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Le madri del Gambia

Attanasio Luca

Quando a dicembre 2016 il fronte democratico guidato da Adama Barrow, l’allora imprenditore cinquantenne tornato in patria nel 2006 dall’Inghilterra per diventare il Ceo di una grossa azienda immobiliare locale, vinse le elezioni in Gambia, la sorpresa fu enorme. Non si trattava, infatti, di una normale tornata elettorale tra sfidanti democratici né di un duello contro presidenti a capo di democrature, un modello purtroppo ancora diffuso in Africa. Il voto di fine 2016 vedeva schierati da una parte un puro esordiente sostenuto da una coalizione democratica con pochi mezzi e zero copertura mediatica, dall’altra Yahya Jammeh, uno dei dittatori più longevi del pianeta, saldamente attaccato al potere conquistato nel 1994 con un colpo di Stato e abituato a vincere elezioni farsa senza particolari sforzi.

Il Gambia, un nastro di terra che dall’Oceano Atlantico, come un serpente, si incunea fino al cuore del Senegal, il più piccolo paese continentale dell’Africa, tagliato in due dal fiume che gli dà il nome, ha vissuto inabissato per oltre due decenni sotto il dominio di questo autocrate folle convinto, come disse alla Bbc nel 2013, «di rimanere presidente per un miliardo di anni se Allah vorrà». Nel corso dei suoi vari mandati si moltiplicarono uccisioni, incarcerazioni e sparizioni di oppositori, giornalisti e omosessuali e, nell’ultima fase del suo regno, quella in cui l’oppressione si fece più dura e i morsi della povertà di un paese mal gestito cominciarono a farsi sentire sempre più evidentemente, presero a partire frotte di ragazzini, la maggior parte giovanissimi, pronti ad affrontare i viaggi della morte verso l’Europa pur di lasciare un paese senza prospettiva. Molti sono arrivati in Italia, alcuni anche a 13, 14 anni.

Si pensava che la fine di Jammeh – favorita anche da un’azione combinata di Unioni Africana ed Europea che intervennero quando il dittatore si rifiutava di accettare il verdetto – l’inizio del suo esilio dorato in Guinea Equatoriale dove ha portato la collezione di macchine di lusso e milioni di dollari, unitamente alla svolta democratica, portassero grandi cambiamenti. Le centinaia di migliaia di persone che invasero le strade della capitale Banjul e delle varie cittadine su tutto il territorio quando Barrow giurò nel gennaio 2017 per festeggiare la caduta del despota, immaginavano una inversione di tendenza e, oltre a libertà e democrazia, attendevano scolarizzazione e lavoro per i giovani (il 43 percento dei 2,5 milioni di abitanti ha meno di 14 anni, ndr) e un susseguente drastico calo del fenomeno migratorio. Ovviamente non è semplice far ripartire l’economia di un paese che esce da 22 anni di dittatura e di gestione più orientata verso gli interessi dell’ex presidente e del suo cerchio magico che della popolazione, ed è particolarmente complesso innescare una crescita in una nazione senza sostanziali risorse che può contare solo su agricoltura e, da adesso, turismo. Ma i risultati ottenuti fin qui dal governo democratico non sembrano essere esaltanti. Il numero di sostenitori di Adama Barrow, che solo sette anni fa rasentava l’unanimità, non a caso si va sempre più assottigliando e cominciano a sentirsi tra le strade di Birikama o di Basse, come nei quartieri di Banjul, forme di contestazioni che potrebbero essere riassunte dal classico Si stava meglio quando si stava peggio un pessimo adagio che però dà l’idea della situazione. «Chi si aspettava miracoli – è sicuro Momodou Sabally, consigliere speciale del presidente Barrow – si sbagliava clamorosamente. Sono un economista e sapevo che non sarebbe stato per niente facile e che ci vorranno anni, forse decenni, prima che l’economia decolli. Nel frattempo, i risultati raggiunti sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo migliorato le infrastrutture e costruito arterie importantissime lungo tutto il paese, rafforzato il sistema sanitario, stiamo raggiungendo il 100 percento di scolarizzazione e tutti ora sono liberi di esprimersi e di associarsi oltre a godere di una totale libertà di stampa (dato confermato da Reporter senza frontiere (Rsf) secondo cui il panorama mediatico è notevolmente migliorato dal 2017, ndr). Siamo un soggetto internazionale a tutti gli effetti come dimostra l’organizzazione qui a maggio scorso della Conferenza annuale dell’Oic (Organizzazione della Cooperazione Islamica, la più grande entità a matrice musulmana del mondo, che raggruppa 57 paesi, ndr). E non dimentichiamo che abbiamo portato il Gambia a essere tra le prime 20 economie a crescita più veloce del pianeta».

