“Arriverà la pace con tutti i suoi orrori”. Nonostante la paternità di questa frase sia contesa (pronunciata alla fine della Guerra dei Mille Giorni [1899-1902] dal presidente conservatore José Manuel Marroquín, secondo alcuni, o dal generale liberale Paulo Emilio Bustamante, secondo altri), rimane una delle descrizioni più precise della storia della Colombia: duecento anni di vita repubblicana, undici conflitti armati di varia intensità, durata e distribuzione geografica, un numero imprecisato di conflitti locali, due guerre contro il Perù, la separazione di Panama, e non un singolo giorno di pace completa da quel maledetto 9 aprile 1948, quando venne assassinato Jorge Eliécer Gaitán, leader liberale e indiscusso favorito alle presidenziali del 1950, scatenando l’ennesima orgia di violenza. Ancor più importante il fatto che ogni pace, invece di risolvere i problemi strutturali del paese, ha sparso i semi della guerra successiva: un enorme bagaglio di traumi collettivi che formano la storia della Colombia, probabilmente il paese al mondo che ha passato più tempo in guerra dai tempi del Congresso di Vienna.
L’accordo di pace de L’Avana del 2016 con la guerriglia comunista delle FARC doveva e dovrebbe essere la pietra tombale sulla violenza come metodo di interazione politica. Nonostante gli evidenti successi, valsi il premio Nobel per la pace nel 2016 all’allora presidente Juan Manuel Santos, il processo di pace rimane incompleto. In particolare, desta preoccupazione il punto 1 dell’accordo: la riforma rurale. Durante le negoziazioni, le origini strutturali della guerra vennero infatti individuate nell’eterno conflitto per il possesso della terra, fertile per l’agricoltura e ricca di risorse naturali. Le stesse FARC nacquero da gruppi comunisti contadini di autodifesa. Proprio per questa sua importanza strategica e storica la riforma rurale venne messa al primo punto dell’accordo ma, in realtà, la sua attuazione a 3 anni dalla firma è completa solo al 3% dopo. Al di là dei problemi più pratici, come la rimozione delle mine e il potenziamento del catasto rurale, il vero problema è la volontà politica.
L’attuale governo presieduto da Ivan Duque, presidente della Colombia dal 7 agosto 2018, è stato eletto con una chiara piattaforma di destra basata sul sempreverde slogan “legge e ordine”. Nelle elezioni del 2018, Duque e il suo partito, il Centro Democratico (il cui slogan è “Mano ferma, cuore grande”), sono riusciti a capitalizzare elettoralmente sull’opposizione all’accordo di pace con le FARC, che nell’ottobre del 2016 era già sfociata nella vittoria, seppur striminzita, del “No” in occasione del plebiscito sull’accordo stesso. Accordo che, rifiutato di misura dal plebiscito (50,21% vs 49,79%), venne poi approvato per via parlamentare nel novembre 2016, dopo alcune modifiche.
Il leader del partito, Álvaro Uribe, presidente della Colombia dal 2002 al 2010, è una figura centrale della politica colombiana. Uribe è il classico politico che scatena emozioni viscerali, che si ama o si odia: amato per non aver dato quartiere alla guerriglia e per essere riuscito a costruire un’alleanza trasversale attorno a questo obiettivo; odiato per le amicizie pericolose con narcos e paramilitari e per i metodi brutali utilizzati durante la guerra.
Il primo anno di governo Duque non è stato dei più splendenti. La crisi in Venezuela ha assorbito molte energie sia esterne (diplomazia) che interne (crisi dei migranti). La riforma della Giustizia speciale per la pace (il tribunale che indaga sui crimini commessi durante il conflitto) è stata bocciata dal Congresso mentre la bomba dell’ELN (Ejercito de Liberación Nacional) a Bogotá nel gennaio 2019 ha ricordato a tutti che il paese è ben lontano dall’essere completamente pacificato. Ma è nell’autunno del 2019 che il governo ha mostrato tutta la sua debolezza. Il contesto internazionale è stato decisivo in questo senso. Sono state le mobilitazioni sociali e politiche in Ecuador, in cui prevalsero le posizioni dei manifestanti, e in Cile, per molti anni descritto da parecchi osservatori (tra cui lo stesso Duque) come l’esempio da seguire, la fonte d’ispirazione per le opposizioni.
