A partire dai primi giorni del 2020 il governo argentino si trova a dover rinegoziare il calendario di rimborso dei creditori esteri (i privati ed il Fondo Monetario Internazionale) per evitare l’interruzione dei pagamenti. Ma come si è arrivati a questa situazione? Perché il debito argentino non è sostenibile? In che relazione è la crisi attuale del debito con le crisi economiche cicliche che il paese deve affrontare? Proprio per rispondere a queste domande l’articolo traccia il processo politico-economico, a partire dal default del 2001, fino alla crisi odierna.
1. La crisi sociale, politica ed economica del 2001
All’inizio del 2001, l’economia argentina era nel mezzo di una recessione iniziata nel 1998, il debito pubblico estero era di 132 milioni di dollari (quasi la metà del Prodotto Interno Lordo), il tasso di disoccupazione era del 21%, il tasso di povertà del 50%, e il governo applicava politiche di aggiustamento strutturale e stabilizzazione finanziaria sul piano fiscale supervisionate dal Fondo Monetario Internazionale. Nelle elezioni di medio termine di ottobre 2001, i cittadini mostrarono chiaramente il loro malcontento nei confronti del governo.
Nel dicembre 2001 furono adottate una serie di misure economiche che limitavano la possibilità di ritirare denaro dalle banche (il cosiddetto “corralito”) che scatenarono la protesta tra i correntisti della classe media. I settori popolari risposero alle politiche di aggiustamento strutturale del governo con saccheggi di supermercati e negozi. Classe media e settori popolari si unirono nelle proteste di strada. Nelle violente giornate del 19 e 20 dicembre 2001, con i cosiddetti “cacerolazos” (si manifestava sbattendo padelle e casseruole) e i picchetti per le strade, lo slogan era contro l’elite politica: “se ne vadano tutti”. Il Presidente Fernando De la Rúa, ormai privo dell’appoggio del suo partito (Unione Civica Radicale-UCR) e con un’opposizione sempre più agguerrita, decise di rassegnare le dimissioni. La cosiddetta “legge di acefalia”, una norma costituzionale che prevedeva, in caso di assenza per qualsiasi ragione del capo dello Stato, che la carica passasse al presidente pro tempore del Senato, determinò l’investitura di Ramón Puerta (in quanto il vicepresidente Carlos Álvarez aveva rinunciato l’anno prima), il quale convocò una seduta parlamentare per formare un nuovo governo.
L’assemblea elesse come capo del governo il governatore di San Luis, Adolfo Rodriguez Saá. Nel suo discorso di insediamento quest’ultimo prese la decisione di interrompere i pagamenti del debito estero, ricevendo un’ovazione da parte di tutta l’assemblea. Una settimana più tardi dovette, però, rinunciare all’incarico perché venne a mancare l’appoggio da parte dei governatori del suo partito giustizialista o peronista (PJ). Il parlamento si riunì di nuovo ed elesse Presidente ad interim fino al 2003 il senatore di Buenos Aires, Eduardo Duhalde
Nel gennaio del 2002, Duhalde interruppe l’applicazione della legge sulla conversione del peso che fissava la parità con il dollaro (1 ad 1). Nello stesso anno il peso argentino si svalutò del 137% ed il debito estero raggiunse il 160% del Prodotto Interno Lordo. Di fronte a questa emergenza, il Presidente ad interim prese la decisione di sospendere il pagamento delle scadenze del debito estero, abbandonando la cosiddetta dollarizzazione dell’economia. Quell’anno il governo impose dazi sulle esportazioni agricole e le entrate da essi derivanti furono destinate a programmi di trasferimenti sociali per favorire i cittadini più bisognosi, come il piano per i capi famiglia disoccupati. Inoltre impose il controllo sui movimenti di capitali e rinegoziò i contratti per i servizi pubblici, il cui prezzo era stato stabilito in dollari.
Secondo l’analisi di Damill e Frenkel (2014), il decennio successivo si può suddividere in due periodi:
a) la ripresa economica (2003-2007)
b) il fallimento del modello (2008-2015).
Di seguito li presentiamo entrambi.
