La nuova cooperazione economico-militare tra Cina e America Latina
Com’è noto, la tentacolare presenza di Pechino ha ormai raggiunto buona parte dei paesi e dei settori economici e commerciali del pianeta. La Cina, infatti, negli ultimi venti anni ha stretto legami commerciali, economici e istituzionali con numerosi governi di tutto il mondo, intessendo una rete sempre più solida di legami bilaterali e multilaterali: dai BRICS al China-CELAC Forum, la presenza economica e politica di Pechino è sempre più diffusa. La apparentemente inesauribile fame cinese di risorse e materie prime ha fagocitato mercati, strutture produttive, rotte commerciali, ridisegnando non solo la gerarchia delle partnership economiche globali, ma costituendo un nuovo fattore geopolitico connesso alla vita politica, economica e militare di intere regioni. L’inarrestabile crescita economica e industriale cinese dell’ultimo ventennio ha reso necessaria una imponente e capillare espansione commerciale, fondamentale per provvedere alla produzione e ai mercati interni, ma soprattutto a sviluppare le proprie formidabili esportazioni.
È questo il caso dell’America Latina, area di cruciale interesse geopolitico e geoeconomico. Storico backyard di Washington, la regione si presenta ormai come un’unità frammentata di stati svincolati l’uno dall’altro e dai vicini statunitensi, inclini a gestire in modo del tutto indipendente i propri rapporti commerciali, politici e militari. Dal termine della Guerra Fredda, infatti, le priorità e gli interessi geopolitici degli Stati Uniti si sono spostati ad altre aree, quali il Medio Oriente, lasciando maggiore autonomia e raggio d’azione ai governi latinoamericani, non più tenuti sotto scacco dal Plan Condor e dalla lotta al comunismo nella regione.
L’importanza dell’America Latina, per Pechino, è duplice: da un lato, l’importanza geopolitica e la vicinanza geografica con Washington; dall’altra, ovviamente, la presenza nella regione di molte delle materie prime fondamentali per la produzione cinese. Non a caso, in America Latina troviamo il 45% delle risorse mondiali di rame, il 44.3% di argento, il 21% di metalli estraibili, il 20% di petrolio grezzo, il 18% di oro, oltre al 25% del territorio coltivabile, il 56% della produzione di soia e un’immensa riserva naturale di legna con le sue foreste.
Di conseguenza, la penetrazione cinese nella regione è stata determinata e inarrestabile, spaziando tra molteplici settori economici e produttivi dell’intera regione tanto da configurare l’area come il quarto partner commerciale cinese, dopo Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. È importante però sottolineare come le esportazioni latinoamericane verso la Cina consistano per l’80% circa in quattro tipologie di beni: soia, petrolio grezzo, metalli e rame. In tale ottica, non di rado i governi latinoamericani hanno preferito orientare le proprie strutture produttive verso questi settori, danneggiando i mercati interni e deformando le proprie economie, scegliendo così di privilegiare il canale commerciale con Pechino piuttosto che le reali necessità nazionali.
Oltre alle semplici relazioni commerciali, l’inserimento di Pechino è legato a doppio filo a tre altri settori: prestiti e investimenti diretti, infrastrutture e imprese private. In merito ai primi, solo nel 2018 si sono registrati quasi 8 miliardi di dollari impiegati da Pechino, di cui più di 5 rivolti al Venezuela e alla sua produzione di petrolio. Dal 2005, sono più di 140 i miliardi di dollari investiti o prestati direttamente dalle banche di Pechino nella regione, di cui la grande maggioranza proveniente dalla China Development Bank. Nel caso dei prestiti, paesi come Ecuador e Venezuela hanno optato per lo scambio oil-for-loan, ripagando le somme ricevute con spedizioni costanti di barili di greggio. Sono inoltre numerosi i progetti per le infrastrutture avviati in sinergia con i governi locali: tra proposte utopistiche o quasi (quali il Canale del Nicaragua) e disegni più concreti come strade e ferrovie (in particolare l’ambiziosa Twin Ocean Railroad tra Perù e Brasile), le iniziative cinesi spaziano dai trasporti all’energia, dall’estrazione alle comunicazioni, con il chiaro obiettivo di inglobare tali settori per direzionare più agilmente e unilateralmente le produzioni e le risorse a cui Pechino è interessata.