Oltre alle numerose vittime materiali del conflitto (le ultime cifre ufficiali indicano 270 mila morti, quasi 50 mila desaparecidos, 33 mila sequestri e 7,5 milioni di rifugiati interni) la guerra colombiana ha avuto un’altra vittima illustre: la società civile. La violenza ha toccato tutti i settori della società e silenziato molte voci fuori dal coro: politici (tra cui il Ministro della Giustizia Rodrigo Lara, ben quattro candidati presidenziali e il partito di sinistra Unión Patriotica, sistematicamente sterminato), contadini, maestri, attivisti per diritti umani, afro-colombiani, indigeni, giornalisti (tra cui Guillermo Cano e Jaime Garzón, rispettivamente uccisi da Pablo Escobar e dai paramilitari) e sindacalisti. La violenza contro questi ultimi è sempre stata particolarmente radicata nel paese. Basti ricordare il cosiddetto “Massacro delle bananiere” del 1928 – narrato anche nel capolavoro del Premio Nobel colombiano Gabriel García Márquez, “Cent’anni di solitudine” – dove almeno mille lavoratori in sciopero della United Fruit Company, impresa multinazionale statunitense che commerciava frutta tropicale, vennero uccisi dall’esercito colombiano. Inoltre, non è un caso che i primi nuclei paramilitari siano nati proprio nelle zone bananiere di Urabá e Córdoba e nella zona petrolifera di Puerto Boyacá e Barrancabermeja, dove i sindacati erano particolarmente organizzati e combattivi. Ancora nel 2017, un anno dopo la firma dell’accordo di pace, la Colombia rimaneva il paese più pericoloso al mondo per l’attività sindacale.
Negli ultimi anni si era già assistito ad un timido risveglio della società civile e dei partiti alternativi dopo anni di silenzio. Le manifestazioni a favore della pace dopo la sconfitta nel plebiscito del 2016 e il referendum anticorruzione dell’agosto del 2018, che ha visto più di 11 milioni di colombiani partecipare, sono esempi di come la società civile, specialmente quella indipendente e di centrosinistra, si stava sempre più mobilitando e uscendo dal torpore del conflitto armato. Ma è negli ultimi mesi, in particolare ottobre-novembre 2019, che la società civile e le opposizioni hanno segnato importanti punti a loro favore su tre versanti: nelle urne, nel Congresso e nelle strade.
Il 27 ottobre 2019 si sono tenute le elezioni locali e regionali e i risultati non sono stati particolarmente favorevoli al governo. Bogotà ha eletto per la prima volta una donna, Claudia López. Dichiaratamente lesbica, leader del referendum anticorruzione e protagonista di inchieste che hanno svelato gli intrecci tra politica e paramilitarismo, Claudia López è una figura di spicco della Alianza Verde con possibili aspirazioni presidenziali nel futuro. Anche nel dipartimento di Antioquia, terra natale di Uribe e roccaforte conservatrice da sempre, e nella sua capitale Medellín, il governo ha perso. Daniel Quintero, indipendente di sinistra, è stato eletto sindaco mentre Aníbal Gaviria, liberale e sostenitore dell’accordo di pace, è diventato governatore di Antioquia. In altre zone del paese, i risultati sono stati sorprendenti. A Cúcuta, una città alla frontiera con il Venezuela e sotto pressione per la crisi del paese limitrofo, i Verdi hanno vinto, nonostante nel 2018 Duque avesse stravinto con l’80%. Lo stesso è successo a Manizales, nella ricca regione del caffè. A Buenaventura, il principale porto sul Pacifico, centro dei traffici di droga verso gli Stati Uniti, il leader dello sciopero locale del 2017, Victor Hugo Vidal ha vinto. Nella costa caraibica, famosa per la corruzione e lo strapotere dei partiti tradizionali clientelari, l’indipendente William Dau ha vinto a Cartagena, mentre la sinistra ha vinto nel dipartimento di Magdalena e nella sua capitale Santa Marta. Per concludere, per la prima volta nella storia la FARC (al singolare è il partito politico nato dopo l’accordo di pace, al plurale è invece l’organizzazione guerrigliera) ha “conquistato” il governo di due comuni senza usare armi.