2. La ripresa economica (2003-2007)
Nell’aprile del 2002, Duhalde nominò ministro dell’economia Roberto Lavagna, un economista peronista legato alle idee del cosiddetto sviluppismo e alla produzione focalizzata sul mercato interno, strategia definita di industrializzazione attraverso la sostituzione delle importazioni. In seguito all’improvvisa svalutazione del peso ed all’aumento del costo dei beni importati, il ministro promosse, infatti, la sostituzione delle importazioni con la produzione locale. Questa modifica del modello di sviluppo, orientato alla produzione ed al mercato interno, portò rapidamente ad un aumento dell’occupazione e dei salari. La riattivazione del sistema economico fu accompagnata da un cambiamento nel contesto internazionale, caratterizzato da un aumento della domanda e dei prezzi delle merci esportate in Cina (nel caso argentino, la soia). Con le imposte riscosse da queste esportazioni il governo riuscì a riportare in equilibrio i conti fiscali. Di conseguenza, l’economia stava crescendo con un surplus sia di bilancio che delle partite correnti (“surplus gemelli”).
Duhalde si era impegnato con i governatori del Partito Giustizialista a non ricandidarsi nel 2003. Le elezioni presidenziali furono caratterizzate dalla lotta intestina nel partito peronista in cui si confrontavano i candidati Carlos Menem, ex Presidente, sostenitore di un’impostazione monetarista, Rodriguez Saá, governatore della provincia di San Luis ed ex Presidente ad interim e Nestor Kirchner, governatore della provincia di Santa Cruz, appoggiato da Duhalde. Tutti i candidati si presentarono alle elezioni trasformandole, de facto, in una campagna elettorale interna. Vinse Menem, con il 24% dei voti, e secondo classificato fu Kirchner con il 22% dei voti. Poiché nessun candidato aveva ottenuto la maggioranza assoluta si andò al secondo turno (il ballottaggio). Tuttavia Menem rinunciò a presentarsi perchè tutti i sondaggi ne prevedevano una sconfitta schiacciante. Kirchner diventò il nuovo Presidente e confermò nel suo incarico il ministro dell’economia per assicurare continuità rispetto all’amministrazione precedente.
Le loro azioni di governo cercarono di differenziarsi dalle teorie economiche di Menem. Durante l’amministrazione di Kirchner si arrivò alla definitiva stabilizzazione monetaria e dei tassi di cambio. Per quello che riguarda i tassi di cambio si stabilì, da un lato, una fluttuazione controllata (con intervento della Banca Centrale), in contrasto con quanto richiesto dal Fondo Monetario Internazionale che chiedeva tassi di cambio completemente flessibili. Dall’altro lato, si obbligò a vendere direttamente alla Banca Centrale i dollari provenienti dall’esportazione. In campo monetario si riscattò la totalità dei buoni al portatore emessi dalle province che circolavano come banconote con corso legale (“Quasi moneta”). Tra il 2003 ed il 2007 il Prodotto interno lordo crebbe a “tassi cinesi” con una media annuale vicina al 9% e con il mantenimento dei “surplus gemelli”. Nel 2005, dopo una negoziazione guidata dal ministro dell’economia Lavagna, si riuscì a ristrutturare il debito pubblico con una riduzione di circa il 75%. Gli acquisti del debito da parte dagli obbligazionisti privati furono alti, attestandosi al 76% del debito (del valore delle emissioni).
Nell’ottobre del 2005 si tennero le elezioni nazionali nelle quali si formalizzò la rottura di Kirchner con Duhalde e Lavagna. Dopo aver battuto il duhaldismo, Kirchner cacciò dal governo Lavagna e cominciò a prendere lui stesso le decisioni economiche. La ragione principale della rottura fu la volontà di capitalizzare, dal punto di vista politico, il successo economico. Kirchner temeva che Duhalde o Lavagna potessero candidarsi nelle successive elezioni presidenziali.
Nei primi giorni del 2006 Kirchner decise di cancellare anticipatamente il debito con il Fondo Monetario Internazionale. Il governo rimborsò più di 9,5 milioni di dollari per evitare che l’FMI supervisionasse le sue azioni. Questa decisione fu presentata ai cittadini come un atto di sovranità in seguito ai precedenti interventi fallimentari del FMI nel paese (Frenkel y O´Donnell, 1978).
Tutte le variabili macroeconomiche mostravano un andamento positivo; tuttavia, la rapida crescita cominciò a generare pressione sul livello dei prezzi. Pensando alla corsa per le elezioni presidenziali del 2007, Kirchner decise di non applicare un programma contro l’inflazione che avrebbe avuto come effetto quello di raffreddare l’economia. Al contrario, fece intervenire l’istituto statistico statale (INDEC) per manipolare gli indici. A questo segnale di fallimento del modello – oltre all’assenza di un accordo politico per correggerlo – si unì la crisi finanziaria internazionale del 2007-2008.
