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In libreria: Routledge Handbook of Peacebuilding, seconda edizione

Capitolo African perspectives on peacebuilding, di Cyril Obi*

Redazione

Il Routledge Handbook fornisce una panoramica approfondita dei problemi che si pongono e dei possibili modi per cercare di raggiungere e sostenere la pace nel mondo. In particolare, l’opera esamina diversi approcci al peacebuilding, come il ruolo della società civile, le riforme del settore della sicurezza, le implicazioni dei cambiamenti climatici, l’impatto del trauma e la necessità di inclusione delle donne e dei giovani. Il manuale esplora inoltre l’evoluzione del peacebuilding, analizzando il passaggio da un modello di peacebuilding incentrato sullo Stato a uno più inclusivo e sensibile alle dinamiche locali. L’opera evidenzia la crescente consapevolezza del ruolo della sociologia, della sociolinguistica e dell’antropologia nel comprendere e affrontare le complessità del peacebuilding.

Il contributo specifico di Cyril Obi al volume è il capitolo 10, intitolato “African perspectives on peacebuilding”. L’autore si concentra, come dice il titolo, sulle prospettive africane per il consolidamento della pace, che hanno acquisito maggiore e rilevanza e attirato più attenzione negli ultimi tre decenni, dopo la fine della guerra fredda. Gli studi iniziali sulla costruzione della pace in Africa nel “dopo-guerra fredda” sono stati in gran parte influenzati dal paradigma liberale dominante, in termini di concetti, epistemologie e pratiche, ma secondo l’autore alcuni cambiamenti stanno diventando sempre più evidenti, e sottolineano una tendenza verso approcci critici e locali.

In questa prospettiva, Obi  mette in risalto alcuni dei principali punti critici del paradigma della “pace liberale”, così come descritto nell’esame delle prospettive africane sul peacebuilding. Schematicamente, se ne possono citare sei:

  1. Un approccio basato su un’unica ricetta: il paradigma della “pace liberale” è spesso criticato per aver promosso un approccio di “taglia unica” al peacebuilding,  così rigido che non riesce a tenere conto dei contesti locali specifici e delle culture native.
  2. Eccessiva enfasi sullo Stato e sulle istituzioni: il paradigma si concentra eccessivamente sulle istituzioni formali, trascurando il ruolo degli attori locali, delle norme e dei meccanismi tradizionali nella costruzione della pace.
  3. Pace negativa rispetto a pace positiva: il paradigma tende a dare la priorità alla pace negativa (assenza di violenza) rispetto alla pace positiva (affrontare le cause profonde del conflitto e promuovere la giustizia sociale).
  4. L’imposizione di un’agenda esterna: gli studiosi africani sottolineano che il paradigma spesso implica l’imposizione di un’agenda esterna da parte di attori internazionali, calato dall’alto, che mina processi di reale appropriazione e la cosiddetta agency locale.
  5. Risultati di sviluppo limitati: il paradigma, con la sua attenzione per le riforme in nome del libero mercato, spesso non riesce a produrre benefici tangibili, in termini di sviluppo o economici, per i poveri nelle società colpite da conflitti.
  6. Mancanza di attenzione ai conflitti locali: il paradigma trascura i conflitti a livello micro, intercomunali o di base, che spesso sono alla radice di problematiche più ampie in materia di pace e sicurezza.

Inoltre, alcuni studiosi sostengono che il concetto di “ownership locale” è diventato una parola d’ordine vuota, usata per mascherare gli interventi di peacebuilding a livello macro imposti dall’esterno presentandoli come locali e innocui. Per questa ragione, diversi studiosi africani – nota  l’autore – sollecitano un consolidamento della pace multilivello e multisettoriale, incentrato sulle persone, che dia la priorità agli interessi, alle priorità e ai programmi africani.

In sostanza, le prospettive africane sul peacebuilding mettono in discussione la rilevanza e l’efficacia del paradigma della “pace liberale” nei contesti africani, sostenendo approcci più inclusivi, partecipativi ed emancipatori che riconoscano e valorizzino gli ambienti , le culture e le agenzie locali.