Da ultima, la penetrazione di imprese cinesi sul suolo latinoamericano riguarda sia installazioni dirette, come quelle dei giganti della comunicazione Huawei e ZTE, sia acquisizioni di imprese locali, che avvengono secondo modalità ormai consolidate:
1) condividere la proprietà con compagnie forti a livello nazionale, diventando co-owners come successo spesso in Brasile o come nel caso della China National Petroleum Corporation (CNPC) con Petroleos de Venezuela nel 2008;
2) investitori cinesi acquisiscono parti di aziende produttrici domestiche di energia, in un processo comunque simile al primo;
3) investitori cinesi forniscono ingenti prestiti alle major nazionali per ottenere in cambio una sorta di corsia preferenziale per l’acquisizione delle risorse, come la Development Bank of China e la CNPC con Petroleos de Venezuela nel 2010;
4) investitori cinesi aiutano imprese locali in sviluppo con considerevoli crediti, così da ricevere in cambio canali preferenziali di acquisto in quei determinati settori.
In generale, la bilancia commerciale tra Cina e America Latina non è mai stata così favorevole per quest’ultima dal 2009, registrando nel 2018 un incremento degli scambi (la Cina si è ormai solidamente affermata come il primo mercato per le esportazioni sudamericane, seconda agli Stati Uniti solo se si considera anche l’America Centrale) arrivando al 2.6% e 3.0% del PIL per quanto riguarda rispettivamente importazioni ed esportazioni. Un “deficit di mercato” dello 0,4%, dunque, che raggiunge i livelli minimi da dieci anni a questa parte, soprattutto grazie all’aumento dei prezzi di petrolio e di altre materie prime e alle complicate relazioni tra Pechino e Washington.
Le sempre più strette relazioni tra Cina e America Latina non si limitano però agli scambi commerciali e agli investimenti di Pechino. Un altro strumento fondamentale nello scacchiere geopolitico latinoamericano è rappresentato infatti dalla cooperazione militare. Quello che qui si intende analizzare è proprio il modo, sempre più determinato ed efficace, in cui la Cina negli ultimi decenni è riuscita ad inserirsi nel contesto strategico-militare sudamericano. Tale inserimento è stato gradualmente reso possibile mediante:
1) la vendita di armi e tecnologie militari e la collaborazione nello sviluppo bellico,
2) una serie di esercitazioni militari congiunte e di visite/scambi tra le autorità militari di entrambe le parti,
3) le operazioni di peacekeeping e di assistenza umanitaria.
Riguardo al primo punto è possibile affermare che la vendita di armi, oltre a garantire un rilevante profitto alle aziende cinesi, soprattutto statali, rappresenti anche uno strumento fondamentale per l’affermazione della propria influenza. Questa modalità di acquisizione del controllo di un settore rilevante come quello militare è ormai diventata una strategia essenziale nella politica estera cinese, adottata non solo per aumentare il proprio consenso in ambito regionale e globale, ma anche per ottenere maggiori adesioni alle proprie politiche nei forum internazionali. Non è un caso che i principali acquirenti di armi cinesi in America Latina siano proprio i paesi ALBA (Alianza bolivariana para América Latina y el Caribe), con dati statistici che hanno visto un incremento costante, soprattutto a partire dalla metà degli anni Duemila.
Il Venezuela è divenuto rapidamente il primo acquirente della regione in questo settore, specialmente in conseguenza della militarizzazione della vicina Colombia sotto la presidenza Uribe, del blocco della vendita di armi da parte di Washington e della crescente percezione di una probabile invasione da parte degli Stati Uniti. Inoltre, la militarizzazione del regime chavista è diventata uno degli elementi costitutivi del discorso populista venezuelano. Così, in poco più di dieci anni, Caracas ha ampliato il proprio arsenale con decine di sistemi di comunicazione e mezzi militari, non contribuendo certo alla distensione internazionale. Al potenziamento bellico venezuelano hanno contribuito anche i satelliti lanciati in collaborazione con Pechino i quali, nonostante gli scopi dichiaratamente civili, possono facilmente risultare una velata minaccia per i nemici del Venezuela. Nonostante la crisi economica abbia ridotto drasticamente le capacità di acquisto di Caracas, negli ultimi anni sono state effettuate ingenti ordinazioni di armi da Pechino, come accaduto nel 2012 – anno in cui è stata registrata la più ingente spesa mai sostenuta nella regione per acquisti militari dalla Cina, per un totale di 500 milioni di dollari – ma anche nel 2015 e nel 2016.
