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In libreria – The Politics of Welfare in the Global South

Capitolo "Conditional and Unconditional Universalism in Africa" di Jeremy Seekings*

Redazione

Il Welfare State è un’istituzione molto complessa, un modello di società che è nato e si è sviluppato principalmente in Europa nel corso del XX secolo, in risposta a cambiamenti sociali, economici e politici significativi, come la Rivoluzione industriale, le due guerre mondiali, l’avvento della democrazia di massa e poi – all’indomani della seconda guerra mondiale e nel contesto delle strategie per contrastare la diffusione del comunismo durante la Guerra Fredda – la necessità di dare risposte alle esigenze della classe operaia e di favorire la coesione sociale. Il termine si riferisce a un insieme di politiche pubbliche volte a garantire il benessere (welfare, in inglese) dei cittadini attraverso la protezione sociale, che include anzitutto sanità, istruzione, sicurezza sociale e politiche del lavoro. L’obiettivo principale del Welfare State è ridurre le disuguaglianze, proteggere contro i rischi economici e sociali (disoccupazione, malattia, vecchiaia) e promuovere una maggiore coesione sociale, evitando anzitutto condizioni non dignitose di vita per le fasce più vulnerabili della popolazione.

Tre, almeno, sono le caratteristiche principali del Welfare State in termini generali:

  1. Protezione sociale: il Welfare State offre una rete di sicurezza sociale per tutti i cittadini, attraverso sistemi che includono la previdenza, l’assistenza sanitaria, le pensioni e l’indennità di disoccupazione.
  2. Redistribuzione della ricchezza: tramite politiche fiscali progressive e sistemi di trasferimento del reddito, il Welfare State mira a ridurre le disuguaglianze economiche.
  3. Intervento statale: lo Stato svolge un ruolo chiave nel garantire l’accesso ai servizi e nel regolare il mercato del lavoro, proteggendo i lavoratori e promuovendo la stabilità economica.

Tuttavia, al di là delle generalizzazioni, l’Europa ospita diverse varianti di Welfare State, ognuna delle quali riflette tradizioni storiche, culturali e politiche uniche. Questi modelli differiscono per l’entità dell’intervento statale, il livello di redistribuzione, il ruolo del mercato e della famiglia nella protezione sociale.

In Europa, solitamente, si fa riferimento a cinque modelli, anche se le loro applicazioni oggi tendono ad essere sfumate, con contaminazioni tra i diversi modelli:

  1. Modello nordico (socialdemocratico), cioè il modello tipico di Paesi come Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia, spesso considerato l’esempio più compiuto di Welfare State. Esso enfatizza la riduzione delle disuguaglianze, la parità di accesso ai servizi e un ampio coinvolgimento statale e si basa su principi di:
    • Universalismo: i servizi sociali, come sanità, educazione e pensioni, sono accessibili a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito.
    • Generosità: i benefici sono estesi e garantiscono alti standard di vita.
    • Fiscalità progressiva: il sistema fiscale è altamente redistributivo, con imposte elevate che finanziano i servizi sociali.
    • Parità di genere e inclusione: politiche attive per l’uguaglianza di genere e l’inclusione sociale, come congedi parentali e servizi per l’infanzia.

 

  1. Modello continentale (corporativo-conservatore), presente in Paesi come Germania, Francia, Austria e Belgio; più conservatore rispetto al precedente è basato su principi corporativi e i benefici sociali sono legati alla posizione lavorativa dell’individuo. In particolare, questo modello tende a promuovere la stabilità occupazionale e a mantenere un legame stretto tra lavoro e benefici, ma offre meno flessibilità rispetto al modello nordico e si caratterizza per:
    • Sistemi assicurativi contributivi: molti benefici, come pensioni e assistenza sanitaria, sono finanziati dai contributi dei lavoratori e datori di lavoro.
    • Centralità del lavoro: la protezione sociale è principalmente diretta ai lavoratori regolari, e le famiglie dipendono in larga misura dal capofamiglia.
    • Ruolo della famiglia: la famiglia svolge un ruolo importante come fornitore di welfare, specialmente nel supporto agli anziani.

 

  1. Modello anglosassone (liberale), caratteristico di Paesi come il Regno Unito e l’Irlanda, influenzato dall’approccio liberale, è caratterizzato da un livello inferiore di protezione sociale e una maggiore enfasi sull’autosufficienza individuale. Esso si basa su:
    • Targeting e sussidi minimi: i benefici sociali sono spesso limitati a chi ne ha più bisogno, con la presenza di cosiddetti controlli sui mezzi, cioè verifica delle condizioni di eleggibilità ai benefici previsti per evitare che ne usufruiscano colore che non ne avrebbero bisogno (in inglese, means-tested benefits).
    • Ruolo del mercato: il mercato svolge un ruolo predominante, con una maggiore dipendenza dal settore privato per servizi come sanità e pensioni.
    • Minor redistribuzione: rispetto ai modelli nordico e continentale, il sistema fiscale è meno redistributivo.