3. L’esaurimento del modello (2007-2015)
Nell’ottobre del 2007 Kirchner presentò sua moglie Cristina Fernández de Kirchner come suo successore. Cristina Fernández si impose con il 42,5% dei voti nel primo turno contro un’opposizione molto frammentata. Poco dopo l’insediamento la Presidente dovette fronteggiare gli effetti della crisi internazionale nel paese con una inflazione che arrivava al 25% annuo. Poichè l’Argentina era isolata dai mercati finanziari, la crisi arrivò attraverso il canale commerciale: i prezzi delle merci crollarono e la domanda si ridusse. In questo contesto, l’annuncio di un aumento delle imposte sull’export portò ad uno scontro con i produttori di merci da esportazione. La grave crisi erose il capitale politico del kirchnerismo e frantumò la coalizione di governo.
Alla ricerca di maggiori risorse fiscali per poter applicare politiche espansive nel mezzo della crisi, nel 2008 Cristina Fernández de Kirchner promosse la nazionalizzazione del sistema pensionistico. Le politiche di controllo dell’inflazione generarono distorsioni nei prezzi: per esempio, il trasporto pubblico e i prezzi dell’energia furono sussidiati dal governo. Questo enorme ammontare di sussidi schiacciò i conti pubblici fino ad arrivare ad una situzione di crisi da deficit. Nel 2009 ci fu una diminuazione del 4% del PIL e la prima sconfitta elettorale del kirchnerismo. Nello stesso anno il governo pagò una parte del debito con riserve della banca centrale, nonostente le critiche dell’opposizione, e annunciò una ristrutturazione ed un nuovo scambio per i titolari di obbbligazioni che non avevano aderito allo scambio nel 2005. Lo scambio con una riduzione del valore nominale del 50% fu accettato dal 97% dei creditori che continuavano a detenere i titoli in default (tra i quali la maggioranza degli obbligazionisti italiani).
Dopo l’improvvisa morte di Néstor Kirchner nel 2010, l’umore dell’opinione pubblica cominciò a cambiare e l’immagine di Cristina Fernández ne trasse beneficio. Nel 2011 la Presidente fu tranquillamente rieletta con più del 54% delle preferenze. A poche settimane dall’inizio del nuovo mandato scoppiarono scandali per episodi di corruzione che coinvolgevano il vicepresidente Amado Boudou. Tra il 2011 e il 2015 ci fu un periodo di stagnazione con un’alta inflazione (stagflazione). Nel 2011, aumentò il deficit nei conti pubblici e nel 2012 cominciò a salire il deficit della bilancia commerciale (soprattutto a causa del costo dell’importazione di energia). Lo squilibrio estero portò ad una scarsità di dollari che costrinse il governo ad imporre un rigido controllo del tasso di cambio e delle riserve valutarie.
Di fronte all’impossibilità di aumentare le imposte o di ottenere prestiti dall’estero per far fronte al deficit di bilancio, il governo cominciò ad emettere moneta. La stampa di banconote provocò un aumento dei prezzi. Le critiche alla politica economica e allo stile della Presidente indussero una corrente del PJ a sfidare la Presidente alle elezioni del 2015, sconfiggendo il suo candidato. Dall’altra parte, l’opposizione unita ha visto aumentare le sue possibilità di andare al governo.
Per quanto riguarda il debito, questi anni furono caratterizzati dal conflitto giudiziario con i detentori di bond argentini che non avevano accettato gli accordi di ristrutturazione del debito con il governo di Buenos Aires, i cosiddetti holdout (che in inglese significa appunto opporsi) o fondi “avvoltoi” (hedge fund che avevano comprato obbligazioni a prezzi stracciati durante l’interruzione del pagamento delle cedole e avevano poi rifiutato i concambi puntando su un’azione legale per ottenere il rimborso pieno dei titoli in loro possesso). Peraltro, il governo argentino regolarizzò, nel 2014, il suo debito in default con il Club di Parigi. Alla fine del governo di Cristina Fernández de Kirchner, il debito era pari al 52% del PIL e gran parte di esso era in pesos.
