Nell’attuale fase di profondi cambiamenti sociali, economici e ambientali, la “sfida alimentare” si presenta come una questione fondamentale che non riguarda solo i processi finali, che toccano più da vicino le tavole di tutto il mondo, ma rende necessari cambiamenti strutturali, a partire dalle modalità di produzione, allevamento e coltivazione. Quella che può imporsi oggi, sotto forme variegate ed eterogenee, è una nuova filosofia, fondata sui pilastri della sicurezza e della sovranità alimentare, in cui ogni comunità possa riuscire a essere più o meno direttamente coinvolta, informata e resa cosciente riguardo al cibo che consuma.
Un caso paradigmatico è quello della produzione della soia in Argentina, paese di forte polarizzazione sistemica sociale ed economica, di forti conflitti sociali legati allo sfruttamento agricolo del terreno, di “paradossi alimentari” e, al contempo, di movimenti sociali radicati e presenti sul territorio. In Argentina – primo esportatore mondiale di farina di soia (dati della Borsa di commercio di Rosario) con 27 milioni di tonnellate, pari al 43% del commercio mondiale, mentre copre solo il 7% delle esportazioni mondiali di soia grezza, superata da Stati Uniti e Brasile – l’esportazione complessiva di semi di soia e derivati ha raggiunto quasi 60 milioni di tonnellate tra il 2018 e il 2019, sostenuta da una costante espansione delle zone di produzione.
Fino a qualche decennio fa, la soia era coltivata principalmente nelle fertili zone delle Pampas ma, con l’aumentare della domanda internazionale, il peso della produzione di soia si è fatto sempre più significativo, arrivando già a metà degli anni Duemila a superare la metà della produzione agricola nazionale, con impatti ambientali e sociali di enorme rilievo nelle province di Buenos Aires, Cordoba e Santa Fe, in cui i semi di soia vengono maggiormente coltivati. Alcune zone del paese, a causa della coltivazione intensiva di soia (ormai soprattutto transgenica), hanno perso circa il 50% delle terre d’origine possedute nella prima metà del XX secolo e questo sfruttamento, unito all’utilizzo di prodotti biochimici e fertilizzanti con forte impatto per il terreno coltivato, si prevede che possa consumarne definitivamente i nutrienti già nell’arco di qualche decennio. Questo spropositato aumento produttivo, diretta conseguenza della globalizzazione dei mercati e dei progressi tecnologici, che permettono di realizzare coltivazioni intensive con erbicidi a prezzi irrisori e modalità di lavoro semplificate, ha seriamente compromesso gli ecosistemi di numerose province dell’Argentina.
La trasformazione degli ambienti rurali è sempre più evidente, determinata dal consistente aumento di piante resistenti al glifosato, dalla desertificazione, dalla riduzione della biodiversità, dal costante impoverimento del suolo causato dalle monocolture intensive e volte quasi esclusivamente all’esportazione. Negli ultimi vent’anni, in particolare, i fertilizzanti nocivi legati alla produzione di soia sono diventati quelli più utilizzati nelle campagne argentine, adottati e promossi da grandi imprese multinazionali come la statunitense Monsanto e l’olandese Nidera, che insieme a poche altre controllano, di fatto, questo mercato. Le conseguenze economiche sono facili da immaginare: un indebolimento complessivo dell’economia nazionale, sempre più vincolata a un unico prodotto, alla sua esportazione e all’altalena dei prezzi dei mercati internazionali; una perdita sui mercati interni di varietà di prodotti, che ha fatto rialzare i prezzi di molti beni alimentari, mentre la superficie delle coltivazioni di soia è aumentata a dismisura e in maniera incontrollata (+126% solo nei primi anni Duemila); l’esclusione dei piccoli produttori dal mercato su larga scala e dall’accesso a tecnologie competitive e sostenibili. Tutto ciò, ovviamente, compromette i due princìpi fondamentali di sovranità e sicurezza alimentare, procurando duri contraccolpi sociali e nutrizionali per le popolazioni urbane e rurali.
