La verità della storia è nei dettagli? Dal franco CFA all’Eco
In economia, i fattori monetari sono importanti e non possono essere liquidati come irrilevanti perché – come pretenderebbe la teoria economica ortodossa – i prezzi in valuta sono solo un riflesso dei fattori economici fondamentali, anzitutto gli scambi commerciali. Al contrario, la finanza svolge un ruolo sostanziale nella determinazione dei livelli di produzione e di occupazione. In questo contesto, tenuto conto che in ambito internazionale operano al contempo diverse monete nazionali, le quotazioni delle diverse valute (come l’euro o il dollaro) dipendono dalle decisioni di breve periodo degli investitori internazionali, al punto che il commercio stesso dipende dalla volatilità dei tassi di cambio.
Possono sembrare argomenti tecnici molto noiosi, ma le implicazioni politiche che ne derivano sono di primaria importanza: seguendo la teoria economica ortodossa, l’obiettivo fondamentale della politica monetaria (e delle banche centrali) deve essere quello di evitare l’inflazione, come è avvenuto negli ultimi quaranta anni in Europa e in Africa; viceversa, adottando il secondo punto di vista, l’obiettivo primario deve essere quello di aumentare l’occupazione e la qualità del lavoro.
Questa premessa è utile per non perdere di vista gli elementi essenziali attorno a un fatto di cui oggi in Africa si parla molto. Per l’Africa occidentale, il 2020 sarà l’anno dell’addio al franco CFA, la valuta storica di quella regione, fortemente legata, sul piano simbolico e non solo, al dominio coloniale francese: fu istituita nel dicembre del 1945 come franco delle Colonie francesi d’Africa (CFA), si trasformò in franco della Comunità francese dell’Africa nel 1958 e oggi è adottata contemporaneamente sia dagli otto paesi che aderiscono all’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (denominata UEMOA, dal francese Union économique et monétaire ouest-africaine, e costituita da Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau – ex colonia portoghese –, Mali, Niger, Senegal e Togo), per i quali l’acronimo significa franco della Comunità finanziaria dell’Africa, sia dai sei paesi che aderiscono alla Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (denominata CEMAC, dal francese Communauté économique et monétaire de l’Afrique centrale, e costituita da Camerun, Ciad, Congo, Guinea Equatoriale– ex colonia spagnola –, Gabon e Repubblica Centrafricana), paesi per i quali CFA sta invece per franco della Cooperazione finanziaria dell’Africa centrale.
La riforma del franco CFA è stata annunciata a fine dicembre 2019 dal Presidente della Costa d’Avorio Alassane Ouattara – che si prepara alle elezioni del 2020 – in occasione dell’incontro ad Abidjan col Presidente francese Emmanuel Macron. In realtà, sono almeno trenta anni che a livello tecnico si parla di abbandono, mantenimento o aggiustamento del franco CFA, ma questo è diventato argomento politico molto acceso e di dominio pubblico solo nel gennaio 2019, quando Kako Nubukpo, economista togolese noto per la sua ostilità al franco CFA – su cui aveva scritto articoli su diversi quotidiani –, è stato sospeso dal suo incarico di Direttore della francofonia economica e digitale presso l’Organizzazione internazionale della francofonia (Organisation internationale de la Francophonie, OIF).
In breve la decisione di abbandonare il franco CFA si è trasformata in una discussione pubblica sul controllo ingiustificato della Francia sulle economie africane. Bisogna però chiarire che la fine del franco CFA sarà una scelta che interesserà solo gli otto paesi UEMOA, cioè non tutti i paesi dell’Africa occidentale né tutti quelli che adottano il franco CFA, che comprendono anche i sei paesi dell’Africa centrale. Se così vorranno, questi otto paesi potranno avere la nuova valuta comune e, solo in prospettiva, potranno aggiungersi anche gli altri sette che con essi formano la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (denominata ECOWAS, dall’inglese Economic Community of West African States, oppure CEDEAO, dal francese Communauté économique des États de l’Afrique de l’ouest ).
