Sudan Opinioni Punti di vista

La luce nel tunnel del Sudan resta accesa grazie alla società civile

Attanasio Luca

Non c’è pace per il Sudan. E non sembra neanche avvicinarsi una minima possibilità di tregua né di dialogo tra le parti in guerra. A ventuno mesi dallo scoppio del conflitto che ha rapidamente trasformato il grande Paese africano nella crisi umanitaria più catastrofica del momento, le notizie che giungono non lasciano spazio alla speranza. Le due fazioni in campo – le Forze Armate Sudanesi (Saf) del Generale Abdel Fattah Burhan, presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, capo di Stato dal colpo di Stato di fine 2021, e le Rapid Support Forces guidate da Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, in un alternarsi di ups and downs che vede l’una fazione prevalere sull’altra a fasi intermittenti e continui capovolgimenti di fronte, fanno sapere di non essere interessate al negoziato. Prosegue quindi un conflitto dai tratti spaventosi in cui il prezzo più alto, neanche a dirlo, lo paga la popolazione ormai allo stremo. I numeri fanno davvero paura. A dicembre l’Indice sulla sicurezza alimentare mondiale (Ipc) ha dichiarato uno stato di carestia evidente in cinque distretti del Sudan e ha affermato che probabilmente si sarebbe estesa ad altre cinque aree nei prossimi mesi. Guerra, insicurezza, malattie e fame stanno causando un esodo biblico che conta circa 11,5 milioni di sfollati interni e oltre 3,3 milioni esterni e che sta creando una grave destabilizzazione di un’area enorme che va dal Ciad (930mila profughi, fonte African Center for strategic studies aggiornata al 17 dicembre 2024) fino all’Etiopia (160mila), passando per Sud Sudan (890mila), Centrafrica (36.500), Egitto (1,2 milioni) e Libia (oltre 21mila), dove transitano quotidianamente migliaia di fuggiaschi. In tutto il Paese, sempre secondo l’Ipc, 25 milioni di persone stanno soffrendo la fame in modo acuto. I morti sono almeno 150mila. Poi ci sono i feriti, gli scomparsi e un numero sempre crescente di donne e ragazze violentate. Solo per fame e denutrizione, a quanto riferisce l’Onu, i decessi sarebbero centinaia ogni giorno.

Le due fazioni, oltre che sul campo, sembrano combattere per ottenere il primato delle atrocità. Entrambe vengono accusate di crimini orrendi, di uccisioni di massa, di inosservanza dei principi minimali della protezione dei civili. Ma, come fanno rilevare molti osservatori, per quanto le forze armate regolari rasentino la crudeltà assoluta, sono senza dubbio le Rsf a ‘primeggiare’ in questa drammatica sfida. Già un anno fa, un gruppo di esperti indipendenti ha presentato alle Nazioni Unite un rapporto in cui si affermava che solo nel dicembre 2023, tra le 10mila e le 15mila persone erano state uccise dalle Rsf nella sola città di El Geneina, Darfur occidentale. Verso la fine del 2024, non a caso, il termine ‘genocidio’ ha cominciato a venire abbinato alle azioni militari condotte dalle Rapid Support Forces e proprio all’inizio del 2025 il Segretario di Stato Blinken ha dichiarato gli atti delle Rsf “genocidiari”, in particolare per una ondata di violenza etnica estrema nella regione occidentale del Darfur. L’accusa di genocidio e di crimini contro l’umanità non è nuova ai leader delle Rsf, diretti eredi delle famigerate milizie Janjaweed, che all’alba del nuovo secolo si resero protagoniste di terribili massacri in Darfur per i quali sono stati chiamati a rispondere al tribunale della Corte penale internazionale (Cpi) all’Aia. Tra le figure di spicco di questi gruppi armati, fedelissimi al dittatore Omar al-Bashir, al potere in Sudan dal 1993 al 2019, emergeva un giovane Mohamed Hamdan Dagalo, ora capo indiscusso proprio delle Rsf.

