendole al contempo di viaggiare per conto dell’ECOWAS per monitorare i processi elettorali, un tema prioritario nei suoi lavori di ricercatrice, al pari dei diritti delle donne, del rafforzamento delle loro capacità e dei poteri in vista del raggiungimento dell’uguaglianza di genere.
Riprendendo il suo lavoro della tesi di dottorato, May Ikeora ha da poco pubblicato per i tipi della Palgrave un saggio che offre un punto di vista originale sul tema della tratta delle nigeriane verso il Regno Unito. È un libro interessante perché affronta, da una duplice prospettiva, un tema drammaticamente attuale, come quello della tratta di persone.
La tratta di esseri umani è la seconda fonte al mondo di proventi da attività illecite, dietro solo al traffico di droga. In base ai dati dell’UNICEF, 1,2 milioni di bambini sono vittime ogni anno della tratta; secondo quelli dell’Organizzazioni Internazionale del Lavoro, nel 2012 ben 20,9 milioni di persone erano vittime di lavoro forzato e di sfruttamento sessuale nel mondo; nel periodo 2013-2014, i paesi membri dell’Unione Europea hanno registrato 15.846 vittime di tratta, di cui il 76 per cento donne e ragazze, in base ai dati presentati dalla Commissione Europea. A livello mondiale, la femminilizzazione delle vittime è altrettanto manifesta: si stima che l’80 per cento delle vittime di tratta internazionale siano donne e che il 70 per cento di queste donne siano oggetto di sfruttamento sessuale.
Proprio in ambito europeo, la Direttiva N. 2011/36 dell’Unione Europea e la Strategia per l’eliminazione della tratta di esseri umani (2012-2016) si sono poste come linee guida per attuare strategie efficaci di prevenzione della tratta, per la protezione delle vittime e la promozione dell’azione penale contro i trafficanti. Nel dicembre del 2017, la Commissione Europea ha pubblicato una comunicazione con cui si impegna a definire una strategia complessiva per le iniziative volte ad eliminare la tratta di esseri umani, il che significa fare leva su tre aree prioritarie di intervento: smantellare il modello di business dei trafficanti e interrompere la catena; garantire un maggiore e migliore accesso a servizi di soccorso e protezione a tutela dei diritti delle vittime; intensificare un’azione coordinata – all’interno e all’esterno dell’UE – di intervento deciso.
Un tema dunque davvero attuale, ma che si presta a confusione e fraintendimenti sul piano concettuale e giuridico, per cui sono utili alcuni chiarimenti preliminari.
Il termine tratta di persone (trafficking) indica il traffico di esseri umani finalizzato al loro successivo sfruttamento; diversamente, il traffico di migranti (smuggling) indica il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina attraverso la facilitazione, dietro pagamento economico da parte del migrante, dell’introduzione illegale di immigrati clandestini all’interno delle frontiere di uno stato. A fronte di questa distinzione, chiara sul piano concettuale, la realtà può però essere molto più sfumata, laddove entrambi i fenomeni siano ricollegabili alle stesse organizzazioni criminali.
Fatta questa premessa e tornando al saggio, un aspetto interessante del lavoro di May Ikeora è l’attenzione, come si diceva, ad una duplice prospettiva sul tema. Il problema della tratta dei migranti tarda a trovare soluzioni efficaci perché, tra le altre ragioni, si misura con una percezione eterogenea del fenomeno, fonte di barriere che separano il punto di vista europeo – inglese, nello specifico del saggio – dal modo di guardare al fenomeno diffuso in paesi africani come la Nigeria. Esistono, cioè, differenze in termini culturali e di atteggiamento nei confronti dei diritti umani, delle implicazioni economiche e sociali di tale fenomeno. Il fatto che l’autrice sia nigeriana ma abbia studiato il fenomeno da una prospettiva europea le consente di attraversare i confini tra i due spazi geografici e i rispettivi modi di considerare il fenomeno, capendo sia il punto di vista europeo sia quello diffuso in Nigeria.