 

  1. Modello mediterraneo (familistico), tipico di Paesi come Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, presenta una forte dipendenza dalle reti familiari e, di conseguenza, ha meno protezione sociale universale e servizi statali meno sviluppati. Si basa su:
    • Ruolo centrale della famiglia: la famiglia è considerata la principale fonte di welfare, con lo Stato che interviene in modo più limitato.
    • Frammentazione: il sistema di protezione sociale è spesso frammentato e fortemente legato alla posizione lavorativa (soprattutto nel settore pubblico).
    • Assistenza informale: la cura degli anziani e dei bambini è spesso demandata alla famiglia, con un supporto statale meno sviluppato rispetto ai paesi nordici.

 

  1. Modello dell’Europa orientale, che interessa, dopo la caduta dei regimi comunisti, i Paesi dell’Europa orientale come Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca che hanno sviluppato sistemi di welfare che spesso combinano elementi del modello continentale con il liberismo anglosassone. In particolare, questo modello presenta:
    • Eredità socialista: sistemi di sicurezza sociale estesi, ma spesso inadeguati, ereditati dai regimi comunisti.
    • Transizione economica: con la transizione al capitalismo, molti servizi pubblici sono stati privatizzati o ridimensionati, con un focus su politiche di mercato.
    • Riduzione dei benefici: il Welfare State in questi Paesi è spesso limitato, con sussidi modesti e una forte dipendenza dal mercato del lavoro.

Ma al di fuori dell’Europa ha senso parlare di modelli di Welfare State e – in ogni caso – quali sistemi di Stato sociale si incontrano, tenuto conto delle influenze dei diversi fattori storici, economici e politici?

In letteratura è frequente il riferimento all’esperienza degli Stati Uniti, un Paese in cui il modello di Welfare State è molto limitato rispetto all’Europa, con un ruolo dominante del mercato privato, dove il settore privato gestisce pensioni e assicurazioni sanitarie per la maggior parte della popolazione e la protezione sociale è riservata ai più poveri o agli anziani, con programmi come Medicaid e Medicare.

Meno, ma si parla anche delle esperienze dell’America Latina, dove diversi Paesi (come il Brasile e l’Argentina) hanno sviluppato forme di protezione sociale con elementi di universalismo, soprattutto negli ultimi decenni, ma con una forte enfasi sui trasferimenti condizionati (come il programma Bolsa Família in Brasile), mirati ai più poveri. Ancor meno si parla di “modelli asiatici”, un continente in cui Paesi come Giappone e Corea del Sud hanno sviluppato sistemi di welfare che combinano elementi corporativi e familiari mentre altri Paesi, come la Cina e l’India, hanno sistemi ancora in evoluzione, con una protezione sociale limitata e frammentata.

Pochissimo si dice dell’Africa. Per questa ragione, il volume intitolato “The Politics of Welfare in the Global South”, e curato da Sattwick Dey Biswas, Cleopas Gabriel Sambo e Sony Pellissery e pubblicato dalla Oxford University Press è particolarmente interessante.

Dovendo limitare l’attenzione a un contributo specifico di questa ampia raccolta, per le ragioni di cui sopra va segnalato il lavoro di Jeremy Seekings, docente di studi politici e sociologia presso l’Università di Cape Town. L’autore, nel suo capitolo – “Conditional and Unconditional Universalism. Normative Difference and the Slow Expansion of Social Protection in Africa” – inquadra il caso africano esaminando i vari significati di ‘universalismo’ nel contesto della protezione sociale in Africa, con particolare attenzione alla distinzione tra un universalismo incondizionato e un universalismo condizionato (ovvero basato su gradi più o meno stringenti di selettività). L’autore non si dilunga nello spiegare le differenze e le esperienze storiche correlate ma, in base a quanto detto prima, si tratta di due approcci distinti alla protezione sociale e ai diritti particolarmente rilevanti nel contesto delle politiche di welfare, non solo in Africa.

L’universalismo incondizionato implica che ogni individuo, indipendentemente dalle sue condizioni personali o dal contributo attivo alla società, ha un diritto garantito e universale all’accesso a determinati benefici, come il sostegno economico, l’assistenza sanitaria o l’educazione. Questo modello è fortemente radicato nella tradizione dei diritti umani e in un approccio egualitario che vede i diritti come intrinsecamente legati alla persona, senza che essi siano subordinati ad alcun obbligo o condizione. Ogni cittadino, cioè, ha un diritto inalienabile a benefici sociali minimi (come reddito o servizi essenziali) e l’accesso alla protezione sociale non richiede il soddisfacimento di criteri specifici o di obblighi, come il lavoro o il contributo attivo alla società. È anche un approccio generalmente individualistico, che garantisce la protezione sulla base dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze. Si tratta del modello promosso, per esempio, dal sistema delle Nazioni Unite e da sue organizzazioni come l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che vedono la protezione sociale come un diritto umano fondamentale e incondizionato.