Per quanto incredibile, su questa situazione apocalittica, che, come detto, oltre che gravi problemi interni, sta causando disequilibri geopolitici su di un’area vastissima e già molto problematica, con la fascia saheliana e l’Africa centrale in subbuglio tra giunte golpiste, penetrazioni jihadiste, radicamento di Wagner (ora Africa Corps) e disastri ambientali, grava un silenzio assordante. Le crisi ucraina e medio-orientale, con la recente aggiunta della Siria, hanno assorbito l’attenzione della comunità internazionale, e l’interesse per le questioni scottanti africane, sempre molto basso, nel caso del Sudan è ridotto al minimo. Il conflitto sudanese non è nei notiziari e, soprattutto, non sembra meritare un bullet point nelle agende delle cancellerie che contano. I mesi scorrono senza alcun segnale di tregua e perfino i tentativi di negoziato, sponsorizzati per una fase iniziale del conflitto da Stati Uniti e Arabia Saudita, dopo aver accumulato fallimenti e frustrazioni, appaiono un lontano ricordo.

Ma se la popolazione, che prima del conflitto ammontava a 48 milioni, convive con il terrore da quasi due anni e tutto – istituzioni, sanità, scuola, lavoro, socialità –   sta cadendo a pezzi, c’è una realtà che, proprio in questi ventuno mesi, sta conoscendo una crescita esponenziale: il business legato all’estrazione dell’oro, metallo di cui il Sudan è ricchissimo. Come spiega approfonditamente Declan Walsh un reportage apparso sul New York Times poco prima dello scorso Natale, la produzione e il commercio dell’oro hanno addirittura superato i livelli prebellici in un momento in cui le quotazioni del metallo stanno raggiungendo vette record (oltre 82 euro al grammo all’ 8 gennaio 2025 contro i circa 60 di un anno prima, ndr). I ricavi delle esportazioni di oro, secondo le stime ufficiali del governo, hanno raggiunto 1,5 miliardi di dollari da gennaio a ottobre 2024. Ma, ovviamente, gli affari maggiori avvengono sottotraccia e nessuno, compreso il governo, è interessato a renderli pubblici. Lo stesso Mohamed Tahir Omar, direttore generale della Sudanese Mineral Resources Company, un’agenzia governativa, dopo aver affermato che le esportazioni d’oro del Paese “hanno continuato a crescere attraverso i canali ufficiali” ha ammesso che della produzione effettiva di oltre 50 tonnellate solo “26 sono state esportate attraverso metodi ufficiali”.

L’oro, risorsa preziosissima e abbondante in Sudan, come si sarà facilmente compreso, è uno dei principali moventi alla base del conflitto. Le due parti in guerra che mirano a conquistare il potere, lo fanno anche per garantirsi il controllo delle miniere: nel 2022, quindi qualche mese prima dello scoppio del conflitto, l’oro ha rappresentato il 46,3% delle esportazioni non petrolifere del Sudan, per un valore di 2,02 miliardi di dollari su un totale di 4,36 miliardi di dollari di esportazioni, secondo le statistiche della Banca Centrale. Un valore molto significativo a cui si aggiunge quello ricavato dai traffici illegali. Il reportage di Walsh sul New York Times riporta una frase emblematica di Mo Ibrahim, un magnate sudanese fondatore di un think tank che promuove pace: “Per porre fine alla guerra follow the gold. L’oro alimenta il rifornimento di armi e dobbiamo fare pressione sulle persone che vi sono dietro. In fin dei conti, sono mercanti di morte”.

Il durissimo conflitto in Sudan, annovera tra i tanti danni e costi accumulati, anche uno politico. Ha azzerato un esperimento rivoluzionario tra i più interessanti e riusciti degli ultimi decenni, capace di portare milioni di donne, uomini, ragazzi in piazza a partire dal 2018 e condurre pacificamente, nell’aprile del 2019, alla storica cacciata di Omar al-Bashir, il despota ultra-islamico che aveva regnato incontrastato il Paese per 26 anni con metodi marcatamente dittatoriali. Tra i tanti misfatti di cui si è reso colpevole vale la pena citare l’ospitalità resa a Osama Bin Laden per una buona parte degli anni ’90 e la soppressione delle rivolte in Darfur nel 2003 che causarono la morte di circa 400mila persone e gli costarono la condanna presso il tribunale dell’Aia, nel 2009, per crimini di guerra e contro l’umanità.