Otto paesi la cui popolazione totale è di 130 milioni di abitanti, pari solo al 10% della popolazione africana e, per capire l’ordine di grandezza, al 63% di quella della Nigeria, il paese di maggior peso in quella regione di Africa. Otto paesi che, in termini economici, non sono certo il motore dell’Africa: complessivamente, nel 2018 hanno prodotto circa 130 miliardi di dollari, cioè meno di un terzo di quanto ha prodotto la Nigeria (circa 400 miliardi di dollari) e molto meno, per esempio, della ricchezza prodotta nello stesso anno dall’Italia (circa 2 mila miliardi di dollari).
Ma, al di là del peso relativo in termini puramente quantitativi, la domanda importante da porsi è se si tratti di un cambiamento epocale, di una rivoluzione o qualcosa di simile a quello che potrebbe rappresentare la fine dell’euro.
La risposta è no, niente di tutto questo, e per diverse ragioni. Sarà però un passo simbolico da non sottovalutare, senza dubbio con un’importante valenza politica. Tale scelta comporterà, infatti, tre cambiamenti reali.
Anzitutto, gli otto paesi UEMOA non avranno più una moneta chiamata franco, il che significa simbolicamente rompere con un lascito e la sopravvivenza del passato coloniale. Inoltre, in base a un accordo che dovrebbero firmare a luglio del 2020 con la Francia, gli otto paesi porranno fine all’obbligo per la Banca centrale degli stati dell’Africa occidentale (in francese: BCEAO, Banque Centrale des États de l’Afrique de l’Ouest) di depositare il 50% delle proprie riserve valutarie in un conto operazioni presso il Ministero del tesoro francese. Infine, la Francia si ritirerà dagli organi di governo dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale, dove in passato (fino alla riforma del 2010) deteneva il diritto di veto e non nominerà più alcun rappresentante nel Consiglio di amministrazione e nel Comitato di politica monetaria della BCEAO.
Perché allora pensare che questo cambiamento non comporterà una trasformazione profonda?
Anzitutto, i problemi dell’Africa non sono un problema essenzialmente valutario, ma sono soprattutto problemi di scelte di indirizzo di politica economica e di gestione dei fondi pubblici, così come si suggeriva in premessa.
La sostituzione del franco CFA con la nuova divisa – per la quale a giugno del 2019 è stato formalmente adottato il nome di Eco – non significa che le autorità africane saranno in grado di determinare liberamente il tasso di cambio della loro nuova valuta, né di raggiungere l’autonomia finanziaria o di definire collegialmente politiche economiche e finanziarie orientate a un modello di sviluppo fondato sull’obiettivo dell’occupazione di qualità e la sostenibilità ambientale.
Non bisogna poi dimenticare che quel 50% di riserve valutarie “trattenute” a Parigi che saranno liberate, oltre ad aver assicurato finora il versamento da parte francese ogni tre anni degli interessi maturati (ad un tasso minimo fissato nel 2013 allo 0,75%), ammontano a circa 5 miliardi di euro, un valore troppo esiguo per pretendere di assicurare una capacità finanziaria sufficiente a proteggere la nuova valuta da forti variazioni esogene, derivanti da pressioni come l’apprezzamento o il deprezzamento del dollaro, le crisi politiche, le tensioni militari, la crisi della domanda o dell’offerta a livello internazionale e gli effetti dei cambiamenti climatici. Sono questi elementi strutturali e persistenti che rendono vulnerabile e incerto il potere di una valuta africana, quale che essa sia, franco CFA, Eco o altro.
Molti in Africa ricordano che nel 1994 fu subita come decisione imposta unilaterale della Francia e in ossequio alle indicazioni delle istituzioni finanziarie internazionali di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) la forte svalutazione del franco CFA, che perse metà del suo valore.
Ma non si deve nemmeno dimenticare che, dopo che la sede della BCEAO fu spostata da Parigi a Dakar tra gli anni Settanta e Ottanta, il Consiglio superiore della BCEAO ha sempre e pervicacemente perseguito l’obiettivo di contenere l’inflazione, più che promuovere occupazione, ripresa economica o promozione di un nuovo modello di sviluppo. Per esempio, nel 2014 il livello delle riserve legali detenute dalla BCEAO era superiore del 30% a quello richiesto dai trattati, eppure l’obiettivo di politica non cambiò e si mantenne una politica monetaria restrittiva, in ossequio a una logica neoliberista che è ben nota anche in Europa e che pone come obiettivo quello di controllare l’inflazione e, quindi, assicurare la stabilità monetaria prima di ogni altra cosa.
