I rapporti tra religione e politica o, ancor più in generale, tra il ruolo della religione – e delle sue organizzazioni – e le dinamiche della modernizzazione della res publica sono al centro di riflessioni e trasformazioni da molto tempo e ovunque. Ciò è vero pensando al caso italiano ed europeo: il cosiddetto processo di secolarizzazione, inteso come emancipazione della vita politica, sociale e culturale dall’influenza diretta della religione, è stato un percorso lungo, graduale e non lineare, che ha portato ad una maggiore autonomia delle istituzioni politiche e ad una crescente separazione tra stato e religione. Un processo da non considerare come concluso né da liquidare in modo sbrigativo, soprattutto in contesti in cui l’identità e la sensibilità religiosa legata alla presenza e alla storia della Chiesa cattolica sono parte integrante delle vicende e della vita culturale dell’Italia. Il pensiero sociologico ha chiarito l’importanza antropologica del pensiero del sacro, ben distinto dalle superstizioni, la sua natura in qualche modo insopprimibile e, soprattutto, il contenuto etico e i principi di giustizia che le religioni incarnano e diffondono, nel loro cercare di capire la vita nei suoi aspetti essenziali. Ciò spiega anche il perché di contrapposizioni radicali tra chi giudica la religione come massima libertà o, all’opposto, schiavitù dell’umanità.
Il tema della giustizia e, quindi, quello del diritto, costituiscono un punto cruciale in cui collassa la relazione tra religione e cosa pubblica, laddove questa sia ispirata alla ricerca di valori generali e non privati. Le convinzioni religiose intervengono nell’indirizzare le scelte civili e influenzano spesso anche il corpo giuridico degli stati e le sue evoluzioni. Per inciso, non bisognerebbe dimenticare che originariamente il diritto romano fu prossimo alla religione e che continua a incentrarsi, con la sacralità dei propri riti, sulla distinzione tra ciò che è equo e ciò che è iniquo, tra il lecito e l’illecito, con l’obiettivo di stabilizzare le aspettative e aiutare a controllare l’incerto futuro.
L’islam, in particolare, è la religione su cui si orientano gli sguardi e le preoccupazioni prevalenti oggi, anzitutto nella constatazione che, pur essendo l’islam cosa ben diversa dal terrorismo islamico, sia proprio il fenomeno del fondamentalismo e del terrorismo islamico ad interpellare l’islam sulla sua compatibilità con libertà, democrazia e diritti delle persone, a cominciare da quelli delle donne.
In letteratura, c’è un’opera enciclopedica in sei volumi, frutto della collaborazione di oltre mille studiosi, pubblicata dalla Brill Academic Publishers tra il 2003 e il 2008 e curata da Suad Joseph, un’antropologa libanese che ha insegnato Studi di genere alla Columbia University: l’Encyclopaedia of Women and Islamic Cultures, considerata un riferimento fondamentale per tutti coloro che siano interessati a capire meglio la relazione tra mondo islamico e studi di genere. Non a caso, molte voci trattano il tema della legge di Dio dell’Islam (la sharia) – derivata dal Corano (in quanto libro sacro rivelato da Dio al profeta), dalla Sunna (fonte che riassume l’insieme di detti e tradizioni legati alla vita del profeta), dal consenso della comunità e dalla deduzione analogica – e quello della giurisprudenza islamica, cioè il corpus del diritto musulmano codificato seguendo la legge sacra (il fiqh).
Su questo tema, si sono espresse ripetutamente voci del femminismo islamico, secondo cui l’interpretazione della sharia che limita i diritti delle donne è ingiusta perché discriminante, in quanto frutto dell’elaborazione di giuristi maschi che nel passato hanno difeso e interpretato la parola di Dio in termini maschilisti e patriarcali, cioè secondo i dettami della propria epoca. Ciò significa che oggi occorre rileggere e reinterpretare le fonti della sharia in chiave moderna, attenta ai diritti delle donne, prima di tradurle in norme di legge.
Recentemente, l’argomento ha interessato l’Indonesia, la più popolosa nazione musulmana al mondo. Infatti, nel 2015, come punto di arrivo di una escalation cominciata molti anni prima, è stato introdotto il codice penale islamico nella provincia autonoma di Aceh, sull’estremità settentrionale dell’isola di Sumatra, che si distingue dal resto dell’Indonesia proprio per la scelta di un modello di islam che in Occidente si definirebbe non moderato. Una provincia devastata quindici anni fa dallo Tsunami che provocò 221 mila morti o dispersi e che, contemporaneamente, ha ottenuto uno status di particolare autonomia dal governo centrale, a seguito di oltre 30 anni di guerra per l’indipendenza.