È indubbio che, storicamente, l’uomo e le sue relazioni sociali abbiano profondamente e costantemente modificato il territorio, determinando nuovi spazi sociali, culturali e politici. È proprio per questo che possiamo considerare la produzione agricola di cui stiamo parlando non solo come un fattore ambientale ed economico, ma anche e soprattutto come una questione sociale, legata al lavoro e ai suoi conflitti, che impone di ripensare le forme della partecipazione e di riconfigurare alcune logiche che, da qualche decennio, risultano dominanti a livello nazionale e internazionale. Seguendo il modello della sociologa argentina Maristella Svampa (2008), possiamo distinguere tre diverse “tendenze” dell’ecologismo nel paese: la prima, limitata alla preservazione dell’ambiente e della natura, soprattutto quella silvestre; un’altra, che possiamo definire “eco-scientifica”, che opta per uno sviluppo tecnologico fondato sul rispetto dell’ambiente (anche se questo approccio è spesso stato usato da grandi imprese e multinazionali per giustificare i propri interventi); infine, un “peronismo ambientale” o “ecologia popolare”, in cui i fattori ambientali si mescolano con i conflitti sul lavoro, le disuguaglianze e lo sfruttamento, non solo delle terre ma anche dei lavoratori. Da quest’ultima corrente, in particolare, proviene un’originale proposta culturale e scientifica che cerca di sintetizzare saperi tradizionali e contemporanei, le nozioni di “locale” e “globale”, scambi commerciali e autosufficienza, prospettando nuove modalità collettive e pluralistiche nella gestione delle risorse, del territorio e della cittadinanza.
È più che legittimo, in questo caso, parlare dunque di “funzione sociale” della terra, con una riconfigurazione del concetto stesso di produttività, come sostiene Carlos Federico Marés, che è stato anche presidente della brasiliana Fundação Nacional do Índio: la produttività non è più intesa come misura di profitto economico, bensì come capacità di coniugare produzione e tutela del suolo e della natura, garantendo anche i diritti dei lavoratori. In base a questo, Marés prevede una vera e propria “meritocrazia” nel diritto di proprietà della terra, in quanto reclamabile solo da chi ne sappia fare un uso consapevole e rispettoso.
Dato che, a livello legale e costituzionale, mancano strumenti (e spesso anche volontà) statali per assicurare un accesso equo alle terre, così come regole per un loro utilizzo adeguato, nel corso degli ultimi decenni il conflitto tra le campagne e governo argentino ha conosciuto un notevole inasprimento. Lo scontro, sempre limitato alle comunità rurali direttamente interessate e mai esteso alle masse, escludendo alcuni grandi movimenti come La Via Campesina (movimento internazionale che riunisce milioni di contadini, agricoltori senza terra, donne contadine, indigeni, migranti e lavoratori agricoli di tutto il mondo a difesa della piccola agricoltura sostenibile e della giustizia sociale, oltre che artefice dell’introduzione del concetto di sovranità alimentare negli anni Novanta), ha però dato alcuni frutti tra cui la nascita della Subsecretaría de Agricultura Familiar nel 2008. Tale organismo ha portato alla nomina in tutto il paese di circa 1.300 tecnici e all’approvazione nel 2015 della legge 27.118, o “Legge di Agricoltura Familiare”, che riconosce nel suo Articolo 1 l’agricoltura familiare come un fattore “di interesse pubblico grazie al suo contributo alla sicurezza e alla sovranità alimentare del popolo, permettendo di praticare e promuovere sistemi di vita e di produzione che preservino la biodiversità e i processi sostenibili di trasformazione produttiva”. Nonostante questi piccoli passi avanti, la legge va di fatto a inserirsi negli esigui spazi lasciati dall’industria agrozootecnica e riguardanti ambiti “non imprenditoriali”, dando così un’applicazione pratica al piano di sviluppo economico proposto dal Plan Estratégico Argentino 2012-2020 (PEA), un vero e proprio patto socioeconomico in cui le istituzioni cercano di pianificare gli interventi strutturali insieme alle rappresentanze della società civile.
Partecipano agli incontri con il governo gli enti locali, le università, varie organizzazioni nazionali e internazionali, comunità ed imprese, per discutere gli indirizzi politico-economici. Con il più recente PEA, si è deciso di aumentare di 9 milioni di ettari la superficie destinata alle coltivazioni di mais, soia e simili (+27%), portando a conflitti e trasferimenti forzati di intere comunità indigene. L’obiettivo è quello di aumentare di quasi il 60% la produzione complessiva di questi prodotti da esportazione, anche grazie a un incremento della produttività del terreno resa possibile dalle nuove tecnologie e dagli accordi con grandi imprese come la Monsanto. Nonostante il PEA preveda due livelli decisionali – uno verticale-governativo e l’altro in consultazione con gli altri settori della società – la direzione intrapresa dalle istituzioni sembra in realtà univoca e tutt’altro che equilibrata, molto più orientata verso i mercati internazionali piuttosto che verso quelli interni.