La situazione cubana, per importanza e posizione geopolitica, è ovviamente molto delicata e complessa. Pechino ha sostenuto L’Havana migliorandone numerosi sistemi di comunicazione e di difesa aerea, garantendo soprattutto la fornitura di aeroplani. Con la Bolivia si è instaurato, invece, un rapporto commerciale meno intenso riguardo alla vendita di armi e mezzi militari: la Cina le ha comunque fatto dono di diversi veicoli militari (nel 2016 e nel 2018) e offerto condizioni di pagamento molto vantaggiose, in considerazione della scarsa disponibilità economica di La Paz. In ogni caso, nonostante la retorica pacifista e antimilitarista portata avanti negli anni tramite campagne internazionali, discorsi pubblici e incontri con capi di governo e con il Papa, il governo Morales si è impegnato, nel corso degli anni, all’acquisto di numerosi mezzi aerei e terrestri, soprattutto a causa delle pressioni delle gerarchie militari, che lamentavano una pesante arretratezza rispetto ai vicini regionali.
Si configura diversamente, invece, il caso del Brasile. Per quanto la cooperazione militare sia aumentata sensibilmente a partire dal governo di Luiz Inácio Lula da Silva, in particolare dal 2004, il governo di Brasilia non ha operato ingenti acquisti di armamenti prodotti dalla Cina. Tale atteggiamento è stato determinato soprattutto dalla volontà di incoraggiare e difendere la produzione interna di armi.
In Argentina, infine, Cristina Kirchner, durante un viaggio presidenziale nel 2015, ha annunciato di voler acquistare mezzi militari dalla Cina per una spesa complessiva di circa un miliardo di dollari, oltre a portare avanti l’accordo – stretto a pochi mesi dalla fine della propria presidenza – con Xi Jinping riguardo la costruzione di una base satellitare nella provincia di Neuquén, in Patagonia. Tale progetto ha scatenato non poche polemiche e preoccupazioni, destando sospetti sulla possibilità che tale struttura venisse utilizzata anche come supporto per il lancio di satelliti militari. Il nuovo presidente Mauricio Macri, eletto alcuni mesi dopo, ha ritenuto comunque di bloccare il primo programma, mentre ha ratificato il secondo.
Va sottolineato come l’esportazione di armi cinesi verso la regione sia ancora molto limitata se comparata a quella di due storici top sellers quali Russia e, ovviamente, Stati Uniti. Rispetto ad entrambi, infatti, il valore delle vendite di armamenti da parte di Pechino è di circa la metà, mostrando però un aumento costante negli ultimi anni, con una crescita di quasi il 3% dal 2014. Un fattore da tenere in considerazione, oltre ai costi relativamente più bassi dei prodotti cinesi, è la diversificazione della produzione. Mentre infatti Washington e Mosca si sono occupate principalmente dell’esportazione di armi d’assalto, elicotteri, motori e mezzi aerei e di artiglieria, rispetto a tali esportazioni più “classiche” Pechino ha cercato di ritagliarsi un suo mercato di prodotti diversi e innovativi, accrescendo il proprio successo in questo settore. Oltre a mezzi militari aerei e terrestri, la Cina si è infatti specializzata nella produzione di missili e, soprattutto, di strumenti radar e droni. Sfruttando l’ormai assodato senso di insicurezza dei paesi latinoamericani, e in particolare dei paesi ALBA, Pechino ha saputo ampliare costantemente, negli ultimi anni in particolare, la propria finestra di mercato, aggirando il fatto che l’offerta di mezzi convenzionali fosse tradizionalmente coperta dai top sellers regionali.
L’abilità di Pechino è stata duplice: da un lato, saper sfruttare le “crepe” della concorrenza e concentrarsi su prodotti praticamente assenti dal mercato latinoamericano; dall’altro, riuscire a non irritare Washington, tenendo un profilo basso ma riuscendo al contempo a erodere una parte della sua fetta di mercato.
