Messico

La salute come chiave di lettura delle migrazioni

Susanna Corona

Si parla spesso di migrazione sui giornali. Un tema di primo piano nell’agenda politica e facilmente manipolabile: per la sua complessità, paradossalmente, si presta alle frasi fatte e alle ‘soluzioni’ facili. Un elemento di questa complessità, di cui invece si parla poco nei media, è il forte impatto dell’esperienza migratoria sulla salute. Il periodo di lavoro in un centro per migranti in transito a Città del Messico mi permette di fare qualche esempio a riguardo.  Da dicembre 2023 ad aprile 2024 ho infatti lavorato nell’ambulatorio del centro, offrendo cure mediche primarie e svolgendo sessioni ispirate all’arte-terapia con donne ed adolescenti migranti, esplorando diversi temi di salute mentale attraverso un’attività artistica proposta.

Il contesto geografico in cui mi sono calata era quello della capitale del paese che tuttora ospita il principale corridoio migratorio al mondo. Il Messico è da sempre teatro sia della storica migrazione di propri cittadini verso gli Stati Uniti, sia di quella più recente di persone di oltre 70 nazionalità diverse. Si parla soprattutto di migranti in transito da Venezuela, Haiti, Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua: una migrazione per lo più forzata da motivi economici, climatici e di violenza, di famiglie intere, il cui numero ha da diversi anni superato quello dei migranti messicani. A questo si aggiunge il contesto politico statunitense, apparentemente e inesorabilmente orientato verso una criminalizzazione sempre più marcata. Una cosiddetta emergenza alle frontiere degli Stati Uniti che di fatto trasforma il Messico in paese di destinazione, o meglio, di limbo a tempo indeterminato.

Al di là dell’influenza del contesto politico, la migrazione altera l’intorno personale e sociale ed inevitabilmente ha un forte impatto sulla salute fisica e mentale. Pensiamo all’instabilità abitativa ed alimentare del transito migratorio, l’investimento di grandi quantità di risorse economiche ed emotive per chi deve lasciare il proprio paese, le condizioni sociali di esclusione e le difficoltà di adattamento culturale. La migrazione forzata, irregolare, aggiunge a queste difficoltà – che si potrebbero definire normali per chiunque voglia o debba cambiare paese di residenza – delle condizioni assolutamente inaccettabili, purtroppo normalizzate dai migranti stessi per poterle affrontare.

Le persone che ho incontrato mi hanno raccontato dei corpi senza vita che era comune incontrare nella giungla del Darién, tragitto obbligato tra Colombia e Panama, oltre alle violenze di natura sessuale che hanno subito o a cui hanno assistito. Estorsioni, rapine e rapimenti sono all’ordine del giorno, soprattutto in Messico e anche da parte di agenti federali. Ricordo un uomo scalzo, dall’aria persa, che era stato picchiato e derubato di tutto, comprese le scarpe. La politica dei rimpatri in massa porta le persone a camminare lungo percorsi totalmente selvaggi, a dormire al freddo oppure a morire di sete nel deserto. La difficoltà di accedere a canali ‘sicuri, ordinati e regolari’ per emigrare costringe a salire di nascosto su treni merci diretti al nord. Le condizioni precarie con cui le persone si collocano tra i vagoni sono causa di incidenti frequenti come è successo a Manuel, di 18 anni, che ha perso una gamba. Alcuni migranti si preparano alla violenza che quasi sicuramente subiranno, come Violeta che si è vestita da uomo per evitare violenze sessuali. Altri mi dicono che questa violenza è comunque minore rispetto a quella che si sono lasciati alle spalle nei loro paesi d’origine, oppure che hanno famiglia da raggiungere, o il ‘sogno’ di lavorare per poter permettersi di costruire una casa in Guatemala e poter tornare.

Nella mia breve pratica clinica al centro di Città del Messico, ho visto situazioni specifiche della migrazione forzata: piedi con grosse ferite per aver camminato a lungo senza le scarpe adatte, un uomo con una ferita da decubito sul naso per aver portato per una decina di giorni una benda durante un rapimento (di cui poi è stato pagato il riscatto), una ragazza con un pugno ferito dopo aver colpito la parete per la disperazione causata dalle lunghe attese per l’appuntamento per chiedere asilo negli Stati Uniti (sistema ora annullato da Trump). Situazioni legate alle condizioni che ho descritto, create dalla politica sotto forma di pericoli e lunghe attese programmate, volontariamente indotte per ‘disilludere’ le persone alla prospettiva di emigrare negli Stati Uniti. Non c’è nulla di inaspettato, nemmeno il coinvolgimento crescente del crimine organizzato. Il centro in cui ero ha chiuso poco dopo la mia partenza a causa delle minacce ricevute da organizzazioni criminali, probabilmente legate al fatto che la protezione e visibilità del centro risultavano scomode per i loro affari. L’assenza di regole migratorie genera un’enorme area di profitto per questi gruppi: i flussi non si fermeranno e le persone in condizioni di crescente vulnerabilità sociale sono più facili da arruolare o rapire.

Infine, un punto importante è che nonostante gli orrori di queste esperienze, l’ingiustizia e l’inevitabile disagio fisico e mentale, i miei rapporti con le persone incontrate nel centro spesso erano occasione di chiacchierate tranquille, risate e conversazioni orientate alla forza, ai sogni, ai piani futuri e ai ricordi personali. Per questo non bisogna ridurre tutto ad una ferita su un pugno, o all’allarmismo politico ormai esausto di un’‘ondata’ migratoria. In una sessione ispirata all’arte-terapia, ho fatto scegliere alle persone una parola importante per loro da rappresentare. Le parole che hanno scelto sono state, ad esempio, esperanza, justicia, perseverancia, resiliencia[1]. Un’altra attività è stata quella di riflettere sul tempo, creando una linea del tempo personale attraverso diversi pezzi di stoffa rappresentanti momenti importanti di vita, forse fratturati dalla discontinuità del migrare, ma uniti attraverso nodi simbolici. Un ragazzo di 15 anni mi ha detto che il tempo passato nei centri per migranti era ‘tempo da recuperare’. Un altro ragazzo ha rappresentato un cerchio di pezzi di stoffa che corrispondevano a emozioni anziché a momenti di vita: pazienza, felicità, tristezza, insicurezza[2]. Per le donne, spiccava l’importanza dei figli e della religione. Per i ragazzi e ragazze, un elemento importante era il poter fare attività fisica: un concetto interessante che rimandava a una terapeutica corporea come complemento alla tradizionale terapeutica dell’ascolto.

Sono stati per me incontri importanti, che hanno lasciato una sensazione di umiltà e di amarezza rispetto alla visione prevalente di queste persone. Nei flussi migratori ci sono persone, non fluidi. Ma se anche fosse, in questo mondo di siccità crescente (morale, umana, ambientale), ben venga un po’ di acqua fresca.

 

 

Foto credits: Wotancito, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

[1] Traduzione: speranza, giustizia, perseveranza, resilienza

[2] Immagini delle creazioni dei migranti che hanno partecipato a queste sessioni si possono trovare sulla pagina Instagram @shapingtransit (Proyecto Historias de Tránsito)