Tale contesto ha reso necessarie nuove dinamiche di partecipazione e di mobilitazione come risposta collettiva alle problematiche legate allo sfruttamento del territorio, dell’ambiente e del lavoro. Nonostante, come già detto, la popolazione urbana (circa il 90% di quella totale in Argentina) sia perlopiù estranea a queste modalità partecipative, sono sorte numerose assemblee diffuse su tutto il territorio nazionale che si muovono parallelamente ma anche in maniera complementare ai grandi movimenti come La Via Campesina, costruendo reti locali e provinciali di commercio e compattandosi, per quanto possibile, contro lo strapotere dei grandi “Signori della soia” e dando priorità ai mercati locali e nazionali. Problematiche diverse caratterizzano le comunità, ciascuna portatrice di rivendicazioni legate alla particolare realtà locale. Le numerose organizzazioni di studiosi e avvocati nate per supportare le lotte delle comunità rurali sono riuscite ad ottenere significativi successi in tribunale, come quello che nel 2015 consentì al movimento Madres del Barrio Ituzaingó, dopo dodici anni di lotte, di ottenere la condanna di un’impresa in provincia di Córdoba dimostrando (per la prima volta in America Latina) il nesso di causalità tra la diffusione del cancro nella regione e i prodotti agrochimici utilizzati da quell’azienda.
Alcuni municipi (circa un centinaio, ovvero il 4% del totale nazionale) hanno applicato restrizioni all’impiego di prodotti agrochimici, in particolare al loro utilizzo attraverso l’irrorazione aerea. Nonostante questo e altri strumenti istituzionali (come la Ley de Tierras, adottata tra il 2011 e il 2012 con l’obiettivo di limitare l’influenza di attori esterni nell’utilizzo dei terreni argentini) l’impegno statale per un’equa distribuzione e un adeguato utilizzo dei terreni è ancora scarso. D’altro canto le organizzazioni contadine sono deboli, disorganizzate, eterogenee e poco coese, per cui nelle zone più marginali e di frontiera soprusi, sfratti e addirittura violenze non sono poi così rare. Il motto Resistir y producir rende bene l’idea della situazione in cui versano questi movimenti, anche se vanno registrati piccoli successi come la raccolta firme per la Ley Nacional de Bosques, una campagna che grazie a un milione e mezzo di sostenitori ha potuto potenziare la normativa che disciplina l’uso delle terre boschive.
Nonostante il panorama frammentato ed eterogeneo di queste realtà “resistenti”, esse rimangono il pilastro di un processo trasformativo ancora possibile, in cui le modalità di produzione e distribuzione alimentare seguano regole di democrazia, autonomia, equità, giustizia sociale e sostenibilità ambientale. Questi obiettivi vanno perseguiti con il tentativo, individuale e collettivo, di organizzare autonomamente la propria produzione, in base alle necessità e alle diversità ambientali; di favorire lo sviluppo dei mercati interni, anche per evitare eventuali sbalzi di prezzo dovuti a fattori esterni; di espandere il dibattito e la consapevolezza di comunità indigene e rurali, ma anche dell’opinione pubblica urbana, per aumentare la pressione sui governi e favorire la propria forza contrattuale. Ciò di cui tale processo ha bisogno, quindi, è una sinergia tra le dinamiche bottom-up e quelle top-down, in cui attori istituzionali e civili siano coinvolti allo stesso modo nei processi decisionali, fornendo ognuno i propri strumenti e le proprie conoscenze. La prima dinamica sarebbe fondamentale, in un contesto così conflittuale, per facilitare l’inclusione di stakeholder e istituzioni all’interno di un nuovo e più partecipativo modello decisionale; tuttavia, senza un elemento grassroots permarrebbe il rischio di innescare dinamiche verticistiche, clientelari, corrotte e oligarchiche. Un semplice processo bottom-up, invece, aumenterebbe il livello partecipativo e democratico, coinvolgendo direttamente gli attori maggiormente interessati, ma rischierebbe l’autoesclusione per le proposte troppo radicali e non filtrate da elementi istituzionali.