Grafico 1 – Debito del governo centrale come percentuale del PIL
4. Il cambiamento del modello di presidenza di Mauricio Macri (2015-2019)
Nelle elezioni del 2015 Mauricio Macri, capo del governo della città di Buenos Aires, fu eletto Presidente al secondo turno. Il nuovo Presidente, fautore di politiche monetariste, guidava una coalizione tra il suo Partito, Proposta Repubblicana (PRO), il Partito di Centro (UCR) e la Coalizione Civica (CC). Il suo gabinetto economico valutò criticamente il “populismo” kirchnerista perché aveva incoraggiato il consumo interno con misure protezionistiche, sussidi ed emissioni di moneta: gli squilibri macroeconomici ed un indice di povertà di circa il 30% furono presentati come “la pesante eredità” di quell’epoca.
Pertanto, l’inflazione era ritenuta il risultato dell’emissione di moneta, del deficit di bilancio e dell’aumento dei salari. Il piano di azione incluse una politica graduale di aggiustamento sul piano fiscale ed un finanziamento del deficit con un prestito internazionale, l’eliminazione di imposte alle imprese, la liberalizzazione delle tariffe del trasporto e dell’energia, l’eliminazione di vincoli all’importazione di beni affinchè potessero competere con l’industria argentina e l’aumento dei tassi di interesse per attrarre dollari con obbligazioni emesse in pesos.
Per sviluppare questo piano il governo doveva, in primo luogo, liberalizzare il tasso di cambio (il che comportava una svalutazione del 30%) ed accordarsi con i creditori più rigidi (gli holdout) per uscire definitivamente dal default. Raggiunse entrambi gli obiettivi con successo, consentendo all’Argentina di accedere nuovamente al credito internazionale. Si liberalizzò anche il movimento in entrata dei capitali, il che attrasse investimenti finanziari o speculativi a breve termine. Nei due anni seguenti l’economia ebbe una piccola ripresa e ricevette prestiti per circa 40 miliardi di dollari. Con tali aspettative positive, il Presidente riscosse un trionfale successo alle elezioni parlamentari del 2017 (i candidati macristi si imposero su Cristina Fernández nella provincia di Buenos Aires).
In seguito alla vittoria elettorale il governo cercò di accelerare il suo piano di riforme fiscali, tributarie e del sistema di protezione e sicurezza sociale. Tuttavia, il 2018 sarà ricordato come uno degli anni peggiori nella storia economica del paese. I cambi e la congiuntura internazionale e, in generale, una cattiva annata dimostrarono la vulnerabilità del piano del governo. In quest’anno la fuga di capitali (in seguito ad un aumento dei tassi di interesse nell’Unione Europea) obbligò ad una svalutazione del peso di più del 50% e un aumento del tasso di interesse di più del 70%, causando una diminuzione del PIL del 3% ed un’inflazione di circa il 40%.
Con il venir meno dell’accesso ai finanziamenti internazionali, il governo fu costretto a ricorrere al salvataggio del FMI per 50 miliardi di dollari (il più grande nella storia). Il Presidente si impegnò a ridurre il deficit di bilancio a zero. Per questo tornò a ridurre le barriere commerciali e ad applicare politiche di aggiustamento strutturale. Con la svalutazione il valore reale dei salari crollò, aumentò la disoccupazione e l’indice di povertà crebbe del 40%. Al termine del mandato di Macrì, il debito estero era di 320 milioni di dollari, pari al 90% del PIL, con scadenze di pagamenti improbabili.
La campagna per le elezioni del 2019 si svolse nel contesto di un aggiustamento e con il peggioramento di tutte le varabili economiche. L’incertezza politica aggravò gli squilibri economici. Sul versante dell’opposizione, il peronismo decise di accantonare le divisioni e formare il Fronte di Tutti, guidato da Alberto Fernandez, Sergio Massa e Cristina Fernandez de Kirchner. Nella prima tornata elettorale Alberto Fernandez fu eletto Presidente con il 48% dei voti, e Cristina Fernandez tornò al potere come vicepresidente. Macrì arrivò secondo ottenendo il 40% dei voti.
5. Conclusioni
La descrizione della politica economica dal 2011 fino ad oggi mostra la mancanza di accordo tra i politici sul modello di sviluppo economico a lungo termine. L’incertezza generò alti e bassi nella politica economica ad ogni cambio di governo e la logica di breve termine guidò le decisioni degli attori politici ed economici.
Tuttavia, a fronte di queste incongruenze nella politica economica, nell’analizzare i cambiamenti delle regole del gioco è comunque necessario tenere presente la solidità del sistema democratico in Argentina, specialmente tenendo conto di un contesto regionale convulso (il declino democratico in Venezuela, la destituzione di Morales in Bolivia, le violente sommosse di strada in Cile e l’ascesa di un outsider radicale come Bolsonaro in Brasile).
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