L’attuale Mozambico, striscia di terra con 2.300 km. di costa affacciata sull’Oceano Indiano, riveste un’importanza particolare per spiegare i processi migratori connessi a motivi di lavoro in Africa australe e, più in generale, i flussi intra-africani attratti dal polo del Sudafrica. Fenomeni migratori non nuovi, ma che oggi assumono caratteristiche diverse dal passato.
Sono in questo caso importanti sia la collocazione geografica del paese, che presenta confini porosi con ben sei paesi (Malawi, Sudafrica, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe), sia le radici storiche dei movimenti migratori: esploratori, commercianti, turisti e migranti provenienti da Africa, Asia ed Europa lo attraversarono nei secoli passati, a cominciare dai cacciatori d’avorio europei che dal Kenya si spostavano sino all’attuale Sudafrica.
Gli autori ricordano che prima del colonialismo l’emigrazione transfrontaliera dall’attuale Mozambico al Sudafrica era un fenomeno normale, legato alla caccia o all’apertura di nuove rotte commerciali. E se oggi sono diffusi i casi di abbandono della scuola da parte di giovani che lasciano la propria comunità per andare in Sudafrica, allo scopo di aumentare il reddito familiare con l’invio di rimesse (soprattutto in contanti, ma anche in forma di beni di consumo), non bisogna dimenticare che parlare di emigrazioni internazionali ha senso soltanto con riferimento ai confini delimitati durante il colonialismo. Non sarebbe invece corretto farlo da una prospettiva storica e culturale, come dimostra la diffusione della stessa lingua, a riprova che i confini imposti dal colonialismo, oggi esistenti ma privi di significato nel passato, altro non furono che un’invenzione occidentale.
Le coste mozambicane vennero raggiunte da Vasco de Gama e dal suo equipaggio nel 1498, in occasione di spedizioni volte al commercio delle spezie indiane. Ebbe così inizio la fase dell’occupazione da parte dei portoghesi, che cercarono di riproporre il modello degli arabi, che controllavano il commercio di oro, avorio e metalli preziosi. Per tre secoli gli occupanti esercitarono il potere alimentando rivalità tra i signori delle città stato locali, fatta eccezione per le zone dell’interno. Fu solo in occasione della Conferenza di Berlino nel 1884 che il Portogallo decise di intraprendere le guerre di conquista verso l’interno per sottomettere i signori locali fino ad allora indipendenti, principalmente allo scopo di non sfigurare di fronte alle maggiori potenze coloniali europee presenti in Africa.
Divenuti proprietari della terra, i portoghesi scoprirono ben presto la resistenza culturale delle popolazioni locali a lavorare a lungo per denaro, secondo una logica di accumulazione e di etica europea del lavoro: non appena guadagnato un po’ di “lobola” (il denaro da corrispondere alla famiglia della donna da sposare) gli africani non ne volevano sapere di continuare a lavorare. Questa diversa concezione del lavoro portò i portoghesi e gli europei in generale a considerare gli africani dei lavativi, indolenti, pigri e alcolizzati. Per costringere gli uomini a lavorare permanentemente per denaro, soprattutto a seguito dello sviluppo della zona mineraria del vicino Transvaal in Sudafrica, i portoghesi decisero di imporre tasse su ogni individuo maggiorenne (la cosiddetta “tassa sulle capanne o abitazioni”). Con il XX secolo, il lavoro forzato (o shibalo) fu istituzionalizzato e comprendeva anche l’obbligo di destinare parte della produzione della terra a coltivazioni per la vendita come cotone, sisal o riso, acquistati dai portoghesi a bassissimo prezzo. Disponendo di maggiori risorse finanziarie, gli inglesi acquistavano invece a prezzi più alti le derrate prodotte dai locali, il che alimentò una fuga dai territori occupati dai portoghesi verso quelli controllati dagli inglesi (dall’attuale Mozambico al Sudafrica), le cui condizioni di vita erano considerate più tollerabili. Fu così che l’attuale Mozambico divenne terra di origine di forza lavoro a basso costo che emigrava verso le industrie in Sudafrica, ancora oggi di gran lunga il principale polo d’attrazione delle migrazioni intra-africane, con una popolazione immigrata di almeno 1,2 milioni di persone. Le regole imposte dai colonizzatori ad un’economia monetaria e non più di baratto causarono un’emorragia di forza lavoro – in quindici anni, ai primi del Novecento, la popolazione censita nella provincia meridionale di Inhambane scese da 415 mila a 198 mila abitanti – che il Portogallo cercò di fermare ricorrendo sempre più all’uso della violenza.
Con l’indipendenza, faticosamente conquistata (nel 1975, ndr) al costo di una sanguinosa e lunga guerra, che vide il Portogallo sostituito dalle due nuove potenze mondiali (Stati Uniti e Unione Sovietica) a contendersi alleanze locali e supremazia, il Mozambico si trasformò in un paese che interessava investitori esteri attratti dalle sue miniere. Divenne altresì un’area d’interesse strategico per gli abitanti dei paesi vicini senza sbocco sul mare, interessati a raggiungere le reti internazionali che toccano l’Oceano Indiano canalizzate da tre corridoi su terraferma: quello che a sud, tramite Maputo, collegava i migranti al polo industriale e affaristico sudafricano di Gauteng; quello che al centro, tramite il porto di Beira, li collegava a Zambia e Zimbabwe e, infine, quello che a nord, tramite Nacala (Provincia di Nampula), li collegava a Zambia e Malawi.