Diversamente, il modello di universalismo condizionato o selettivo prevede che l’accesso ai benefici sociali sia subordinato a certe condizioni, come il contributo lavorativo, l’impegno in attività specifiche o il rispetto di obblighi verso la comunità o la famiglia. Questo modello è più diffuso in contesti come l’Africa, dove prevalgono norme culturali che danno importanza non solo ai diritti individuali ma anche agli obblighi collettivi, il che implicherebbe anche un alleggerimento dell’onere fiscale complessivo. Gli individui possono accedere a forme di protezione sociale solo se rispettano determinate condizioni, come il lavoro (cosiddetti programmi di workfare) o l’adempimento di doveri verso la famiglia e la comunità. In questo senso, i benefici non sono solo un diritto, ma un riconoscimento in cambio del contributo che l’individuo offre alla società. C’è una forte enfasi sulla reciprocità tra individuo e collettività, che molti studi antropologici ritrovano in varie culture tradizionali dell’Africa e risulta, dunque, in un approccio più in linea con le tradizioni comunitarie di molti Paesi africani e meno centrato sul riconoscimento di diritti individuali spesso slegati dagli obblighi comunitari, come è nella tradizione liberale.

Sulla base di queste distinzioni preliminari, Seekings evidenzia che le élite politiche africane, e in parte anche la popolazione, tendono a privilegiare un universalismo condizionato, che vede i diritti individuali strettamente legati a obblighi sociali e comunitari. Questa visione si traduce in una preferenza per programmi di protezione sociale condizionati, come i programmi di lavoro in cambio di assistenza, dove l’accesso ai benefici è subordinato al contributo lavorativo. Questo approccio – ripete più volte l’autore – è radicato in una concezione più collettiva del benessere, in cui l’individuo è definito dai suoi obblighi verso la famiglia, la comunità e lo Stato.

Una delle tensioni chiave esplorate nel contributo di Seekings riguarda l’influenza storica della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e delle teorie liberali occidentali, come quella di John Rawls, che hanno promosso un’idea di giustizia basata sull’eguaglianza e sui diritti individuali. Nelle dichiarazioni africane sui diritti, come la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (Carta di Banjul, 1981), emerge invece l’enfasi sugli obblighi e sulle responsabilità. Questa differenza di visione spiega perché molti Paesi africani resistano all’adozione di politiche di protezione sociale incondizionata e perché le posizioni della Banca Mondiale, che promuove tradizionalmente approcci più selettivi e basati sulla responsabilità individuale, in una logica meno statalista, incontrino di fatto poche resistenze.

Una riflessione critica sul tema ci obbliga a sottolineare come queste differenze non siano solo teoriche, ma abbiano profonde implicazioni pratiche. In Europa, le istituzioni di Welfare State si sono evolute attorno al concetto di universalismo basato sui diritti sociali incondizionati, come l’accesso universale alla sanità o alle pensioni, radicato nelle idee di William Beveridge e nel modello socialdemocratico nordico. Questo modello, fondato sull’universalismo dei diritti, ha promosso un’ampia rete di sicurezza sociale che ha contribuito a ridurre le disuguaglianze economiche e sociali, anche se a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha subito progressive erosioni e attacchi nel contesto della nuova fase della globalizzazione e del mainstreaming di liberalizzazioni, privatizzazioni e deregolamentazioni.

In Africa, al contrario, sono la centralità degli obblighi sociali e la preoccupazione per la dipendenza dai sussidi ad alimentare un approccio più restrittivo e condizionato. Sebbene ci siano esempi di espansione della protezione sociale, come i programmi di trasferimento di denaro condizionati, essi sono spesso percepiti come temporanei o limitati, e con un forte controllo sul comportamento dei beneficiari. Questo può, almeno in parte, riflettere una visione politica che vede la protezione sociale non come un diritto inalienabile, ma come una concessione dello Stato a individui che soddisfano criteri specifici.

Per chiunque voglia comprendere meglio le sfide e le opportunità della protezione sociale in Africa e nel Sud globale, specialmente in un periodo in cui la protezione sociale sta tornando al centro delle agende politiche globali in seguito alla pandemia da COVID-19, il capitolo di Seekings e anche gli altri contributi presenti in questo volume sono una lettura certamente consigliata.