Mondo Editoriali

Il contributo decisivo (ma negato) delle donne alla pace

Attanasio Luca

Immaginate per un momento la composizione di tavoli negoziali riguardanti i tantissimi conflitti che si consumano nel mondo, convocati per promuovere colloqui di pacificazione, per favorire un cessate il fuoco, per trovare accordi di protezione dei civili o di passaggio di aiuti umanitari, e soffermatevi sul genere di coloro che si siedono attorno.  Provate a digitare le parole ‘peace talks’ seguite dal nome dei Paesi che vivono a vari livelli uno stato di aperta conflittualità, Israele-Gaza, Sudan, Ucraina-Russia, Yemen, Myanmar, solo per citarne alcuni, e osservate le immagini che compaiono. Nella stragrande maggioranza dei casi, si vedono solo ed esclusivamente uomini e se ci sono donne, appaiono spessissimo sullo sfondo o dietro a stuoli di rappresentanti di sesso maschile, a sottolineare anche fisicamente i loro ruoli molto spesso marginali. La pace, così come la guerra, è affare di maschi, le donne, per un tacito assunto, sono estromesse a prescindere.

La domanda che sorge spontanea dopo questa prima semplice constatazione è: perché? Cosa c’è dietro alla scelta di escludere sistematicamente presenze femminili attorno ai tavoli di delicate negoziazioni in cui le capacità mediative sono fondamentali e di perpetrare il format ‘maschile’ delle trattative di pace? È un modello di successo? La risposta è talmente scontata da far risultare retorica la domanda. Sotto gli occhi di tutti ci sono decenni di fallimenti, contrattazioni che sono addirittura riuscite a peggiorare la situazione, tavoli convocati con scadenze regolari che continuano a concludersi con un nulla di fatto.

A suggellare l’assurdità di una totale mancanza di ripensamento delle modalità fallimentari di gestione dei colloqui di pace e delle loro relative composizioni, arrivano una serie di studi illuminanti sul ruolo delle donne nei contesti negoziali. Secondo tali ricerche, nelle trattative per ricomporre conflitti, per avvicinare le parti in guerra almeno a una iniziale convergenza, per mediare e raggiungere accordi di protezione dei civili o nelle operazioni di peacekeeping, la loro presenza risulta decisiva in senso positivo secondo ogni parametro. Molte indagini sul campo dimostrano senza il minimo dubbio che la partecipazione delle donne nelle iniziative mirate alla risoluzione dei conflitti, alla mitigazione, così come alla prevenzione, può migliorare i risultati prima, durante e dopo situazioni di tensione o vere e proprie ostilità belliche. Uno studio del Broadening Participation Process del Geneva Graduate Institute che ha analizzato il ruolo dei gruppi di donne e di altri gruppi in 40 processi di pace e di transizione, ad esempio, ha documentato che, quando rappresentanze femminili sono state in grado di influenzare efficacemente il processo, è stato quasi sempre raggiunto un accordo di pace e le probabilità di una sua successiva attuazione sono aumentate sensibilmente. Secondo l’analisi statistica descritta in Reimagining Peacemaking: Women’s Roles in Peace Processes, un accordo ha il 20% in più di probabilità di durare almeno 2 anni e il 35% in più di durare almeno 15 anni se le donne partecipano alla sua elaborazione, alla sua stesura e alla sua implementazione. Come esposto in Women’s Participation in Peace Negotiations and the Durability of Peace, degli 882 accordi raggiunti in 42 conflitti armati attivi nel periodo compreso tra il 1989 e il 2011, le intese che includevano donne tra i firmatari, si sono dimostrate decisamente più durature, hanno avuto un tasso nettamente maggiore di implementazione e contenuto molte più misure atte a promuovere riforme con un’incidenza di attivazione effettiva più alto. La ricerca Towards inclusive peace: Analysing gender-sensitive peace agreements 2000–2016, inoltre, condotta su 98 trattati di pace raggiunti in 55 paesi tra il 2000 e il 2016, evidenzia che gli accordi ottenuti grazie alla partecipazione di donne nelle prime fasi hanno una maggiore possibilità di contenere tra i punti di implementazione misure dedicate al rispetto di genere e alla costruzione di una società più giusta nel post-conflitto. E tutto questo se restiamo strettamente nel campo della partecipazione femminile ai processi di peace-building o peace-keeping. Se invece allarghiamo lo spettro al contributo alla pacificazione e alla distensione delle società che le donne possono offrire se ci si affidasse maggiormente a loro piuttosto che a uomini, troviamo ulteriori evidenze. Come quelle secondo cui la presenza di donne in posizioni di comando può ridurre notevolmente la probabilità che emergano conflitti violenti o quelle che dimostrano che i Paesi con una maggiore uguaglianza di genere hanno maggiori probabilità di risolvere i conflitti senza violenza e sono meno propensi a ricorrere alla forza militare per ricomporre le controversie internazionali.