«Ma questa crescita se la stanno godendo in pochi – protesta Abdoulie Jammeh leader del National United Party, uno dei principali partiti di opposizione –, basta farsi un giro per le strade, le cittadine, i villaggi e incontrare la gente. E poi, per fare interventi sanitari appena più complicati i gambiani che possono vanno in Senegal o in Guinea. Sprechi e corruzione continuano mentre i dati sulla scolarizzazione non corrispondono a realtà».

In effetti la sensazione che si respira incontrando e parlando con la gente comune ovunque si vada, a Senegambia l’area più turistica con un meraviglioso affaccio sull’Oceano Atlantico, così come a Basse, all’estremo opposto, nell’entroterra verso il confine occidentale con il Senegal, o a Farafenni, nel centro esatto del paese, è quella della disillusione. L’alfabetizzazione avanza ma ancora stenta, se si lasciano le strade principali, si finisce in sentieri fangosi che nella stagione delle piogge divengono impraticabili e, soprattutto, la stragrande parte della popolazione vive in condizioni di povertà.

«Quello che guadagno (ha un banchetto su cui espone qualche pesce, pomodori, melanzane e dadi per zuppe, ndr) mi basta solo per il cibo per me e i miei quattro figli – dice Adama una delle madri di migranti arrivati in Italia intervistate in Gambia all’interno di ‘Mums’ un progetto di narrazione del fenomeno migratorio a partire dalle voce delle mamme che restano, ideato da chi vi scrive e realizzato in collaborazione con IrpiMedia – I miei figli hanno smesso presto di studiare e chi può mi aiuta nel lavoro, ma senza i soldi che ci manda regolarmente Abdou, (il ragazzo vive ora in provincia di Messina, fa il meccanico e ha un contratto regolare, ndr), non saprei come fare». Poi si ferma, ripensa all’incubo lungo mesi in cui non ha avuto notizie del figlio e lo credeva morto, quando vedeva i notiziari con le immagini dei ragazzi che affogavano in mare e aggiunge: «Se potessi non lo farei mai più partire».