È interessante, infine, sottolineare come la Cina non abbia avuto, a partire dalla Rivoluzione Maoista, sempre la stessa “strategia di mercato” in merito alla vendita di armi. Durante l’epoca di Mao, infatti, gli unici acquirenti potevano essere paesi comunisti (in particolare Albania, Vietnam e Corea del Nord) e movimenti guerriglieri ideologicamente affini, soprattutto asiatici; negli ultimi quarant’anni, invece, il discorso è notevolmente cambiato. Il mercato delle armi è stato visto sempre più non solo come uno strumento di resistenza all’Occidente e al capitalismo, ma anche e soprattutto come un mezzo di enorme profitto e di fondamentale valore geopolitico.
Dagli anni ’80, lo sviluppo di questo settore è andato di pari passo con quello economico e industriale, passando da acquirenti ideologicamente selezionati a una rete sempre più globale e de-ideologizzata di scambi, portando il gigante asiatico a essere uno dei primi dieci esportatori di armi al mondo negli ultimi anni.
Se, anche oggi, può apparire evidente come Pechino abbia interesse geopolitico a favorire paesi come il Venezuela negli acquisti, è innegabile che il flusso di armi in uscita rappresenti un eccellente espediente per scalzare Washington dal mercato e aumentare il proprio lavoro di soft power regionale e mondiale, accompagnando il tutto con profitti miliardari.
Riguardo alle esercitazioni congiunte e allo scambio di visite tra autorità militari, tutti i paesi latinoamericani che hanno riconosciuto la legittimità di Pechino hanno instaurato relazioni inter-militari e visitato i più avanzati istituti di addestramento cinesi. Lo sviluppo di questo tipo di rapporti è diventato, infatti, un elemento fondamentale nella logica di influenza che Pechino sta portando avanti, che prevede il miglioramento delle relazioni con la regione e l’incremento degli scambi e delle esercitazioni sia sul proprio territorio che su quello latinoamericano.
Nonostante tali pratiche siano di gran lunga inferiori a quelle svolte con Washington o Mosca (parliamo almeno di dieci volte tanto), si registrano dati comunque interessanti che evidenziano chiaramente il ruolo chiave di alcuni paesi. È questo il caso di Cuba – terzo paese al mondo per visite ufficiali di esponenti militari cinesi nel periodo 2003-2016, dopo Russia e Stati Uniti – o del Venezuela.
Il caso di Cuba appare, inoltre, davvero peculiare, poiché l’isola caraibica si presenta come l’unico paese latinoamericano in cui risiede stabilmente personale militare cinese, senza contare le forze di pace inviate ad Haiti nel 2004, con basi di origine sovietica riadattate dall’intelligence di Pechino a centri radio e di trasmissione, secondo alcuni con finalità di spionaggio. Le attività cinesi sull’isola, infatti, hanno messo in allerta i servizi di Washington non solo per l’utilizzo di antenne, sistemi radar e di intercettazione, ma anche per strani episodi quali gli improvvisi malesseri di alcuni diplomatici statunitensi di stanza a Cuba, forse dovuti al contatto con microonde e “attacchi sonici” di armi acustiche.
Caracas, dal canto suo, attraverso una serie di incontri – come quello tra i rispettivi ministri della difesa nel novembre 2010 e quelli periodici del China-Venezuela High Level Joint Commission (CMAN) – ha trovato negli anni una sempre maggiore stabilità istituzionale nel dialogo con Pechino riguardo l’ambito militare e la sicurezza.
Anche il Brasile può vantare un netto avvicinamento militare a Pechino durante i governi guidati dal Partido dos Trabalhadores. La creazione, nell’ottobre del 2004, di una commissione congiunta per lo scambio e la cooperazione (che, tuttavia, si è riunita per la prima volta solo nel 2010) ha reso possibile incrementare le attività volte all’addestramento di personale ed allo scambio tecnologico. Oltre a ciò nel 2011, dopo la visita della premier Dilma Rousseff a Pechino, è stato ratificato il primo accordo difensivo tra la Cina ed un paese latinoamericano. Alle intese formali sono seguite operazioni finalizzate allo sviluppo congiunto di tecnologie volte a un maggior controllo ed alla protezione della Regione Amazzonica – area di grande interesse per entrambi i paesi in fatto di risorse e di geopolitica – nonché allo svolgimento di esercitazioni navali, come quella avvenuta nell’ottobre del 2013.