L’elenco delle certezze empiriche capaci di convincere anche i più scettici è addirittura più lungo. Si potrebbe aggiungere, ad esempio, uno studio riportato dal Council on Foreign Relations secondo cui la partecipazione di organizzazioni femminili e gruppi della società civile, riduce del 64% le probabilità di fallimento di un accordo di pace.

Eppure, come evidenziano i dati globali raccolti da UN-Women attraverso il Women in Peace Processes Monitor, l’impiego di donne in processi di pacificazione è ancora estremamente basso. Secondo le statistiche emerse dall’analisi di oltre 50 processi svoltisi nel 2023, le donne costituiscono in media solo il 9,6 per cento dei negoziatori, il 13,7% dei mediatori e il 26,6% dei firmatari di accordi di pace e di cessate il fuoco. Ma quest’ultima percentuale scende all’1,5% se si escludono gli accordi in Colombia, il paese che ha fatto registrare la più alta partecipazione femminile diretta a negoziati di pace, con il 50% di donne nella delegazione del governo e il 25% della delegazione dell’Ejército de Liberación Nacional (ELN), non a caso uno dei pochi processi che, seppur tra criticità, regge.

Nonostante le evidenze che la scienza e le esperienze sul campo forniscono, malgrado i numerosi sforzi compiuti dalle Nazioni Unite che dal 2000, anno di pubblicazione della risoluzione 1325 ‘Donne, pace e sicurezza’, insistono sulla necessità di considerazione adeguata delle donne sia come principali vittime dei conflitti che come protagoniste dei processi per ricomporli, la sottorappresentazione del mondo femminile rimane la norma. In alcuni processi negoziali come Libia o Yemen, notoriamente tra i più fallimentari, le delegazioni delle parti negoziali non includevano neanche una donna. Nel Sudan in cui si consuma dallo scoppio della guerra nell’aprile 2023 la “peggiore crisi umanitaria del momento” secondo l’Onu e si assiste a un’escalation che sembra senza fine tra violenze e crimini di spaventosa efferatezza, le donne sono regolarmente rimaste escluse da tutte le iniziative diplomatiche, e anche prima della guerra a Gaza, così come nei colloqui per il cessate il fuoco successivi all’attacco del 7 ottobre 2023, le donne sono state sistematicamente estromesse dai negoziati politici tra israeliani e palestinesi. Nella composizione degli eserciti di peacekeeper, le forze internazionale di interposizione o protezione dispiegate nei conflitti, inoltre, le percentuali di donne, anche se in aumento, restano risibili. Purtroppo, inoltre, come riporta lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), anche in ambito Onu o organismi transnazionali, si assiste a un decremento nella leadership femminile nelle operazioni di pace multilaterali. Il rapporto 2024 rileva che la partecipazione delle donne ai ruoli di leadership è diminuita in tutte le operazioni delle forze armate delle Nazioni Unite, della polizia delle Nazioni Unite, del personale civile delle Nazioni Unite e delle operazioni sul campo dell’OSCE.

