Il dibattito intellettuale va avanti da un secolo: quale parametro dovremmo usare per misurare lo sviluppo, la crescita o il benessere? Non è mia intenzione annoiarvi con questa ricorrente questione, perché sappiamo già che la risposta è: il benessere. Ma allora come mai, nonostante questo tacito consenso, la crescita rimane al centro della narrazione sullo sviluppo?
Nel rapporto intitolato “Mismeasuring our lives“, che ha messo insieme tre superstar dell’economia – Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi – per discutere dell’ inadeguatezza del Pil come misura di prosperità a livello di ciascun paese, si sosteneva: “Ci sarà un “prima” e un “dopo” questo rapporto”. È passato più di un decennio dalla sua pubblicazione, e da allora abbiamo assistito a entusiasmanti progressi nel campo dell’analisi dello sviluppo al di là della crescita, grazie all’aumento dei progetti nazionali e internazionali sullo sviluppo umano, al crescente numero di sociologi che si cimentano con le risposte alle sfide sociali, alle organizzazioni globali e locali che portano avanti il dibattito e via dicendo. Eppure il modello non cambia di molto.
Secondo le stime della Banca mondiale, il Covid-19 sta spingendo 71 milioni di persone verso condizioni di povertà estrema. Le notizie riportano continuamente il presunto nesso causale – peraltro non del tutto falso – tra il Covid-19 e l’aumento dei tassi di povertà e di disoccupazione. Ma il vero motivo per cui la vita di questa gente è cambiata tanto drammaticamente in pochi mesi non ha nulla a che fare col Covid-19: queste persone sono il prodotto di un sistema che dà più valore alla crescita che al benessere.
Il divario tra i paesi del Nord e del Sud del mondo non è mai stato più evidente che nel bel mezzo della pandemia da Covid-19. Alcuni diranno che questo stato di cose ha qualcosa a che fare con la capacità economica dei vari stati. Io penso invece che ciò avvenga perché i paesi del Sud mondo ritengono che la loro arretratezza sia dovuta alla mancanza di crescita, che a sua volta impedisce loro di recuperare effettivamente terreno perso nello sviluppo del settore economico, di quello tecnologico e dell’istruzione. Nel discorso sullo sviluppo, i termini “development” (sviluppo) e “growth” (crescita) sono talvolta utilizzati indifferentemente, quando in realtà il primo mira a garantire pari accesso alle opportunità, mentre il secondo non persegue altro che una somma di cifre.
Limitiamoci ora a prendere in considerazione soltanto la situazione dell’Indonesia. In quanto economia “in crescita”, l’Indonesia propugna il concetto stesso di crescita. La classificazione dei paesi per reddito, recentemente pubblicata dalla Banca Mondiale, include ora l’Indonesia nel gruppo di paesi a reddito medio-alto. La notizia ha avuto ampia risonanza nelle pubblicazioni governative e nazionali. Ma può questo essere considerato davvero un risultato, sapendo bene che questo miglioramento di status non garantisce affatto la fine dell’ingiustizia alla base della piramide?
Risolvere le disuguaglianze di sviluppo senza guardare alle specifiche situazioni è come premiare un bambino per aver finito un compito di cui ha sbagliato tutte le risposte; sul momento ne sarà felice, ma in seguito si troverà nei guai. Se si vuole porre fine alle disuguaglianze di sviluppo bisogna guardare più da vicino le divisioni create dal sistema che inconsapevolmente le esalta.
L’obiettivo di crescita influenza inequivocabilmente le riforme strutturali e i progetti di sviluppo dell’Indonesia. Una verifica dei fatti relativi ai settori economico, tecnologico e dell’istruzione lo confermerà: la crescita si manifesta in varie forme nei diversi settori.