Molti osservatori considerano l’applicazione di questo codice come fonte di discriminazione ai danni delle donne e di altre minoranze e, per ciò stesso, in contrasto con la legislazione nazionale (come, per esempio, la Legge N. 39/1999 sui diritti umani) e con la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW) adottata nel 1979, entrata in vigore nel 1981 e ratificata dal governo indonesiano nel 1984. Tuttavia, la Corte Suprema dell’Indonesia ha respinto la richiesta di revoca dell’applicazione del codice avanzata da diverse espressioni della società civile indonesiana. La sua applicazione è tuttora in vigore e nel febbraio del 2018, ultima in ordine di tempo, ha fatto discutere la decisione del governo della provincia di Aceh d’imporre l’uso del velo islamico sia alle assistenti di volo di fede musulmana che a quelle di qualsiasi compagnia aerea in arrivo e in transito nell’aeroporto della città di Aceh, pena una severa punizione da parte della polizia religiosa.
Su questo argomento si sofferma un capitolo, contenuto in una collettanea del 2018 sull’Indonesia contemporanea, di Dina Afrianty, capo del dipartimento di Relazioni Internazionali della facoltà di Scienze politiche e sociali della State Islamic University di Giacarta, che ha trascorso molti anni di studio in Australia.
Su internet circolano video e immagini che mostrano donne e uomini giudicati colpevoli di violazione della legge e fustigati in pubblico dall’esecutore (chiamato algojo) del corpo della polizia religiosa (Wilayatul Hisbah, o WH) con canne di rattan, davanti a folle di donne, uomini e bambini e sotto lo sguardo severo dei giudici e dei capi religiosi seduti al coperto sotto tende improvvisate. I reati di violazione della sharia comprendono il vestire in modo “indecente” (come indossare jeans, abiti aderenti o girare col capo scoperto per le donne), i comportamenti indecenti come bere alcool, leggere libri proibiti o praticare giochi d’azzardo (maisir), gli atteggiamenti promiscui e di prossimità tra uomini e donne (la khalwat, interpretata anche come semplice vicinanza a un tavolo di un bar) ed i rapporti sessuali con persona che non sia il coniuge, cioè la fornicazione (zina, punibile con cento frustate). Le pratiche omosessuali sono punite con pene che arrivano fino a cento frustate, cento mesi di carcere o una multa di mille grammi di oro.
Soltanto nel 2016 si sono contate 37 donne fustigate in pubblico, vera e propria forma di umiliazione e violenza, per il reato di khalwat.
Dina Afrianty racconta l’opinione di diverse attiviste e leader religiosi secondo cui il nuovo corso si sostanzia in una forma inedita di controllo sociale in base alla quale alcune persone si arrogano il privilegio di esercitare un monopolio dell’autorità morale che consente loro di definire ed interpretare – in modo opinabile – le fonti della sharia, affidando i compiti di controllo e sanzione alla WH, in cui militano molte donne.
Ciò si è tradotto in forti limitazioni alle libertà delle donne, compresa quella di movimento (è stato introdotto anche il divieto di montare su una moto per le donne), provocando anche tragedie intollerabili, come quella di una ragazza suicidatasi in previsione di un processo dopo essere stata accusata dalla WH di prostituzione per essere semplicemente uscita una sera con amici per andare ad ascoltare musica. Come scrisse nella sua lettera d’addio ai genitori, giudicava insopportabile la vergogna per il danno che avrebbe comportato all’onore della sua famiglia.
In un contesto tanto difficile, l’autrice sottolinea come le modalità di risposta critica all’applicazione della legge islamica provenienti dai diversi attori siano sempre state duplici, tanto nel caso delle attiviste, quanto in quello delle studiose e sapienti dottoresse in scienze religiose (ulama): da un lato criticando in modo puntuale gli errori di interpretazione e applicazione, dall’altro chiedendo – da credenti – una riforma della legge che rimanga all’interno del quadro di riferimento islamico, attualizzando i discorsi su genere, uguaglianza e diritti delle donne.
Si tratta di un punto fondamentale, riscontrabile anche in altri paesi: la scelta chiara in nome di una battaglia culturale che vuole rimanere nell’alveo della matrice islamica, senza volere in alcun modo mettere in discussione la religione, ma pretendendo di fare i conti con la modernità. Contemporaneamente, si registra anche come il forte conservatorismo e il maschilismo prevalente nella società rendano la battaglia culturale molto difficile, in virtù del fatto che i ruoli di vertice nelle gerarchie del mondo della cultura sono appannaggio degli uomini, molto restii a “concedere” spazio alle nuove istanze.
Se il fiqh è da intendere come un diritto soggetto a cambiamenti della contemporaneità, un “Canone” mutevole, allora quella in corso è una battaglia fondamentale interna ad una cultura religiosa, in cui le donne vogliono trovare liberazione, verità e giustizia nella propria fede e non al di fuori di essa. Per questa stessa ragione, scrive Dina Afrianty, le attiviste femministe e le studiose musulmane guardano talvolta con scetticismo ai richiami alle norme e alle convenzioni internazionali, come la CEDAW, laddove possano essere, anche pretestuosamente, assimilabili a forme di occidentalizzazione, finendo col creare un “effetto boomerang” per il riconoscimento dei diritti delle donne.
Le prospettive al momento, in ogni caso, non sono chiare. A marzo del 2018 il governo della provincia di Aceh stava valutando se introdurre anche la decapitazione tra le pene previste nel codice penale per punire certi crimini.