Il Nepal, terra di paesaggi straordinari e antichi templi, punto di incontro tra induismo e buddismo, culla di una civiltà ricca di storia e di cultura, paradiso degli escursionisti e degli hippie, visto da vicino non riesce a nascondere i suoi difetti. Con il 25,2% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà e un Indice di Sviluppo Umano (ISU) che lo colloca alla posizione numero 157 su 187 Paesi, il Nepal figura tra i Paesi al mondo con un basso livello di sviluppo.
Alla povertà si aggiunge la discriminazione sociale, culturale ed economica subita dalle sue donne, soprattutto se di religione induista. Le donne costituiscono più di metà della popolazione ma, in termini di Gender-related Development Index (GDI) e Gender Empowerment Measure (GEM), integrando la componente della discriminazione di genere, il Nepal rimane uno dei Paesi meno sviluppati dell’Asia: uno dei tre al mondo in cui l’aspettativa di vita delle donne è inferiore a quella degli uomini (53,5 anni per le donne e 55,9 per gli uomini).
La società nepalese è patriarcale, ossia si basa su una forma tradizionale di organizzazione secondo la quale gli uomini sono più importanti delle donne. Come in molte altre società patriarcali, questa superiorità maschile è così radicata nella cultura e nelle tradizioni che è persino rintracciabile all’interno delle leggi, che in alcuni casi garantiscono agli uomini più diritti delle donne.
Sebbene il Nepal abbia formalmente abbracciato convenzioni e trattati internazionali riguardanti la protezione dei diritti umani, la Costituzione prevede, ad esempio, che un bambino di madre nepalese non possa ottenere la cittadinanza se il padre è straniero e la donna ottiene la cittadinanza solo se il padre o il marito le danno l’autorizzazione. Tali disposizioni violano apertamente la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women, CEDAW) adottata nel 1979 dall’Assemblea Generale dell’ONU e ratificata dal Paese nel 1991.
Nonostante negli ultimi anni, soprattutto con l’adozione della nuova Costituzione (2015), si riscontrino segnali di cambiamento in direzione dell’uguaglianza di genere, gli usi e le consuetudini, figli di pratiche millenarie, non sono facili da cambiare, soprattutto nelle zone rurali dove l’accesso alla giustizia non sempre è garantito.
In Nepal le donne appartengono alla famiglia del marito poiché tradizionalmente, una volta sposate, dalla casa del padre si trasferiscono nella casa del coniuge. Qui sono obbligate a prendersi cura della nuova famiglia svolgendo i lavori di casa e contribuendo con il proprio lavoro al reddito familiare.
La donna si sposa spesso in giovane età e diventa madre nell’adolescenza, tra i 15 e i 19 anni. Una ricerca condotta dal Ministero della Salute e Popolazione (MoHP) nel 2015 ha reso noto che il 39% delle donne di età compresa tra i 15 e 19 anni ha dichiarato di essere in attesa del primo figlio o di essere già diventata madre.
In Nepal, come in India, vige di fatto il sistema delle caste: un sistema gerarchico di stratificazione sociale di carattere rigorosamente ereditario. Questo sistema millenario, nonostante sia stato ufficialmente abolito nel 1962, influenza in parte ancora oggi la suddivisione dei lavori, gli equilibri di potere, il passaggio dei beni (attraverso i matrimoni) e si basa su fondamenti religiosi molto antichi e profondamente radicati. Le caste sono la classificazione tradizionale indù, ma anche i buddisti sono stati in gran parte integrati, anche se in una maniera meno rigida, nello stesso sistema.
Il matrimonio avviene di solito con qualcuno della propria casta e gruppo etnico. Una volta sposata, una donna sola non può tornare dai suoi genitori: deve ubbidire a suo marito e restare al suo fianco, anche solo per questioni di tipo economico.