Un numero enorme di ragazzi continua a tentare il viaggio della speranza, la cosiddetta ‘backway’, verso l’Europa a età molto giovani. Lo fanno senza dire nulla alla famiglia, radunano i soldi di nascosto, ne parlano solo con amici che già sono in Europa e poi un giorno, preferibilmente una notte, letteralmente scompaiono. «Se lo avessi detto a mia mamma – spiega Jerreh, ora ventiquattrenne, arrivato in Italia a 16 anni e impiegato come operaio in una fabbrica in provincia di Reggio Emilia – non sarei mai riuscito a partire. Ma io dovevo farcela, non potevo più vedere mia mamma piegata in due dalla fatica nei campi costretta a lavorare tutto il giorno per mantenere me e i miei fratelli dopo la morte di mio padre. E così, di notte, sono scappato. Ho evitato anche di chiamarla perché sapevo che sentirla piangere mi avrebbe fatto desistere e io avevo bisogno di forze per continuare il viaggio, arrivare in Europa e costruire un futuro diverso per lei, la mia famiglia e me». Qui, in questa lacerante contraddizione di un ragazzino di 16 anni che lucidamente sceglie di affrontare un viaggio in cui rischierà la morte e subirà violenze, umiliazioni e privazioni di ogni tipo, di non avvertire la mamma e non sentirla per lunghi mesi ben sapendo di creare enormi sofferenze a lei e a se stesso in nome di un sogno e, soprattutto, per amore, sta tutta la tenerezza di un rapporto ma anche l’assurdità di una gestione del fenomeno migratorio da parte dell’Unione Europea degna di un regime di crudele apartheid. «Un giorno mi sono alzata per andare nei campi e ho chiesto a mia figlia grande dove fosse Jerreh – racconta Mariama, 51 anni e sei figli, contadina di Birikama, la mamma di Jerreh incontrata per il progetto ‘Mums’ – Sapevo che tanti ragazzi partivano di notte e capii subito. Iniziò per me un periodo di grande tristezza: nessuno mi diceva nulla, lui non chiamava, piangevo sempre, mangiavo poco». La prima telefonata di Jerrteh, anche a causa dei sequestri dei cellulari che i trafficanti fanno ripetutamente ai ragazzi, arriva dopo sei mesi. La gioia di quel momento non potrà mai compensare la sofferenza dell’attesa trascorsa a credere il proprio ragazzo morto né, ancora di più, a cancellare le ferite che Jerreh porta sul corpo e nell’intimo per le violenze subite e osservate nel viaggio.

È il sovranismo che chiude le frontiere l’ultima versione di un sistema segregazionista ideata dall’Europa. Quelle precedenti, sempre europee, si chiamano schiavismo e colonialismo. Il Gambia le ha conosciute tutte. Anzi, proprio al suo interno, complice la prospicienza sull’Oceano Atlantico, è stata concepita una delle prime forme di ‘esportazione’ di uomini, donne e bambini verso l’America che diede i natali al commercio di circa 12 milioni di esseri umani verso le Americhe tra il XV e il XIX secolo. Lo si comprende perfettamente visitando Kunta Kinteh Island, l’isolotto sul fiume che dà il nome al paese, a ridosso dell’oceano, dove per secoli sono stati concentrate centinaia di migliaia di individui.

L’atollo prende il nome dallo schiavo Mandinga, protagonista di Radici, il bestseller del 1976 dello scrittore americano Alex Haley. Non si sa per certo se sia realmente esistito ma le sue vicende, documentate da Haley, sono assolutamente verosimili, le stesse vissute da gambiani per secoliSu questa isoletta, ormai erosa dalle acque, resistono alcuni ruderi di edifici dove venivano ammassati futuri schiavi di ogni età a gruppi di circa 500 prima di venire selezionati e imbarcati in catene nelle navi verso l’America se sani, o gettati nel fiume popolato da coccodrilli se fragili o malati. Nell’osservarlo si prova, per chi c’è stato, una sensazione molto simile a quella percepita nelle visite ai campi di concentramento nazisti. La spaventosa differenza, però, è che questo olocausto è durato secoli e che si è concluso con l’abolizione universale della schiavitù a metà dell’800, per fare subito posto, però, all’avvento del colonialismo. L’Africa è disseminata di tanti altri orrori secolari come l’isola di Kunta Kinteh: il Castello di Cape Coast in Ghana, l’Isola di Gorée in Senegal e, scendendo sulla costa dell’’Atlantico, tanti altri luoghi tra Benin, Nigeria, Congo Brazzaville, Angola etc.

Se il Gambia di oggi, se l’Africa nel suo complesso, vivono in permanente condizione di impoverimento, se fanno fatica a emergere da sottosviluppo, tensioni e conflitti, se vedono con difficoltà il giorno del definitivo riscatto, lo si deve senza il minimo dubbio a questa storia infame di cui nessuno ha mai pagato veramente il prezzo. La Norimberga dello schiavismo, quella del colonialismo, attendono ancora di essere celebrate.