Solo adottando una prospettiva centrata sui diritti – scrive l’autrice – è possibile far maturare una coscienza nei paesi di origine dei flussi migratori, come la Nigeria, evitando così di mantenere una sorta di monopolio per cui sono solo le Ong occidentali, le diaspore africane nei paesi occidentali e i governi occidentali (questi ultimi a ondate alterne, a seconda delle convenienze del momento) a esercitare pressioni per contrastare la tratta. May Ikeora non esita a definire la tratta come la forma contemporanea di schiavitù, ma rivendica al contempo la necessità di andare oltre gli aspetti giuridici, così da approfondire i diversi modi di intendere, anche culturalmente, la tratta. Adottare un approccio fondato sui diritti significa porre al centro gli interessi delle vittime della tratta e non quelli degli stati ed è questo l’approccio che, sottotraccia, attraversa l’intero libro. Adottare un approccio che vada “oltre la legge” significa soprattutto andare oltre la giurisdizione nazionale, ragionando in termini di un cosmopolitismo che superi le distinzioni nazionali, tenendo ben presente che le violazioni dei diritti umani sono le principali cause e conseguenze della tratta.
Questa definizione deve però necessariamente essere contestualizzata per le ragioni indicate sopra. Solo leggendo, anche al di là degli aspetti giuridici, le specificità delle culture e delle situazioni di realtà concrete, e come queste si posizionano rispetto al fenomeno della tratta, è possibile poi ragionare in termini di misure efficaci di contrasto della tratta stessa. L’autrice si focalizza sul modus operandi del mercato della tratta che lega Nigeria e Regno Unito, analizzando anche l’applicazione dell’accordo di cooperazione tra i due paesi, del 2004, per contrastarla.
May Ikeora prende le mosse dalla definizione di tratta così come formulata dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite del 2000 contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini, secondo cui (art. 3) il termine “tratta di persone” indica “il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza, o di altre forme di coercizione quali il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o lo sfruttamento di una posizione di vulnerabilità, o ancora tramite lo scambio di somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento”.
Si tratta di una definizione utile ma che, evidentemente, contiene aree di vaghezza, a cominciare dall’interpretazione del termine “sfruttamento” su cui manca il consenso internazionale, dal momento che già l’accezione che ne danno i soccorritori è diversa da quella delle vittime. Ciò significa che il Protocollo citato non è sufficiente a garantire la responsabilità diretta degli stati a protezione delle vittime della tratta.
Il caso Nigeria-Regno Unito raccontato nel libro, che si inserisce nel quadro della presenza nel Regno Unito di circa 800 mila nigeriani e di un accordo di cooperazione in materia tra i due stati, presenta dati drammatici: le numerose vittime di tratta con sfruttamento sessuale contraggono debiti elevati – tra 25 mila e 40 mila dollari – che devono restituire per tornare libere, spesso a seguito di primi investimenti per il progetto migratorio, debiti rapidamente cresciuti e che non saranno più in grado di ripagare. Il diritto all’integrità fisica, alla libertà e alla dignità personale sono costantemente violati e sulle vittime vengono perpetrati reati di tortura.
A fronte di questo quadro drammatico, nel Regno Unito occorre molto tempo perché una vittima – tra quelle che arrivano a denunciare le violenze subite – sia formalmente classificata come “vittima di tratta” (con le conseguenti misure di protezione previste dalla legge), perché la specificità del modello di business della tratta che coinvolge i nigeriani non prevede sempre la violenza fisica o il controllo a vista delle vittime, la segregazione o altre tipiche caratteristiche ricorrenti nella tratta. Il paradosso è che, laddove non sia rinvenuta la fattispecie della tratta, le vittime diventano agli occhi della giustizia inglese colpevoli di reati per i quali è comminata la sanzione del carcere o del rimpatrio, con inevitabili danni in termini di sicurezza e stigma sociale.
In un contesto così poco orientato a difendere anzitutto gli interessi delle vittime, l’autrice denuncia il cinismo della politica europea (inglese, in questo caso) che, in nome della protezione dei diritti, persegue di fatto gli interessi nazionali di sicurezza e controllo dei confini, contrasta in modo non risoluto i trafficanti e, anzi, accresce la vulnerabilità delle vittime, di fatto utilizzando il fenomeno della tratta come un deterrente che dovrebbe dissuadere i migranti dall’intraprendere progetti migratori.