Naturalmente la struttura familiare patriarcale tradizionale incide sul potere decisionale delle donne, anche e soprattutto in materia di salute sessuale e riproduttiva, limitando fortemente la capacità delle stesse di decidere in maniera autonoma in merito alla pianificazione familiare, alla gravidanza e all’assistenza prenatale, con un inevitabile impatto sulla salute propria e dei figli. Sono segnalati casi in cui la donna “non è autorizzata” a recarsi autonomamente in una struttura medica ospedaliera.
Quando una ragazza si sposa, è previsto che abbia un bambino nel primo anno di matrimonio e le pressioni da parte della suocera e della famiglia del marito sono molto forti perché ciò avvenga. Soprattutto nelle zone rurali e nelle famiglie numerose, i maschi hanno la priorità sulle donne tanto che, se la famiglia è povera, le madri (o anche le bambine nei casi più estremi) hanno diritto a mangiare per ultime, prendendo l’ultimo avanzo rimasto del pasto.
Alcune interviste hanno rivelato che in alcune zone del Nepal, se partorisce un maschio, la madre può riposare per 45 giorni, se invece nasce una bambina deve lavorare dal giorno successivo. D’altronde, solo i figli maschi rappresentano una fonte di sicurezza economica per la vecchiaia e possono trasmettere il nome della famiglia, i suoi riti e le tradizioni. Una donna senza un marito, soprattutto nelle zone rurali e di religione induista, non ha alcun valore.
Ovviamente questa impostazione ha un effetto anche sull’istruzione che, per le bambine, è considerata meno importante. A questo proposito, e non a caso, il Piano nazionale di azione dell’UNESCO per il Nepal pone come obiettivo la questione dell’uguaglianza tra i sessi nell’accesso all’istruzione.
Le famiglie preservano le credenze tradizionali anche in medicina, e nelle zone più remote ci si affida molto più facilmente al guaritore piuttosto che al medico delle strutture sanitarie locali, spesso a rischio della salute di donne e bambini. In alcune regioni le donne devono partorire nella stalla, dove trascorrono con il neonato le sue prime due settimane di vita.
Nel Nepal rurale le donne mestruate sono considerate impure; la quantità e la serietà delle tradizioni legate a questa credenza dipendono principalmente dall’etnia, dalla casta e dalla religione. Le tradizioni legate alle mestruazioni possono variare dal non poter entrare in cucina, toccare cibo o acqua fino all’essere completamente segregate in una capanna separata, di solito una vecchia stalla, lontana dalla casa dove risiede il resto della famiglia. Questa pratica chiamata Chhaupadi, tra le altre cose, mette a rischio la salute e la sicurezza delle donne che, durante questo isolamento, sono esposte al freddo, alla violenza sessuale o agli attacchi di animali, come i serpenti. Il Chhaupadi ha origine nella credenza che se a una donna è concesso di rimanere in casa durante quei sette giorni, l’ira degli Dei porterà disgrazia, povertà e malattie a tutta la famiglia.
Il 9 agosto 2017 il Parlamento ha deciso di vietare la pratica del Chhaupadi: chiunque costringerà le donne ad allontanarsi dalle proprie abitazioni in un forzato isolamento durante il periodo mestruale potrà essere punito con una multa di 3.000 rupie (circa 29 dollari) o con tre mesi di prigione.
Al di là delle leggi, il vero ostacolo è culturale, visto che ci sono ancora moltissime donne che, seguendo la tradizione, accettano di essere considerate impure: “anche se mio marito mi permettesse di rimanere a casa, me ne starei rinchiusa nella mia stanza”, ha confessato in occasione di un’intervista Urmila, una signora quarantenne originaria del distretto di Sindhuli, nel sudest del Nepal.
C’è ancora molto da fare perché il rispetto dei diritti umani in Nepal diventi realtà. Tuttavia, i trattati internazionali e l’impegno delle organizzazioni umanitarie forniscono alle donne strumenti e voce per rivendicare anche a livello nazionale il riconoscimento della propria libertà e dignità.