Covid-19: il Burkina Faso ha vinto la prima battaglia, ma si deve preparare alla prossima
In Burkina, i primi casi di COVID-19 sono stati identificati tra febbraio e marzo 2020 tra i membri dell’élite locale rientrati dalla Francia e quelli del corpo diplomatico, e tra i tecnici delle imprese canadesi che sfruttano le miniere d’oro. Dopo una prima rapida diffusione in area urbana e nei siti auriferi, l’epidemia ha rallentato, ed è stato possibile circoscrivere i focolai locali. Da fine maggio la quasi totalità dei nuovi casi sono stati identificati tra i burkinabé rimpatriati da altri Paesi africani con i convogli umanitari, visto che le frontiere restano chiuse al traffico passeggeri, e successivamente confinati in albergo per la quarantena.
Dall’ inizio dell’epidemia, in tre mesi il Burkina ha registrato quasi 900 casi, la maggioranza dei quali nella capitale Ouagadougou, ed in particolare nei quartieri residenziali, con una cinquantina di decessi. Questi dati sono sicuramente sottostimati, ma chi è in prima linea può confermare che l’epidemia è clinicamente poco visibile: ad esempio, l’ospedale camilliano di Ouagadougou, che riceve ogni giorno centinaia di malati cronici, e quindi tra i più vulnerabili al virus, ha identificato in tutto solo una quarantina di casi di COVID-19.
Alcune tendenze dell’epidemia riscontrate in Burkina sono in linea con l’insieme dei Paesi africani: origine europea o occidentale del virus e, rispetto agli altri continenti, andamento più lento e minore letalità, che per l’OMS sono dovuti alla giovane età della popolazione.
Sempre rispetto all’Africa, il Burkina si situa nel gruppo dei Paesi meno colpiti (<1.000 casi), che sembrano presentare quasi tutti le stesse caratteristiche: ridotti flussi migratori al di fuori dell’Africa, scarsa urbanizzazione (in Burkina il 70% della popolazione abita in zone rurali), assenza di importanti contingenti militari stranieri e temperature molto elevate.
Queste caratteristiche possono costituire un ostacolo alla diffusione del virus, ma non consentono di sottostimare l’impatto di una seconda ondata, attesa in vista della riapertura delle frontiere. Secondo l’OMS, la prossima fonte del contagio in Africa sarà interafricana e il Burkina è particolarmente esposto, in quanto la migrazione stagionale dei suoi abitanti verso i Paesi costieri coinvolge centinaia di migliaia di persone. Fino ad ora, la chiusura delle frontiere, pur non azzerando i flussi, li ha notevolmente ridotti, in quanto aggirare i valichi comporta rischi, costi elevati e tempi lunghi. Per l’Africa, inoltre, l’OMS parla di epidemia «lunga», che potrebbe protrarsi su più anni, prevedendo 190.000 decessi nel primo.
Rispetto alla prima ondata il Burkina, analogamente al resto dell’Africa, dispone però di maggiori conoscenze sulla malattia e sull’efficacia delle misure di controllo.
In primo luogo, anche in Africa il COVID-19 si conferma come una patologia dell’adulto e dell’anziano, sia per frequenza, sia per gravità. In Burkina, l’età media dei casi è di 44 anni (mentre nella popolazione generale è di 18 anni) e l’età media dei decessi è di 65 anni, cioé 5 anni oltre la speranza di vita alla nascita. I casi pediatrici sembrano rari, con rarissimi decessi, nonostante un bambino su quattro sia malnutrito. Le comorbidità negli adulti sembrano simili a quelle degli altri continenti (ipertensione, diabete…) mentre tubercolosi e HIV non sembrano costituire, come si era temuto, fattori di rischio. Le aree urbane sono le più colpite. A differenza dei Paesi industrializzati, in Africa i casi non si manifestano con uguale frequenza nei due sessi, ma colpiscono in maggioranza quello maschile, probabilmente perché le donne sono più confinate sul piano sociale, sono meno mobili, hanno meno contatti fisici (strette di mano) e maggiori occasioni di utilizzare il sapone.
Per la cura dei casi, il Burkina in marzo non disponeva di nessun letto di rianimazione funzionante, mentre ora ne ha 26, cioé circa uno per milione di abitanti, contro una media africana di 5 per milione di abitanti. Sia il Burkina che gli altri Paesi africani ne stanno equipaggiando altri, ma la mancanza di personale formato e di ossigeno costituiscono i veri fattori che limitano una strategia basata sulla cura.
Per l’identificazione e lo screening dei casi e dei contatti il Burkina, come gli altri Paesi colpiti da epidemie ricorrenti (meningite, morbillo, colera…), dispone di équipe formate all’identificazione, allo screening ed all’isolamento dei casi e dei contatti. Con l’arrivo del COVID-19, in Burkina queste equipe sono state subito attivate e – facilitate dal numero ridotto dei casi – sono riuscite a raggiungere il 96% dei contatti identificati, malgrado la carenza iniziale di materiale di protezione e di test di screening. Anche se l’aiuto internazionale ha permesso di correggere queste carenze, il sostegno ed il potenziamento di queste équipe, in particolare nelle aree urbane, resta comunque una priorità.
Una riflessione deve sicuramente essere condotta sulle strategie di lockdown. A marzo, due settimane dopo il primo caso, il Burkina ha chiuso, oltre alle frontiere, le scuole, i principali mercati urbani, bar, ristoranti e luoghi di culto. E’ stato inoltre imposto il coprifuoco notturno e sono stati sospesi i trasporti collettivi di passeggeri, sia per le tratte urbane che per quelle interurbane. Non è stato invece imposto il confinamento diurno, che pochi Paesi africani hanno adottato. Ma anche senza confinamento diurno, le misure di lockdown si sono dimostrate incompatibili con la sopravvivenza della maggior parte della popolazione: i piccoli commercianti informali e gli operai giornalieri delle città e, nelle campagne, i contadini che producono per i mercati urbani o emigrano nei Paesi costieri. A inizio maggio, dopo un mese e mezzo, la maggioranza dei Paesi africani ha cominciato ad allentare il lockdown, introducendo al tempo stesso l’uso obbligatorio di mascherine in tessuto. In Burkina, dopo proteste anche violente che hanno portato alla riapertura di mercati e moschee, sono oggi in vigore solo la chiusura delle frontiere e l’obbligo di mascherine.
Oltre gli impatti negativi sulla vita della popolazione, la riflessione sul lockdown dovrebbe valutare anche la sua utilità nel contesto africano, caratterizzato da una progressione più lenta della malattia, da un’epidemia «lunga» e da un ridotto numero di soggetti a rischio. Questi ultimi potrebbero fare oggetto di misure mirate di protezione, evitando il lockdown generalizzato e facendo leva sul valore che la cultura locale attribuisce agli anziani.
Analogo ragionamento può essere applicato anche alle norme di contenimento, ed in particolare al distanziamento, praticamente impossibili da rispettare da parte della popolazione giovane, ma che potrebbero essere mirati ai contatti con le popolazioni a rischio.
Nella prima ondata, l’urgenza ha imposto l’applicazione di modelli di risposta all’epidemia concepiti in altri contesti e importati con pochi adattamenti. Anche adesso i tempi sono stretti, perché l’apertura delle frontiere è imminente, ed il monsone, che con le piogge porterà un clima più favorevole alle infezioni respiratorie, è alle porte.
Ma questa volta il Burkina affronterà un nemico che conosce meglio, con il quale ha già vinto la prima battaglia e che potrà combattere con strategie e tattiche originali.