L’indice del capitale umano dell’Indonesia è pari a 0,53 punti, il che significa che le istituzioni educative e il capitale umano oggi in essere possono garantire solo il 53% di produttività alla prossima generazione. Di conseguenza, solo il 28,14% degli studenti nell’istruzione secondaria inferiore raggiunge almeno il minimo livello di competenza in matematica (Unesco, 2018). I bambini vanno a scuola, ma non imparano. Il ministro dell’Istruzione Nadiem Makarim, che occupa l’incarico dall’inizio del secondo mandato del Presidente Joko Widodo (noto anche come Jokowi) ha promesso di riformare il sistema educativo indonesiano, dando impulso allo sviluppo del capitale umano, in linea col piano di Jokowi, che proprio sul capitale umano punta. Tuttavia, l’attenzione è ancora una volta incentrata sul legame tra curriculum e mercato del lavoro, il che suona anche come campanello d’allarme per il programma indonesiano di preparazione al lavoro (pre-employment card), che ha come scopo quello di incrementare la crescita economica. Per quanto riguarda la valorizzazione del capitale umano dell’Indonesia, è imperativo concentrare l’analisi sul processo di apprendimento. La capacità di imparare varia secondo i livelli di reddito e le aree geografiche? In tal caso, le soluzioni dovrebbero tener conto di queste differenze.
Un esempio di un errato approccio allo sviluppo basato sulla crescita è il piano per il trasferimento della capitale indonesiana. La delocalizzazione si fonda sull’idea che l’attuale concentrazione di capitale e sviluppo a Giava interferisca con l’uguaglianza tra le isole indonesiane. Tuttavia, la dimensione geografica viene fraintesa. La faccenda non riguarda solo l’aspetto fisico dei luoghi, ma anche le persone, i processi economici e politici che modellano lo spazio. La semplice riconversione di un luogo da città comune a capitale non basterà a far diminuire le disuguaglianze di sviluppo. Inoltre, l’attuale piano smentisce totalmente l’affermazione secondo cui lo scopo dello spostamento della capitale in una città meno sviluppata è quello di ridurre le disuguaglianze.
Per cominciare, non si prendono in considerazione gli impatti relativi dello spostamento sui diversi segmenti della popolazione. Una politica che guarda semplicemente all’aggregato non può garantire equità. Quali saranno i vantaggi per la popolazione a basso reddito? Avrà libertà di accesso alle opportunità per migliorare i propri mezzi di sostentamento? La rilocalizzazione aprirà migliori opportunità di lavoro o porterà piuttosto a un aumento dei posti di lavoro malpagati e ad alto rischio, attraverso il coinvolgimento del settore privato?
Tra gli effetti potenziali della delocalizzazione della capitale in Indonesia vengono spesso citate le nuove opportunità per il turismo. Tuttavia, bisogna considerare i limiti delle entrate provenienti dal turismo. In un primo momento lo spostamento potrà forse stimolare alcuni attori locali, probabilmente tra le famiglie a basso e medio reddito. Poco dopo, si raggiungerà un punto di saturazione oltre il quale non si verificherà alcuna ulteriore crescita della spinta dal turismo. Tra l’altro, se il piano di rilocalizzazione non sarà accompagnato da miglioramenti dell’istruzione e della protezione per le imprese e i posti di lavoro del settore informale, non farà che perpetuare le ingiustizie.
Finora, l’obiettivo di crescita sta interferendo con l’agenda di sviluppo dell’Indonesia. La recente letteratura conferma che le istituzioni politiche inclusive sono un prerequisito per porre fine alla povertà e raggiungere la prosperità. Ma voglio estendere il significato del termine “inclusivo”: si tratta di guardare oltre il quadro generale e considerare gli effetti relativi delle politiche sui diversi segmenti della popolazione.
Se i nostri leader continueranno a prendere decisioni impulsive, mirate alla sola crescita senza attuare misure approfondite, allo scopo di dimostrare che ciò favorisce il raggiungimento di un generico obiettivo di sviluppo senza comprendere in che cosa consiste lo sviluppo stesso, non si riuscirà a trovare una via d’uscita dall’arretratezza.