Agli inizi di novembre, uno scandalo ha travolto il Ministero della Difesa. Il ministro, Guillermo Botero, è stato accusato di aver nascosto la morte di sette minorenni durante un bombardamento nel dipartimento di Caquetá contro una dissidenza delle FARC, che non aveva accettato l’accordo di pace. A suo tempo, il presidente Duque aveva definito l’operazione “impeccabile”, mentre il ministro si è difeso sostenendo che l’intelligence non era in possesso informazioni sulla loro presenza e che l’attacco aveva rispettato le norme del diritto internazionale. La difesa però non ha retto e le opposizioni, con l’appoggio dei partiti centristi, hanno presentato al Congresso una mozione di sfiducia verso il ministro. Non c’è stato però bisogno della votazione, perché Botero si è dimesso prima. Risulta quasi banale sottolineare l’importanza delle sue dimissioni. In un paese costantemente in guerra come la Colombia, il Ministero della Difesa è sempre stato uno dei ministeri chiave. Basti notare che l’attuale vicepresidente Marta Lucía Ramírez e l’ex presidente Juan Manuel Santos (2010-2018) sono stati entrambi ministri della Difesa nei governi di Álvaro Uribe.
Le vittorie elettorali, il risultato nel Congresso contro un uomo simbolo del governo e le notizie dagli altri paesi del Sudamerica hanno galvanizzato la società civile e le opposizioni. L’occasione perfetta per incanalare tutte le frustrazioni sociali si è materializzata nello sciopero generale indetto per il 21 novembre 2019. Lo sciopero è stato proclamato dai sindacati principali con l’obiettivo principale di fermare il cosiddetto “paquetazo” di Duque, cioè una serie di riforme ventilate dal governo, dal profumo neoliberale, che toccherebbero il mercato del lavoro e rafforzerebbero la privatizzazione nel settore delle pensioni. Con il tempo, altre categorie sociali e altre rivendicazioni si sono aggiunte. Tra queste, la più importante e numerosa è stata sicuramente quella degli studenti, che in realtà manifestavano già da alcuni mesi contro la mancanza di fondi per l’università. Non vanno inoltre dimenticate le molte organizzazioni per i diritti umani e le minoranze etniche, che chiedono più protezione da parte dello Stato, visti i numerosi omicidi di leader sociali, e il rispetto dell’accordo di pace. Perfino la Conferenza Episcopale ha manifestato il suo appoggio allo sciopero, sottolineando necessità di un dialogo più ampio. La corruzione, la questione più sentita dall’opinione pubblica, è stato un tema trasversale.
Lo sciopero è stato un successo, specialmente per un paese come la Colombia, che non ha una grande cultura di manifestazioni di massa. Milioni di persone sono scese nelle strade in tutte le città del Paese. Nonostante la pioggia battente, la Plaza Bolivar di Bogotà e le vie circostanti si sono rapidamente riempite. Le università hanno sospeso le attività e molti luoghi di lavoro hanno concesso un giorno libero ai propri lavoratori. Le proteste sono poi continuate nella notte con il cosiddetto “cacerolazo”, una forma di protesta nella quale si utilizzano pentole o altri oggetti di metallo per fare rumore.
Come spesso in questi casi, purtroppo si è assistito anche a scontri tra manifestanti e l’Esmad (Escuadrón Móvil Antidisturbios), il reparto antisommossa della polizia colombiana, famoso per la sua brutalità. Alcune stazioni del TransMilenio, il sistema di autobus integrato di Bogotà, sono state distrutte e ci sono stati alcuni casi di saccheggi. A Cali, una città con molti più problemi sociali rispetto alla capitale e una polizia sotto organico, le autorità hanno dichiarato il coprifuoco per la notte stessa dello sciopero. Le proteste e gli scontri sono continuati anche nei giorni successivi, purtroppo registrando la morte di un ragazzo, tanto che la stessa Bogotá ha dichiarato il “toque de queda”, il coprifuoco, per la notte tra il 22 e il 23 novembre. Si è trattato di un evento storico: nonostante il conflitto armato, l’ultima volta che la città dichiarò un coprifuoco totale fu nel 1977.
Le notti di coprifuoco hanno avuto un risvolto drammatico. Infatti, sembrava che gli scontri stessero producendo un crescendo di saccheggi. Un vortice incontrollabile di notizie, rapidamente condivise sui social media, specialmente WhatsApp, e suffragate da catene di video e messaggi vocali che promettevano “il Natale per i poveri” e mostravano una situazione fuori controllo, dove criminali armati assaltavano complessi residenziali davanti a una polizia impotente. La risposta non si è fatta attendere: molti cittadini nel panico si sono auto-armati con qualunque cosa trovassero e hanno passato la notte pattugliando le entrate degli edifici. Una sensazione di caos completo. Nei giorni successivi la situazione in realtà si è rivelata meno drammatica. Un morto, probabilmente per una pallottola vagante, nessuna casa assaltata, alcuni saccheggi minori in zone storicamente marginalizzate. Insomma, in realtà un caos virtuale. Difficile capire chi abbia organizzato, ammesso che ci fossero dei mandanti, questa campagna di panico. Quello che rimane è un’immagine chiara della situazione di tensione in cui ancora vive la società colombiana dopo anni di violenza, e la diffusa sensazione dell’incapacità del governo di garantire la sicurezza, anche nei quartieri più ricchi.
