Perché la nozione di migranti clandestini è dannosa?
Ogni parola che usiamo ha delle connotazioni, dei significati impliciti che possono avere effetti sgraditi. Termini come “clandestino” e “illegale” portano alla stigmatizzazione e implicano una collusione col crimine che a sua volta comporta una penalizzazione. Eppure il migrante che attraversa un confine non commette un crimine, non fa delle vittime. È per questo motivo, per restare sul piano dei diritti umani, che è azzardato condannare o addirittura imprigionare i migranti accusandoli di un atto criminale. La nozione di clandestino non dovrebbe essere usata per descrivere quei migranti che sono in effetti in una situazione irregolare, ma che può essere regolarizzata secondo i casi.
La migrazione irregolare non è una novità per la letteratura internazionale. Il fenomeno fu osservato dagli anni ‘60 in America Latina, in particolare tra i messicani che attraversavano i confini per entrare negli Stati Uniti. Abbiamo assistito allo stesso fenomeno negli anni ‘70 – all’epoca si usava il termine “boat people” assimilato a quello di “rifugiati” – tra gli asiatici, in particolare i vietnamiti che cercavano di entrare in Europa, e tra i cubani che negli anni ‘80 cercavano di guadagnare le coste degli Stati Uniti. Più vicino a noi, in Africa, centinaia di persone provenienti dall’Eritrea si trovano in Somalia nel tentativo di raggiungere lo Yemen dal Corno d’Africa orientale, per poi accedere ai paesi del Golfo. E resta d’attualità il caso dell’afflusso di profughi nel “Puntland”, nella stessa regione della Somalia nord-orientale. Ancora in Africa occidentale, sono regolarmente sventati tentativi di emigrazione verso le Isole Canarie. La migrazione irregolare è quindi un fenomeno che si verifica generalmente in funzione della prossimità geografica dei confini, tra paesi vicini. Nel Maghreb, dagli anni ‘90 il fenomeno è noto col termine di “harraga”.
Da un punto di vista pratico, possiamo considerare che tutte le forme di migrazione si basano su una serie di fasi collegate tra loro. Ciascuna migrazione segue un processo definito: partendo dal desiderio si passa alla decisione, alla preparazione, sino alla realizzazione del progetto migratorio. Questo processo è una costruzione sociale: va oltre l’atto individuale, è organizzato collettivamente, a volte politicamente, ma è soprattutto un fenomeno economico gestito attraverso reti transnazionali. Mette insieme una serie di agenti sociali – a partire dalla famiglia, passando per le reti di intermediazione, del mondo del lavoro e dei servizi pubblici – che contribuiscono, direttamente o indirettamente, alla realizzazione del progetto migratorio, in modo regolare o irregolare.
Se la migrazione irregolare ha una lunga storia, quella dell’harraga, che risale agli anni ‘90, è più recente. Questo termine è usato dagli osservatori del Maghreb per descrivere la procedura illegale di attraversamento del Mediterraneo con l’aiuto di contrabbandieri in gruppi di pateras, barche o gommoni, per raggiungere le coste della Spagna e dell’Italia, eliminando le tracce che possano far identificare i migranti. Questo fenomeno non ha inizialmente creato molti problemi, poiché Spagna ed Italia erano considerati “paesi di transito”, sia dalle autorità che dai migranti. I problemi sono sorti soprattutto dopo l’11 settembre 2001, anche per le migrazioni regolari.
La letteratura corrente si richiama ad una serie di nozioni per l’osservazione di questo fenomeno, spesso tradotte con termini quali “migrazione clandestina”, “sans papiers”, “senza documenti” e “migrazione illegale”. Pertanto si tende anche ad abbinare i termini “migranti clandestini” e “migranti illegali”. La confusione aumenta con l’inclusione delle nozioni di “traffico” e “tratta” di migranti, che si trovano in altri documenti ufficiali delle Nazioni Unite.
Sul piano scientifico, ogni nozione si basa su argomentazioni teoriche. Pur senza pretendere di prendere in esame l’intera letteratura sul fenomeno, proponiamo però una breve rassegna di alcuni analisti che suggeriscono l’adozione di un concetto di migrazione irregolare basato su fondamenti giuridici che discendono dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1990 sui diritti dei lavoratori migranti e dei loro familiari.
