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I Caraibi e il cambiamento climatico: resistenza, organizzazione e femminismo

Di Reda Lorenzo

Il cambiamento climatico minaccia direttamente ogni angolo di questo pianeta, ma è probabile che a pagare le conseguenze più immediate e devastanti di questo processo saranno, nel breve termine, gli stati insulari e, in particolar modo, i piccoli Stati insulari in via di sviluppo (Small Island Developing States – SIDS) dell’area dei Caraibi. In questo contesto, rischiano di esacerbarsi le dinamiche di disuguaglianza di genere preesistenti, i meccanismi migratori e le vulnerabilità delle comunità locali più fragili.

L’innalzamento del livello dei mari, il riscaldamento delle acque, l’erosione degli ecosistemi costieri e l’aumento dell’incidenza dei disastri ambientali sono prodotti diretti del mutamento climatico, e a subirne il contraccolpo saranno in primo luogo le aree geografiche più esposte a tali fattori e le comunità che ci vivono e che dipendono da questi delicati ambienti.

Un mare più alto significa coste sempre più erose e fragili, e di conseguenza più esposte alle alluvioni e alle onde più alte causate da uragani più forti. Acque più calde portano a rilevanti mutamenti faunistici e della vegetazione marina, fino all’ipossia della flora subacquea. Le barriere coralline sono minacciate dal riscaldamento dei mari e dagli effetti delle tempeste, e non di rado intere porzioni vengono spazzate via o strutturalmente e irrimediabilmente compromesse.

Le proiezioni degli scienziati intravedono un aumento di frequenza e intensità degli uragani, che oltre ai danni materiali sulla terraferma comporterebbe l’abbassamento dei livelli salini dell’acqua, con ulteriori conseguenze su vegetazione e fauna, ma anche variazioni delle correnti superficiali, seppellimento di intere zone di barriera corallina, degrado complessivo della qualità dell’acqua, con lo spargimento di frammenti di corallo, sabbie e detriti, e acidificazione e intorbidimento delle acque, anche quelle superficiali.

L’instabile architettura economica regionale ha fatto sì che fosse data per anni priorità allo sviluppo di nuove strutture turistiche, abbattendo intere e delicate zone verdi, sostituite da fastosi resort. Questo processo ha reso molte aree di queste piccole isole decisamente più vulnerabili all’effetto del cambiamento climatico, poiché molti tipi di piante costiere, specialmente specie acquatiche come le mangrovie, aiutano a reggere e sostenere l’impatto di alluvioni e cataclismi, frenandone l’azione distruttrice sia in acqua che sulla costa, fungendo spesso da vero e proprio scudo protettivo.

Paesi come Bahamas e Trinidad e Tobago si ritrovano linee costiere pochi metri al di sopra del livello del mare, e più del 27% della popolazione dei Caraibi vive in aree costiere. Si stima che l’innalzamento di un metro del livello del mare nella regione caraibica porrebbe il 49-60% delle strutture turistiche a rischio di erosione delle spiagge e il 29% verrebbe addirittura parzialmente o completamente inondato. Si prevede che Barbados, Bahamas e Trinidad e Tobago subiranno nel medio termine perdite superiori al 50% delle zone costiere. Tra il 2000 e il 2019, Bahamas e Haiti sono stati classificati tra i dieci paesi o territori più colpiti a livello globale da eventi metereologici estremi. Proprio nelle ore in cui viene scritto questo articolo, l’uragano Beryl, di livello 5, sta imperversando sulle coste di St Vincent e Grenadine, Grenada e St Lucia, con migliaia di sfollati e danni enormi.

Le economie caraibiche sono legate in buona parte alle attività di turismo (pesca sportiva e subacquea, immersioni, visita delle barriere coralline, vacanze in resort), come le Bahamas, con circa 400.000 abitanti e milioni di turisti annui; sulle rimesse e sull’importazione della maggior parte dei beni primari – come cibo ed energia. Questi già fragili sistemi sono spesso ancor più indeboliti dai debiti contratti per risanare i danni delle catastrofi ambientali da cui sono vessati. L’agricoltura occupa (dati del 2021) solamente l’11% della popolazione, data anche la scarsità di terreni e spazi agricoli coltivabili, e tutto il settore è costantemente messo alla prova dalle avversità climatiche che ciclicamente compromettono i terreni, rovinano le già magre coltivazioni e danneggiano le poche infrastrutture esistenti.