La cosiddetta primavera sudanese dell’aprile 2019, quindi, capace di estromettere un pericolosissimo autocrate e di piegare l’esercito costringendolo ad accettare la costituzione, per la prima volta nella storia, di un esecutivo con presenza di civili (si firmò un accordo che prevedeva il 50% di cariche civili e il 50% di militari, ndr), ebbe un valore immenso. A ripensarla ora, si è fortemente tentati di ritenerla l’ennesima primavera trasformatasi in un gelido inverno. In realtà, quella rivoluzione continua. E se nel buio quasi assoluto dell’attualità sudanese, risplende una fiammella di speranza, è proprio per l’incredibile capacità di resistenza e resilienza della società civile.

“Per noi la guerra è una fase, ovviamente dolorosissima, nel percorso della nostra rivoluzione, è sbagliato pensare che abbia fermato il processo”, spiega Duaa Tariq attivista, artista,  fondatrice del gruppo artistico di coscienza sociale ColorSudan e una delle volontarie delle Emergency Response Rooms (Err), una sorta di comitati locali auto-organizzati. Le Err raggiungono centinaia di migliaia di individui, spesso delle aree più colpite dal conflitto, e svolgono un ruolo essenziale nell’attenuare i danni e nel fornire un sostegno alla popolazione. La natura di questo supporto viene decisa a seconda delle situazioni e include attività come la fornitura di pasti caldi giornalieri, la gestione di centri per l’infanzia con sale per le donne, la creazione e il sostegno di cooperative femminili, la riparazione di infrastrutture idriche, la distribuzione di materiali per l’igiene, l’acquisto di forniture mediche e farmaci, il supporto alle strutture sanitarie o l’evacuazione di civili e volontari. Per la loro costante attività le Err hanno ricevuto una nomination per l’assegnazione dell’ultimo Nobel per la Pace lo scorso ottobre.

“Le Emergency Response Rooms – racconta Rawh Nasir volontaria della Err di Jerief West nello stato di Khartoum – sono state stabilite all’indomani dello scoppio del conflitto. Il nostro scopo è fornire servizi essenziali alle comunità vulnerabili nei nostri quartieri e stabilite reti in particolare fatte da giovani e donne. Gradualmente le Err si sono organizzate e ingrandite e coprono molti quartieri e fanno sì che tutti in qualche modo si sentano coinvolti”.

Le scuole in Sudan nella stragrande maggioranza dei casi sono chiuse e si calcola che oltre 17 milioni di bambini siano esclusi da ogni forma di istruzione. Le Err anche in situazioni in cui il conflitto è attivo riescono a garantire safe haven per bambini e ragazzi. “Abbiamo una serie di servizi che si concentrano sui bambini in spazi specifici e sicuri per loro, solo nella mia area, quella di Jerief West, ce ne sono sette. Ai bambini viene fornito un pasto quotidiano che contiene proteine e vitamine oltre a lezioni di inglese, arabo, matematica, scienze e religione. Poi gestiamo biblioteche, organizziamo laboratori di pittura e, soprattutto, li facciamo giocare. Oltre a ciò per noi è fondamentale garantire almeno un pasto al giorno a tutta la comunità, i servizi sanitari di base, l’evacuazione di anziani, malati e persone in pericolo o sopravvissute a violenze sessuali oltre a servizi di supporto psicosociale per le donne attraverso cooperative di donne”.

Il premio Nobel non è arrivato per un soffio. I volontari delle Emergency Response Rooms, sono ugualmente felici del riconoscimento e sfruttano questa ottima occasione di visibilità per chiedere aiuto. Queste le loro richieste, facilmente realizzabili e grandemente utili:

Parlate di noi sui vostri social media ; Menzionare le Err il più possibile nei discorsi pubblici o nei media.  Sottolineare che il Peace Research Institute Oslo, l’ente assegnatore del Nobel ritiene che questa importante iniziativa meriti il Premio Nobel e incoraggiare il pubblico a sostenere le Err e il loro lavoro; Riconoscere che il modello di mutuo soccorso delle ErrR funziona, fornendo finanziamenti flessibili e sottolineando che i volontari delle Err sono operatori umanitari; Sostenere la protezione dei volontari Err e di tutti gli operatori umanitari che affrontano rischi enormi nel loro lavoro quotidiano. Continuare a condividere notizie e link sulle Err e sul Sudan, spingendo le vostre reti a saperne di più sulla crisi e su queste persone.

Qui per sostenere direttamente

Foto Credits: Enough Project, Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic. Attraverso Flickr