Nella Convenzione n. 143 sui lavoratori migranti, l’Organizzazione mondiale del lavoro (ILO) definisce la migrazione irregolare come:
“La situazione di un migrante che durante il suo viaggio, al suo arrivo o durante la sua permanenza (e la sua occupazione) in un paese si trovi in condizioni che contravvengono alle direttive e agli accordi internazionali in materia, multilaterali o bilaterali, o alla legislazione nazionale”. (Art.2)
Vengono perciò specificate tre dimensioni delle migrazioni irregolari. Le modalità di viaggio si caratterizzano sia per la mancata utilizzazione di un mezzo di trasporto regolare che per l’attraversamento non autorizzato di varchi di confine. All’arrivo nel paese ospitante, non si è in grado di fornire documenti di viaggio conformi alle normative vigenti. Durante la permanenza si riscontra invece l’assenza di una condizione (sociale, residenziale, economica) legalmente accettabile e/o legittima in termini di diritti umani.
A questo punto vanno citate altre due irregolarità, relative alla durata del soggiorno e alla situazione occupazionale dei lavoratori. Superare la durata del permesso di soggiorno porta di fatto a una situazione di irregolarità. L’accettazione di un lavoro in assenza delle necessarie autorizzazioni preventive (se richieste) porta a una condizione di irregolarità anche se il soggiorno è legale.
È sulla base di questa definizione che Tapinos (OCSE, 1999) adotta un modello analitico, paradossalmente intitolato “migrazione clandestina” (Clandestine migration), che permette di classificare le diverse forme di “migrazione illegale” secondo tre criteri d’illegalità: all’ingresso, durante il soggiorno (compresa la residenza) e, in seguito, secondo la situazione occupazionale. Si noti in proposito la confusione che persiste tra le nozioni di “clandestino” e “illegale”.
Tuttavia, esiste uno spiraglio che può legittimare la migrazione irregolare: è il caso dei richiedenti asilo, degli sfollati forzati, dei rifugiati e degli apolidi. Durante un conflitto politico o militare, o a seguito di un disastro naturale, le persone si possono spostare legittimamente in assenza dei requisiti normativi. L’irregolarità di queste forme di migrazione è coperta dalla Convenzione di Ginevra del 1955 sui rifugiati e gli apolidi in attesa di una decisione sulla loro condizione di migranti irregolari. Altri casi di legittimazione riguardano coloro che sono in attesa di regolarizzazione: questa fase di attesa li pone in una situazione irregolare, pur senza essere “illegale”.
Amanda Levinson (2005) ha condotto un’interessante rassegna della letteratura sulla migrazione irregolare con l’obiettivo di misurare questo fenomeno a posteriori, vale a dire una volta avvenute le regolarizzazioni. La stessa posizione è stata adottata da Demetrios Papamedetriou, uno specialista americano di “migrazione illegale”. Tutti questi autori ammettono le difficoltà di misurare la migrazione irregolare, per cui si può al massimo ricorrere a stime approssimative del fenomeno (“guestimates”).
In un recente studio dell’Institute for Public Policy Research (IPPR) sull’immigrazione irregolare, viene proposta una serie di distinguo riguardo questo concetto, adottato dalle Nazioni Unite e utilizzato in particolare dalle sue agenzie, dall’Organizzazione internazionale sulle migrazioni (IOM) e dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Si è notato che:
- La nozione di “migrazione illegale” comporta una connotazione penale di alcuni aspetti delle migrazioni internazionali che normalmente rientrano tra le responsabilità delle amministrazioni pubbliche. Questo concetto è ampiamente utilizzato dall’Unione europea;
- Le nozioni di “sans papier” o “senza documenti” sono abbastanza ambigue e introducono una certa confusione tra i termini “migrante” e “rifugiato”. Questa nozione è spesso ripresa dalle organizzazioni non governative (ONG) e dai media;
- La nozione di migrante “non autorizzato” è specificatamente utilizzata per le persone che potrebbero essere espulse. Questo termine è usato in particolare dai servizi di sicurezza.
Inoltre, il concetto di ingresso illegale è utilizzato nel registro di attuazione della lotta contro la tratta di esseri umani, incluso nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale del 15 novembre 2000. Il protocollo 3, aggiuntivo alla Convenzione, si riferisce alla lotta contro il traffico di migranti per via terrestre, marittima e aerea. Il protocollo 2 è anche interessante per quanto riguarda i principi di contrasto alla tratta di donne e bambini attraverso reti transnazionali.
Ricordiamo che la Convenzione 143 dell’ILO fa riferimento alla “migrazione illegale”. La Convenzione delle Nazioni Unite del 1990 rappresenta concettualmente un ulteriore passo avanti in questa direzione.