In questo contesto, uno dei punti cruciali è l’immigrazione interna. L’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC) calcola ogni anno un aumento costante nel numero di migranti interni alla regione che, a causa dei disastri ambientali, hanno cercato rifugio in zone meno soggette alle calamità. In generale, l’area dei Caraibi possiede uno dei livelli di migrazione più alti del mondo, con il numero di coloro che lasciano i rispettivi paesi raddoppiato negli ultimi trent’anni, diretti principalmente verso Stati Uniti, Europa e America Latina.

A livello regionale, la principale istituzione che tenta di contrastare le conseguenze del cambio climatico è probabilmente la Caribbean Community Climate Change Centre (CCCCC), sorta nel 2002 e con sede in Belize. Con una serie di progetti legati al monitoraggio, alla raccolta dei dati, allo scambio di conoscenze tra i paesi membri e attività di formazione (supportate anche dal Governo Italiano), questo ente si pone come baluardo principale, riconosciuto anche a livello internazionale, dell’integrità ambientale della regione.

Risulta importante anche l’azione diretta della CARICOM, la Comunità Caraibica, che permette una maggiore visibilità regionale e facilita le attività di coordinamento con altre realtà sovranazionali, come nel caso dell’accordo di partenariato economico UE-CARIFORUM e il progetto EU/CARIFORUM Climate Change and Health Project.

Un’altra realtà da porre in risalto è il progetto Climate Governance Initiative for the Caribbean, un istituto con sede a Berlino e composto da un team internazionale di circa 130 esperti, che producono analisi, studi e supporto tecnico di alto livello ai Paesi caraibici.

Un’istituzione fondamentale per sostenere la lotta dei SIDS caraibici al cambiamento climatico sono, inoltre, le Nazioni Unite. In questo senso, è importante citare la IV Conferenza Internazionale sui SIDS (SIDS4), tenutasi ad Antigua e Barbuda negli ultimi giorni di maggio del 2024. Durante questo significativo evento, che aveva come sottotitolo quello di “Tracciare la rotta verso una prosperità resiliente”, si sono tenuti incontri ed eventi su temi come prevenzione del disastro, economia blu, rafforzamento delle infrastrutture, questione di genere, consolidamento economico contro gli shock economici e maggiore accesso ai finanziamenti e trasformazione digitale.

A livello nazionale, molti governi caraibici sono decisamente attivi, nonostante i mezzi limitati, nel portare avanti idee concrete per la lotta al cambiamento climatico, almeno a livello locale.

Nel 2020, la Jamaica è stato il primo paese caraibico a impegnarsi in un piano d’azione nazionale concreto, che ha visto l’unione di ogni schieramento politico nazionale.

Tra gli obiettivi, quello di ridurre le emissioni di più del 25% entro il 2030 nel settore energetico e in quello della selvicoltura, quello di supportare le attività di pesca sostenibili e basate sulle comunità locali, uno sviluppo capillare di nuovi sistemi agricoli basati sulla raccolta e la redistribuzione dell’acqua piovana, incoraggiare l’ecoturismo e ridurre l’impatto del turismo da crociera che imperversa nei porti di tutto il Paese.

Il programma Roofs to Reefs di Barbados, per esempio, promosso a livello nazionale dal Primo Ministro Mia Mottley, ha come obiettivo concreto quello di rendere più sicure e resistenti alle calamità ambientali strutture pubbliche e private del paese, dare una svolta di efficienza e sostenibilità ai sistemi di distribuzione di acqua ed energia, ma anche all’uso dei terreni, fino ad arrivare a progetti di salvaguardia e ristorazione della flora marina e della barriera corallina.