In questo periodo, caratterizzato da inaccettabili violenze e alti costi in termini di vite umane e sofferenze in Palestina e nel Medio Oriente, le critiche del paradigma della “pace liberale” nei contesti africani – al di là ovviamente delle intenzioni dell’autore – si collegano a quelle di altro segno, relative alle implicazioni per i “doppi standard” occidentali, in particolare alla luce delle attuali sofferenze dei civili palestinesi dovute al conflitto tra Israele,  Hamas e Hezbollah che – aggravando una situazione protratta da decenni in Palestina – sta infiammando l’intera regione medio-orientale. È una questione complessa e sfaccettata. Tuttavia,  – come scrive l’autore nel capitolo da lui curato in questa raccolta – molti studiosi hanno messo sempre più in dubbio la rilevanza e l’efficacia del paradigma di “pace liberale” che enfatizza la governance democratica in stile occidentale e le riforme orientate al mercato come soluzioni ai conflitti, in modo eccessivamente prescrittivo e senza considerare adeguatamente i contesti, le culture, le conoscenze e le pratiche locali.  Allo stesso modo il grave conflitto in corso, che coinvolge direttamente Israele, Hamas e Hezbollah e vede i civili palestinesi come principali vittime, sta intensificando nel mondo l’esame critico delle risposte occidentali ai conflitti globali. In particolare, in molti eventi accademici e sui media di diversi Paesi del Sud globale, non è raro oggi veder criticare il modo in cui queste risposte risultino incoerenti con i valori dichiarati di diritti umani e democrazia, e si parla di “doppio standard” (double standards). Quel che qui importa segnalare, in relazione al contributo di Cyril Obi, è che oggi c’è una crescente percezione, nel Sud del mondo, che le nazioni occidentali applichino selettivamente le leggi internazionali. Ad esempio, mentre i Paesi occidentali hanno condannato a gran voce le azioni della Russia in Ucraina, le loro risposte alle azioni israeliane a Gaza sono state percepite come meno energiche o coerenti. Del resto, ci sono voci critiche nello stesso Occidente che sostengono che ci sia un netto contrasto tra la condanna dell’Occidente della violenza russa in Ucraina e la sua risposta più smorzata alle azioni israeliane che stanno determinando – in modo cruento e ingiustificabile secondo diversi report delle Nazioni Unite – vittime civili in Palestina, come risposta ad azioni altrettanto ingiustificabili provenienti da Hamas verso civili israeliani. Che si sia d’accordo o meno, il dato di fatto da sottolineare è che se voci autorevoli dei Paesi del Sud del mondo hanno a lungo accusato l’Occidente di difendere l’ordine internazionale basato sulle regole solo quando fa comodo, di recente tali critiche sono diventate più frequenti, soprattutto dall’inizio della guerra in Ucraina e della guerra tra Israele e Hamas.

L’eredità storica del colonialismo e dell’imperialismo gioca un ruolo significativo nel plasmare le percezioni attuali dei doppi standard occidentali. Il coinvolgimento storico dell’Occidente nei conflitti in tutto il mondo spesso porta ad accuse di ipocrisia, quando non riesce a sostenere gli stessi standard che sostiene per gli altri. C’è anche da notare, come evidenziava un anno fa un articolo di Bill Emmott intitolato “L’Occidente e la calunnia dei doppi standard (The West and the ‘double standards’ smear) su Asia Times, che le accuse di doppi standard sono spesso sfruttate da nazioni che cercano di affermare i propri interessi geopolitici, mentre criticano le politiche occidentali. Ma resta pur vero, come affermato da Oliver Stuenkel della Getúlio Vargas Foundation brasiliana, che la percezione dei doppi standard ha reso più tese le relazioni tra le nazioni occidentali e i Paesi del Sud del mondo. Questa percezione mina gli sforzi dell’Occidente di impegnarsi con queste nazioni su questioni globali come i cambiamenti climatici, il commercio e la sicurezza. La situazione attuale ha così portato a richieste all’interno del Sud del mondo – che si palesano ad  esempio in seno alle Nazioni Unite – per un’applicazione più equa del diritto internazionale e del rispetto dei diritti umani in tutti i contesti, non solo in quelli che si allineano con gli interessi occidentali.

Ed è collegato a tutto questo, in qualche modo, anche il fatto che gli studiosi africani stanno generando più dati con cui problematizzare le manifestazioni locali della crisi degli studi e delle pratiche di peacebuilding liberale nel loro continente. Il tema di fondo – in termini di implicazioni da trarre per il futuro , suggerisce la riflessione di Cyril Obi – è la necessità di aggiornare la nostra comprensione dei rapporti di potere socialmente strutturati alla base di tutti gli interventi di pace, compresi quelli in Africa, nel contesto del nesso tra le mutevoli traiettorie di conflitto e di pace, le crisi economiche e la  nuova corsa all’Africa in un ordine emergente post-guerra fredda.

Da una prospettiva africana, come quella dell’autore, il futuro della pace sarà fondamentalmente plasmato da ciò che il consolidamento – da parte africana – della pace rappresenta per i popoli   di quel continente, in particolare in termini di loro reinserimento e riconnessione alle attuali lotte per l’emancipazione, l’uguaglianza dei cittadini , lo sviluppo partecipativo e sostenibile e la dignità. In altri termini, Obi sostiene che il consolidamento della pace in Africa si verifica  in primo luogo all’interno dello spazio africano ed è mediato dalle esperienze africane come popolo, ma allo stesso tempo non può essere separato dai discorsi globali.

In tempi così bui come gli attuali, questi sono spunti di riflessione molto preziosi e da non trascurare, poiché contribuiscono alla  cultura del confronto e del rispetto delle diverse idee, come del resto è vero guardando alle differenti  prospettive dei numerosi contributi presenti in questo  volume, che riunisce studiosi qualificati nel campo della costruzione della pace, molti dei quali provenienti dal Sud del mondo.