Sotto il profilo delle interazioni con la Cina, Bolivia ed Argentina rivestono ruoli minori rispetto ad altri paesi latinoamericani. L’Argentina ha più volte ospitato visite ufficiali di autorità militari cinesi, sviluppando certamente meno rapporti rispetto ad altri paesi della regione, ma compiendo discreti passi avanti durante le presidenze Kirchner. Dopo il passaggio da una strategic partnership (ratificata da Néstor Kirchner e Hu Jintao nel 2004) a una comprehensive strategic partnership (ratificata da Cristina Kirchner e Xi Jinping nel 2014), durante un incontro nel febbraio 2015 i leader dei due paesi hanno istituito uno specifico comitato congiunto denominato “Argentine – Chinese Joint Committee on Cooperation in the field of Defense, Technology, and Industry”, prevedendo, tra i vari punti, una intensificazione delle visite e degli incontri tra alti ufficiali e ministri, nonché la collaborazione per l’edificazione di alcuni ospedali da campo. Va sottolineato ancora una volta come l’insediamento di Mauricio Macri alla presidenza abbia parzialmente raffreddato, anche in questo senso, i rapporti con Pechino. Con la Bolivia invece, sono da registrare numerosi incontri bilaterali tra le autorità militari nel periodo compreso fra il 2010 e il 2013, così come l’addestramento mirato di tecnici boliviani all’utilizzo e alla conservazione del materiale bellico, specialmente elettronico e di comunicazione, da parte dei corrispettivi cinesi.
Da ultimo, non possiamo non ricordare le operazioni di pace e umanitarie svolte da Pechino nel continente latinoamericano, con particolare riferimento a tre eventi: la missione di pace congiunta MINUSTAH, per aiutare la transizione democratica haitiana, il viaggio della nave ospedaliera cinese Peace Ark e l’esercitazione umanitaria congiunta in Perù del novembre 2010. Nel primo caso, in particolare, si è registrato l’intervento di più di 100 elementi di polizia cinese svolto in collaborazione con numerosi paesi della regione. L’iniziativa ha sicuramente assunto un rilievo particolare ai fini del potenziamento delle relazioni istituzionali e militari, dimostrando le “buone intenzioni” e la disponibilità di Pechino a ricercare un ordine non solo nella regione, ma anche a livello internazionale. Perseguendo la politica del “mostrare il proprio lato migliore”, infatti, Pechino può continuare con successo l’inserimento nella regione senza scoprire troppo il suo volto più vorace, non mostrando i suoi reali interessi geopolitici ed economico-commerciali legati alla sua fame costante di materie prime, ma apparendo invece come un partner non invasivo e affidabile non solo per i paesi populisti, ma anche per quelli più vicini all’allineamento con Washington. Contesti come la missione MINUSTAH risultano, in questo caso, perfetti per acquistare visibilità nello scenario internazionale e migliorare la propria immagine agli occhi dei partner.
È dunque possibile affermare che la costruzione di una partnership militare rappresenti un elemento strategico cruciale nella logica della costruzione di un soft power cinese in America Latina e, in particolare, nei paesi populisti di quest’area. Instaurare e consolidare pazientemente rapporti di questo tipo costituisce senz’altro, nella prospettiva cinese, un fattore decisivo di influenza su questi paesi. D’altra parte, la graduale sistematizzazione di tali relazioni può assumere per i paesi latinoamericani molteplici valenze: maggiore affermazione e riconoscimento a livello globale, la percezione interna ed esterna di un più alto livello di sicurezza (visti soprattutto gli scarsi mezzi di cui dispongono alcuni di essi), un deterrente per il tradizionale amico-nemico: Washington.
In questo contesto si deve, tuttavia, prendere atto dell’estrema reticenza di Pechino ad assumere in modo esplicito e dichiarato una posizione politica di sostegno antistatunitense nella regione.
Foto Credits:Angel Nicanor Chu Zamudio. Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com