L’incapacità del governo di garantire sicurezza è in realtà più evidente al cuore del problema colombiano: le aree rurali. Nello stesso giorno dello sciopero, tre poliziotti sono morti a Santander de Quilichao, nel nord del Dipartimento di Cauca, in un attentato con autobomba davanti ad una stazione di polizia. I media italiani hanno erroneamente messo la notizia in relazione con le proteste, ma in realtà fa parte di dinamiche ben più complesse e pericolose. Questa regione, infatti, è una delle zone più calde del paese, dove la presenza di guerriglia, gruppi narco-paramilitari e cartelli della droga è oppressiva. In tutto il paese, la produzione di coca, il controllo delle rotte della droga e le miniere illegali continuano ad essere i motori di conflitti locali che non accennano a fermarsi. E in molti casi il governo nazionale non è mai entrato nelle zone lasciate libere dalle FARC smobilitate.
In risposta alle proteste, il governo ha proposto il cosiddetto piano di Conversazione nazionale. Però nessuno dei sei punti di conversazione proposti da Duque (trasparenza e lotta alla corruzione, educazione, pace con legalità, ambiente, istituzioni, crescita equa) parla specificamente della riforma agraria e delle aree rurali. Dall’altra lato, nonostante le manifestazioni si siano concentrate su temi fondamentali come l’educazione, la corruzione, i salari, le pensioni e la salute, il cuore della protesta è rimasta la classe media urbana. L’apparente cecità delle proteste verso la riforma rurale è ancora più incomprensibile se si considera che gli omicidi di leader della società civile, uno dei grandi temi di mobilitazione, sono strettamente collegati alla questione della terra. In questo quadro, la riforma rurale rimane fondamentalmente esclusa dal dibattito pubblico, nonostante la sua importanza sia espressamente riconosciuta nell’accordo di pace.
Non c’è stato il tempo, comunque, di vedere l’evoluzione del dibattito e delle proteste. La pandemia di Covid-19 ha ovviamente cambiato le carte in tavola in maniera radicale. La fragilità dell’economia, particolarmente dipendente dal turismo e dal petrolio, si è manifestata rapidamente. Infatti, la disoccupazione in aprile 2020 è arrivata al 19,8% aumentando di circa un 9,5%. Le aree più colpite sono state le grandi città, dove la disoccupazione è arrivata al 23,5%.
A questo nuovo scenario, si aggiunge una nuova variabile per la Colombia: gli arresti domiciliari per l’ex presidente Uribe, ordinati il 4 agosto 2020 dalla Corte Suprema con l’accusa di intralcio alla giustizia e corruzione di testimoni. A nessun presidente colombiano era mai stata limitata la libertà personale. Per di più questo provvedimento colpisce la figura più popolare e divisiva degli ultimi decenni. I suoi sostenitori, i cosiddetti uribisti, sono già scesi in piazza, specialmente a Medellín, per dimostrare il loro appoggio.
Sarà interessante vedere se il capitale sociale costruito dalle opposizioni durante le manifestazioni verrà spazzato via dalla crisi economica o se invece riuscirà a resistere e a crescere. Oltre al governo, anche i numerosi sindaci dell’opposizione eletti in ottobre sono in prima linea contro il virus. Con Bogotà focolaio iniziale del contagio, Claudia López, sostenitrice di una linea dura sulla quarantena nella capitale, è stata fin da subito al centro dell’attenzione mediatica e il giudizio sul suo operato sarà un indicatore importante per capire come la società colombiana si stia muovendo.
Pandemia, crisi economica e lo scontro politico successivo all’arresto di Uribe sono le nuove sfide per la Colombia. Questa volta le opposizioni non possono tirarsi indietro e anzi dovranno dimostrare di saper proporre e attuare un modello alternativo.
In questo contesto però, la marginalizzazione delle aree rurali potrebbe aumentare significativamente. Non è purtroppo difficile immaginare che possano rimanere una terra di nessuno in preda a gruppi armati illegali che dettano la propria legge.
Quella vecchia storia che parla degli “orrori della pace”, questa volta affiancati ad nuovi e inaspettati alleati, potrebbe purtroppo ripetersi.