Si consolidava così la trasformazione da riserva di forza lavoro sotto il giogo coloniale portoghese a corridoio migratorio, già sviluppatosi nell’ultima fase coloniale come rotta dalla colonia portoghese del Mozambico a quella inglese del Sudafrica. Subito dopo l’indipendenza, i flussi migratori calarono: laddove avevano rappresentato simbolicamente l’oppressione coloniale, per il governo post-segregazionista sudafricano la priorità politica sarebbe presto diventata quella di assicurare il lavoro ai sudafricani, e non quella di garantire l’afflusso di lavoratori a basso costo dai paesi vicini come il Mozambico.
Le miniere di diamanti e oro soprattutto sudafricane (nel Transvaal, Free State e Kimberly) ma anche in Namibia, quelle di carbone e oro in Zimbabwe, e quelle di rame e carbone in Zambia hanno continuato ad alimentare, sebbene molto meno che in passato, migrazioni di lavoratori maschi dal Mozambico o da altri paesi più poveri, come Lesotho e Malawi. Anche le piantagioni e le grandi fattorie di estese dimensioni in Sudafrica, Zimbabwe e Swaziland avevano a lungo attratto migranti dai paesi più poveri come il Mozambico. Ma nel nuovo contesto postcoloniale le modalità erano destinate a cambiare. Nel caso del Sudafrica, il modo più pratico di entrare nel paese sarebbe diventato quello dei visti temporanei di breve periodo (ufficialmente, cioè, non associati a motivi di lavoro), definendo un nuovo modello di migrazioni circolari, ripetute in uno stesso anno lungo rotte trasformate in veri e propri corridoi di frequenti passaggi da parte delle stesse persone.
È vero che, in base ai dati del secondo censimento della popolazione del 1997, circa 3000 sudafricani risultavano presenti nella provincia di Niassa, nel nord del Mozambico. È anche vero che, più recentemente, il Mozambico è diventata terra di destinazione di migranti dello Zimbabwe in fuga da persecuzioni politiche, povertà e gravi siccità. Ma il grosso dei movimenti migratori continua ad essere costituito da lavoratori in uscita dal Mozambico attraverso i corridoi temporanei, diretti verso il Sudafrica alla ricerca di lavoro, retribuzioni più alte, stabilità politica e migliori prezzi dei beni di consumo.
Le miniere sudafricane avevano incoraggiato una migrazione regolare maschile, ma confini pattugliati in modo blando hanno continuato negli anni recenti ad offrire facili opportunità per migrazioni non registrate, cioè irregolari, per il lavoro in agricoltura e per il lavoro domestico, oltre che nell’industria e nei servizi.
Un fatto inedito e che ha determinato l’aumento del numero di migranti è il fenomeno della cosiddetta “femminilizzazione” delle migrazioni, il fatto cioè che ad emigrare oggi siano anche le donne. In pratica, le regole coloniali e i contratti di lavoro escludevano le donne sia dalle migrazioni regolari dal Mozambico al Sudafrica, sia dalle migrazioni interne alle città mozambicane, nel segno di una cultura e di tradizioni fortemente maschiliste che l’amministrazione coloniale riproduceva. Tuttavia, proprio il venir meno della migrazione regolare di lungo periodo per motivi di lavoro, appannaggio dei soli uomini, a vantaggio delle migrazioni regolari di breve periodo, non esclusivamente maschile, ha recentemente offerto alle donne nuove opportunità di emigrare. La chiusura di miniere, il calo degli stipendi e la disoccupazione hanno imposto alle donne la ricerca di lavoro retribuito, concretizzatasi spesso in forme di economia informale, come quella praticata da venditori e commercianti ambulanti che acquistano beni in Sudafrica e Swaziland per poi tornare in Mozambico a rivenderli. Il piccolo commercio ambulante transfrontaliero in mano alle donne è un esempio concreto di questo nuovo fenomeno.
Un altro fenomeno diffuso in Mozambico, ma anche in Lesotho e Malawi – come documenta uno studio del 2005 dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni citato dagli autori – è la tratta di donne e bambini a scopo sessuale, gestita da criminali del traffico internazionale che collega il Sudafrica ai paesi dell’Asia orientale.
Un altro studio del 2014 citato dagli autori attribuisce anche alla corruzione dei funzionari dell’ufficio immigrazione sudafricano la diffusione del fenomeno delle migrazioni irregolari. In base alle statistiche relative all’indicatore 2016 sulla corruzione percepita predisposto dall’organizzazione non governativa Transparency International, il Mozambico risulta essere il paese più corrotto tra i 14 dell’Africa australe, dopo Angola, Repubblica Democratica del Congo e Zimbabwe. E non si tratta di una posizione in via di miglioramento negli ultimi anni.
Il Mozambico è anche terra di transito di migranti africani diretti verso il Sudafrica, come dimostra il dato di oltre 10 mila persone respinte nel solo biennio 2011-2012 dalle autorità mozambicane a causa della mancanza dei requisiti per entrare e restare in Mozambico, in provenienza da altri paesi dell’Africa (dalla regione dei Grandi laghi, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Zimbabwe, Nigeria, Guinea Conakry e Mali). Molti migranti africani ottengono documenti falsi da agenti corrotti dell’ufficio immigrazione, in ragione del fatto che il regime di esenzione dai visti tra mozambicani e sudafricani rende molto ricercato un documento d’identità mozambicano. Il governo sudafricano, che ha varato leggi ferree sull’immigrazione, si vede così costretto a chiudere un occhio su questo corridoio di migrazioni irregolari, dimostrandosi in fondo compiacenti visto che si assicura così l’arrivo di manovalanza a basso costo.