Tutto ciò per dire che il vero problema non è valutario in sé (il franco CFA) e non riguarda le riserve disponibili depositate in Francia, bensì la scelta di adottare o meno soluzioni alternative di politica economica e finanziaria, fiscale e monetaria, con spazi di manovra molto maggiori su inflazione e finanziamento in deficit. Troppo spesso, anzi, la mancanza di coraggio e visione politica, in Africa come in Europa, si è nascosta dietro presunti obblighi o richieste esterne, preferendo delegare volontariamente a tecnici il compito di prendere le decisioni politiche, spesso impopolari.
Inoltre, molti studi dimostrano che il rafforzamento dell’integrazione economica richiede un aumento degli scambi commerciali all’interno della regione, il che non è avvenuto e non avviene in Africa occidentale, dove il commercio tra i paesi membri è piuttosto basso. Non si può pensare che si tratti di un destino a cui i paesi dell’Africa occidentale sono stati condannati dal passato coloniale o dalla presenza del franco CFA; contano molto diverse variabili (il basso livello di reddito, la dimensione limitata della popolazione, le distanze), ma sono soprattutto tre fattori (carenze infrastrutturali, politica economica inadeguata e tensioni politiche) a determinare questa situazione, fattori su cui hanno responsabilità i governi africani. Paradossalmente, proprio la scelta di mantenere il franco CFA fu dettata dall’obiettivo di promuovere la libera circolazione di merci, capitali, persone e servizi tra vari paesi della regione, ma l’interscambio non è mai decollato in Africa occidentale e gli scambi avvengono di più con paesi di altri continenti.
La futura moneta Eco sarà davvero funzionale al miglioramento delle condizioni economiche e sociali della popolazione africana se la futura unione monetaria corrisponderà a un reale mercato comune dell’Africa occidentale e a un’effettiva integrazione politica e sociale, che del resto era il progetto sia dell’UEMOA, fondata nel 1994, sia dell’UE in Europa. Se nei venticinque anni trascorsi l’integrazione regionale non è decollata e le politiche regionali non hanno funzionato non si può pensare che la colpa sia tutta del franco CFA. Per di più, la prospettiva di un allargamento dell’attuale area monetaria agli altri stati membri dell’ECOWAS collide con il rischio di indebolimento della coesione (ancora una volta, le difficoltà dell’allargamento a est dell’UE sono un’utile lezione da apprendere).
Né si può pensare che il problema, diffuso in quella parte di Africa, della solvibilità dei richiedenti prestiti e della mancanza di fiducia degli istituti finanziari nei loro confronti sarà risolto dalla sostituzione del franco CFA con l’Eco. A dispetto del passaggio dal franco CFA all’Eco, rimangono alcuni nodi del passato, relativi all’autonomia africana.
Il franco CFA iniziò a circolare in un regime di tasso fisso con il franco francese e la convertibilità fu garantita dal Ministero del tesoro francese e successivamente, con l’entrata dell’euro, quest’ultimo si sostituì nel 1999 al franco francese. Rispetto a questa storia, il primo elemento di forte continuità col passato è proprio legato al fatto che la parità fissa del franco CFA con l’euro verrà applicata anche all’Eco (1 euro = 655,96 franchi CFA) al fine di evitare rischi di inflazione. A questo proposito, diverse voci critiche si sono levate in Africa, ricordando che l’euro è una valuta forte, il che crea problemi per le economie della regione africana, che sono molto meno competitive, laddove si volesse privilegiare la crescita economica e l’occupazione piuttosto che combattere l’inflazione. Per questa stessa ragione è stata proposta la fine della parità fissa con l’euro a favore dell’indicizzazione rispetto a un paniere delle principali valute mondiali (il dollaro, l’euro e lo yuan cinese). Del resto, è utile ricordare che proprio la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale aveva deciso in precedenza che l’Eco avrebbe utilizzato un tasso di cambio flessibile, rispetto a un paniere di valute. Sono aspetti tecnici importanti per il destino della valuta: quale regime di cambio, quale tipo di parità e su quale tipo di valuta è fissato? Si rafforzerà davvero, e se sì come, la capacità di promuovere una politica monetaria proattiva e di attutire gli shock che possono colpire le economie?