I migranti in situazione irregolare godono dei diritti umani universali dal 2004, quando è entrata in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite (1990) sui diritti dei migranti e delle loro famiglie. Questo documento fa anche riferimento ai “lavoratori frontalieri” e ai “lavoratori stagionali” che godono della protezione dei diritti da parte dei paesi firmatari. Le definizioni utilizzate sono le seguenti:
(a) Il termine “lavoratori frontalieri” indica i lavoratori migranti che mantengono la loro residenza abituale in uno stato vicino, nel quale ritornano normalmente ogni giorno o almeno una volta alla settimana;
(b) Per “lavoratori stagionali” si intendono i lavoratori migranti le cui attività, per loro natura, dipendono dalle condizioni stagionali e possono essere esercitate solo per una parte dell’anno.
La Convenzione ha riempito un vuoto a livello internazionale e ha quindi contribuito a consolidare le varie Convenzioni internazionali sul tema (UNESCO, 2005). Ricordiamo, tra le altre:
- La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948);
- La Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1965);
- Il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966);
- Il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966);
- La Convenzione sui diritti dell’infanzia (1989);
- Convenzione ILO n.143 sulle migrazioni in condizioni di abuso e la promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti (1975).
L’Unione europea ha sempre utilizzato le nozioni di “migrazione clandestina” e di “migrazione legale” nei suoi documenti. Negli ultimi anni si è però notata una presa di distanza da questa terminologia: ormai la Ue si impegna a fare a sua volta riferimento al concetto di “migrazione irregolare”, allineandosi così all’approccio suggerito dalle agenzie delle Nazioni Unite.
Nella sua Risoluzione n.1509 (2006), l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa adotta definitivamente il concetto di migrazione irregolare, allineandosi così alla posizione delle Nazioni Unite sui diritti dei migranti. L’articolo 7 della risoluzione è inappellabile:
“L’Assemblea preferisce il termine “migranti in situazione irregolare” ad altri come “migranti illegali” o “migranti privi di documenti”. Questa espressione è decisamente più neutrale e, contrariamente al termine “illegale”, non ha nulla di stigmatizzante. È anche la terminologia che un numero crescente di organizzazioni internazionali privilegia nella trattazione delle questioni legate alla migrazione”.
Vanno anche ricordate altre convenzioni europee: la Convenzione europea sui diritti umani (1950) (STE n. 5), la Carta sociale europea (1961) (STE n. 35), la Carta sociale rivista (1996) (STE n. 163) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani (2005) (STCE n. 197).
La Risoluzione 1509 (2006) del Consiglio d’Europa sui diritti umani dei migranti irregolari è molto chiara in proposito. Non solo i migranti hanno diritti civili e politici, ma hanno anche diritti economici e sociali. Ne discende una lista di diciotto diritti civili e politici, a partire dal diritto alla vita, passando per il rispetto della dignità della persona umana, fino alla non discriminazione razziale o etnica in materia di accettazione o rifiuto di ammissione. Per quanto riguarda i diritti economici e sociali, viene stilato un elenco di sette diritti minimi: partendo dal diritto all’abitazione per arrivare a quello ad un’equa retribuzione, alla protezione sociale, alla salute, all’istruzione dei bambini e alla protezione delle persone vulnerabili.
Questa risoluzione si sposa perfettamente con i principi della Convenzione delle Nazioni Unite del 1990, eppure più di sedici anni dopo l’Ue adotta risoluzioni che restano inapplicate da parte dei paesi membri, come segnalato dalla Raccomandazione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa in proposito (R 1755 del 2006). L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa è consapevole del fatto che “è improbabile che uno strumento giuridico specificamente dedicato ai diritti dei migranti irregolari ottenga il sostegno degli stati membri del Consiglio d’Europa, ma osserva che esistono altri modi di codificare e chiarire i diritti minimi dei migranti irregolari”. (R 1755, Art.2, 2006).
Da allora, la Ue ha adottato diverse direttive e strategie per limitare la migrazione irregolare, in particolare da paesi terzi. Le migrazioni originate dalle crisi che hanno fatto seguito alla primavera araba continuano ad alimentare il dibattito politico sul tema.
Questi pochi chiarimenti lessicali, tratti in particolare da convenzioni internazionali, risoluzioni ONU ed europee, ci hanno permesso di affrontare con maggior sistematicità la questione dell’immigrazione irregolare, in particolare nell’ambito dei diritti umani. Tuttavia, il contesto attuale è caratterizzato da varie iniziative nazionali, regionali e internazionali di cui bisognerà tener conto in futuro.