Parafrasando un noto testo di Gabriel García Márquez, potremmo affermare di stare assistendo a una cronaca sistematica di fallimenti annunciati. Non ci sarebbe bisogno di analisi approfondite né di una cronologia degli eventi, infatti, per capire che colloqui o operazioni di pace gestiti da uomini hanno scarse possibilità di successo. Basterebbe riflettere su due aspetti fondamentali. Il primo è che le guerre sono innescate da uomini e spesso sono esattamente quegli stessi uomini che le hanno iniziate, con i loro motivi di odio e i loro interessi, a venir chiamati a dirimerle o altri uomini a essere chiamati a gestirne le transizioni. Il secondo è che le donne, le ragazze, i bambini sono le prime vittime dei conflitti, quelli che pagano il prezzo più alto, e sarebbero le loro voci le prime a dover essere ascoltate se si vuole realmente risolvere i motivi che sono alla base e che contribuiscono alla perpetuazione del conflitto.

“Penso che una peacekeeper donna – spiega al sito PassBlue la sierraleonese Mira Koroma, funzionaria di polizia delle Nazioni Unite e responsabile della rete di polizia femminile, che ha preso parte a missioni di pace come Haiti, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana – possa offrire un contributo unico alle comunità di civili di cui si occupa perché la maggior parte di loro ha sofferto per mano di uomini. Nei conflitti, gli uomini violentano, uccidono, commettono crimini contro l’umanità. Quindi, se i peace-keeper continuano a essere solo uomini, la massa della popolazione, le donne e i bambini, avranno paura di interagire con loro. Con donne peacekeeper è normale per molti sentirsi a proprio agio. Capiamo come comunicare tra di noi in quanto donne. Posso parlare con un’altra donna perché so bene cosa sta passando. È importante insistere su questo aspetto: c’è bisogno di un aumento delle donne nei processi di costruzione e mantenimento della pace”.

Lola Ibrahim, presidente della Wave Foundation, un gruppo no-profit nigeriano che si occupa di porre fine alla violenza di genere nel suo Paese, spiega chiaramente come le donne sono doppiamente vittime nei conflitti. “In Nigeria ci sono situazioni di conflitto da ormai tanti anni. E sono soprattutto le donne, le ragazze e i bambini a essere colpiti, sono loro a sentirne maggiormente l’impatto. E il più delle volte non sono nemmeno coinvolti nei processi di pace e sicurezza. Gli ufficiali di sicurezza, i poliziotti, i capi dell’esercito, della marina, dell’aeronautica, tutto ciò che ha a che fare con la pace e la sicurezza, che ha a che fare con i processi decisionali, sono sempre gli uomini a farlo. Quindi come possono sapere cosa serve davvero se non sono sul campo? Gli uomini prendono le decisioni, ma sono le donne a sentirne maggiormente l’impatto. Per questo è molto importante che le donne facciano parte del processo decisionale quando si tratta di pace e sicurezza”.

Il cambio di paradigma a questo punto, con un mondo sempre più in fiamme e polarizzazioni estreme, diventa urgente e indispensabile. Non si tratta di una semplice questione di rispetto di genere o di quote rosa. Per dirla con le parole di Amina Mohammed, vicesegretario generale delle Nazioni Unite, rivolte al Consiglio di sicurezza in occasione del dibattito su donne, pace e sicurezza, lo scorso 24 ottobre: “Non ci facciamo illusioni sulle sfide poste dall’attuale panorama geopolitico e sulla complessità del raggiungimento di risultati diplomatici. Finché le disuguaglianze di potere tra i sessi, le strutture sociali patriarcali, i pregiudizi sistematici, la violenza e la discriminazione continueranno a frenare metà delle nostre società, la pace rimarrà inafferrabile”.

 

Foto Credits: UN Women Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic attraverso Flickr