Su questo punto interviene un’altra novità. La Francia manterrà il suo ruolo di garante finanziario per gli otto paesi dell’Africa occidentale, in modo tale che se la BCEAO dovesse trovarsi a fronteggiare una mancanza di disponibilità valutaria per coprire i propri impegni in valuta estera, sarà in grado di ottenere dalla Francia gli euro necessari; inoltre, in caso di crisi valutaria dell’Eco, la presenza della garanzia consentirà di ritornare agli organi di gestione del franco CFA. In pratica, a luglio del 2020, a fianco della fine del deposito del 50% delle riserve valutarie in un conto operazioni presso il Ministero del tesoro francese (ma non del deposito della quasi totalità di riserve auree), l’accordo prevedrà la trasformazione dello scoperto illimitato concesso dalla Francia alla BCEAO in una linea di credito illimitata, di fatto una garanzia di ultima istanza per evitare la speculazione e la fuga dei capitali. Ciò perché, in parallelo, il principio della libera trasferibilità dei capitali – cioè, la facoltà delle imprese transnazionali di rimpatriare, se lo desiderano, i profitti ottenuti in Africa occidentale – non sarà messa in discussione o limitata.
Queste sono le ragioni per cui, tra molti economisti dell’Africa occidentale, l’impressione prevalente è che l’avvento della nuova valuta in sostituzione del franco CFA sia sì un passo avanti verso la sovranità monetaria (cioè, il controllo sulla gestione valutaria), ma da considerare con molta prudenza, sapendo che si tratta solo di un primo e modesto passo in avanti.
Non a caso la prima potenza economica e demografica dell’ECOWAS, la Nigeria, come pure l’altro polo economico dinamico, il Ghana, seguono con cauto interesse l’evoluzione. Proprio a dicembre del 2019, il ministro delle finanze della Nigeria, Zainab Shamsuna Ahmed, ha affermato che l’attuazione dell’Eco nel 2020 «non è un fatto sicuro» e «c’è ancora molto lavoro da fare per soddisfare i criteri di convergenza» per determinare i paesi che potranno aderire. Criteri non negoziabili, a cominciare dai quattro princìpi ortodossi (basso tasso di inflazione, basso deficit di bilancio rispetto al PIL, ricorso limitato al finanziamento in deficit della spesa pubblica da parte della banca centrale, riserve valutarie sufficienti a dare copertura alle importazioni nel breve periodo), che non hanno nulla a che vedere con gli obiettivi di sviluppo sostenibile e inclusivo in termini di occupazione o di welfare, e che, al contrario, adottano il principio della disciplina di bilancio in vigore nell’UE.
Come temono alcuni studiosi africani, se la nuova valuta in Africa occidentale perpetuerà lo stesso sistema di subalternità finanziaria e di politica economica del passato in una forma nuova, ciò sarà un duro colpo per il difficile processo di integrazione in Africa. Tutto ciò non è un alibi per deresponsabilizzare il resto del mondo, Italia compresa. La riforma delle politiche economiche, commerciali, finanziarie e ambientali in Africa è fondamentale, ma questo deve accadere insieme a un cambiamento delle norme sociali internazionali, in modo che tutti riconoscano i benefici collettivi di uno sviluppo equo e sostenibile.
Al momento, la prima fase della nascita dell’Eco sta procedendo bene, ma il modello strutturale di sviluppo non è messo seriamente in discussione. Contemporaneamente, in un altro paese della regione, la Liberia, che utilizza il dollaro liberiano e non il franco CFA, montano le proteste di piazza per la continua e crescente svalutazione della valuta locale, che determina l’aumento dei prezzi dei beni importati e del tasso d’inflazione. Ma questa è un’altra storia.