Figurano in questo scenario anche soggetti esterni come le Ong, spesso presenti in questi conflitti con atteggiamenti ambigui in quanto la loro azione è inevitabilmente condizionata anche dagli interessi dei donatori. Il ruolo principale, tuttavia, viene sempre svolto dalle reti contadine e da quelle autogestite. Va rilevato come le dinamiche top-down risultino, in generale, più comuni e sviluppate, in quanto meno radicali e più funzionali ad un generale mantenimento dello status quo, ossia ad un’espansione della produzione intensiva di soia senza una redistribuzione delle terre.
È dunque necessario un nuovo tipo di mobilitazione partecipata, in cui gli interessi delle parti possano convergere verso una trasformazione strutturale ad ogni livello. Sono in gioco fazioni che possono sembrare in contrapposizione tra loro e che spesso, effettivamente, lo sono, ma senza un governo consapevole delle conseguenze determinate dallo sfruttamento dissennato della terra, le azioni dei movimenti grassroots sono destinate a rimanere circoscritte a realtà locali e poco efficaci. Questa problematica si presenta in Argentina come una questione nazionale, tale da coinvolgere ogni settore della popolazione; il modello dominante di agroesportazione, infatti, danneggia l’economia nazionale, l’ambiente in ogni sua forma, le comunità urbane (costrette a mangiare cibo scadente) e quelle rurali (vittime di abusi di ogni tipo).
Da ultimo, esaminiamo l’influenza del modello agricolo attuale sull’alimentazione degli argentini. Anche in questo caso, i princìpi di sicurezza e sovranità alimentare risiedono alla base della possibilità di osservare una dieta corretta, sana, nutriente e di qualità. Secondo la Fao, nonostante la maggior parte dei principali prodotti d’esportazione argentini siano di tipo alimentare e la produzione nazionale in questo settore possa soddisfare ampiamente la popolazione locale, la disponibilità di prodotti per il consumo interno risulta scarsa. Questo paradosso colpisce soprattutto i settori sociali più deboli ed emarginati, in una situazione di costante vulnerabilità degli strati medio – bassi della popolazione. La sicurezza alimentare, che in questo caso si presenta come diritto all’accesso a un’alimentazione equilibrata, sana e consapevole, è un termine tecnico introdotto negli anni Settanta che richiede tre elementi fondamentali: disponibilità delle risorse alimentari, accesso agli alimenti e uso adeguato dei prodotti alimentari. In assenza di uno o più di questi elementi, si entra n una situazione di estrema fragilità sociale e alimentare. Negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi del 2001, sono aumentati in Argentina i casi di anemia, sovrappeso legato alla scarsa qualità dell’alimentazione, malnutrizione, mancanza di vitamina A, crescita rallentata dei bambini (una delle categorie più colpite da questa crisi alimentare). Non tutta la popolazione ha le medesime possibilità di garantirsi un’alimentazione sana e variegata, pertanto si va accentuando un dislivello principalmente qualitativo tra i diversi strati della società. Tale dinamica fa sì che la qualità sia sostituita dalla quantità, con un conseguente aumento del consumo di cibi dalle proprietà simili (soprattutto carboidrati) o poco nutrienti, che determinano il nuovo paradosso dell’aumento di obesità e sovrappeso, soprattutto nei settori più deboli.
La questione della crisi alimentare, in conclusione, si dimostra legata a tanti diversi aspetti della società contemporanea e l’Argentina ne è un chiaro esempio: economia, ambiente, sicurezza sociale ed alimentare, identità culturale e altri ancora sono gli elementi in gioco nella nuova conflittualità che si è creata, elementi da tenere presenti per superare le resistenze locali a favore di una svolta strutturale e sistemica delle dinamiche di coltivazione, produzione e distribuzione alimentare. Affinché questo avvenga, è necessaria non solo la convergenza tra le dinamiche bottom-up e quelle top-down di intervento e mobilitazione, ma anche e soprattutto la presa di coscienza, in particolare da parte delle popolazioni urbane, di tale problematica. Senza il coinvolgimento degli altri settori della società, i movimenti contadini rimarranno sempre emarginati e impegnati più in una lotta per la sopravvivenza che per l’effettiva difesa dell’ambiente, del territorio, della sicurezza e della sovranità alimentare.