La Dominica, piccolo atollo di circa 70mila abitanti, è una tra le isole più esposte al rischio di calamità naturali, in quanto posizionata nella parte orientale del Mar dei Caraibi. Nel 2018 il governo dominicano ha instituito l’agenzia CREAD (Climate Resilience Execution Agency for Dominica) come prima risorsa di lotta al cambiamento climatico. Definendosi così la “prima nazione resiliente al cambiamento climatico al mondo”, la Dominica ha sviluppato progetti di sensibilizzazione, rafforzamento delle infrastrutture e coinvolgimento delle comunità locali e indigene. È nato così un interessante connubio tra i nativi Kalinago e il governo nazionale, anche in virtù delle origini kalinago della presidentessa Sylvanie Burtonche, che ha portato alla realizzazione di piani più sostenibili nella gestione di terreni, foreste, energia e turismo, e di costruzione di rifugi ed edifici abitativi e comunitari più sicuri, ma seguendo l’architettura indigena.

Sicuramente, l’unica strada per questi piccoli stati insulari è quella di lavorare su tre livelli: supportare al massimo le proprie comunità locali e utilizzando al meglio le proprie risorse interne; tendere a un lavoro più coordinato e coeso tra i governi della regione; sfruttare al massimo il supporto che le grandi potenze mondiali e le realtà sovranazionali possono e devono dare per salvaguardare queste fragili realtà, prima che sia troppo tardi.

Un ultimo accento va posto, infine, sul coinvolgimento dei movimenti femministi locali.

Il cambiamento climatico è senza dubbio un fattore che amplifica il divario di genere, per motivi, tra i tanti, come il fatto che spesso siano le donne, nelle comunità rurali, a doversi occupare dell’approvvigionamento sempre più difficile di acqua, o che nella maggior parte dei casi non posseggano i terreni su cui lavorano, oppure che siano spesso escluse dai meccanismi decisionali.

Proprio a causa di questo stretto legame tra questione di genere e cambiamento climatico, nei Caraibi stanno sorgendo movimenti, progetti e organizzazioni che portano avanti questo doppio binario di lotta.

Da un lato, troviamo l’azione più istituzionale di organizzazioni come UN WOMEN Caribbean, che ha portato alla pubblicazione di un importante dossier nel 2021, Gender-Responsive Resilience Building in the Caribbean: Understanding the role of knowledge, attitudes, behaviours, and practices in coordination mechanisms for climate change and disaster risk reduction, ha sviluppato progetti come il centro dati sulla violenza di genere Caribbean Women Count e un portale online denominato ParlGenderTools, appositamente elaborato per le parlamentari caraibiche e legato a questioni di genere in vari ambiti politico-sociali.

Molto articolata e variegata è anche l’azione dei movimenti femministi di base. Una realtà interessante è, per esempio, la Caribbean Women in Leadership (CIWiL), nata da un collettivo femminile nel 1988 con l’obiettivo di sostenere l’uguaglianza di genere in tutti i Caraibi e promuovere l’avanzamento delle donne caraibiche nella ricerca, nella partecipazione politica e nella leadership a livello nazionale e regionale attraverso advocacy, corsi di formazione e programmi regionali specifici.

The Breadfruit Collective (TBC), invece, è una ONG con sede in Guyana, che lavora miratamente unendo intersezionalmente questione di genere e giustizia ambientale. Il loro operato è rivolto soprattutto ai giovani, comprendendo educazione sessuale, violenza di genere, tematiche LGBTQIA+ e accesso all’aborto, in costante connessione con la problematica ambientale. Obiettivo primario della ONG è poter offrire a giovani e donne strumenti utili nella lotta contro la crisi climatica, la disuguaglianza e la violenza di genere, spingendo per un cambiamento politico e di leadership e una maggiore inclusività nella lotta, in Guyana e non solo. Come ha sottolineato Christine Samwaroo, Founder e Managing Director del TBC, durante un’intervista per Loop News nel marzo 2024, “il TBC crede che non si possa arrivare a una società funzionante finché essa non crei un rapporto sano e positivo con le donne, le ragazze e l’ambiente. Credo che le donne e le ragazze debbano essere in grado di partecipare pienamente e di vivere liberamente nella società, affinché ci sia giustizia”.

È interessante menzionare anche l’azione di Derval Barzey, attivista trinidadiana e creatrice del poadcast The Climate Conscious, attivo dall’aprile del 2020. Sono principalmente due gli aspetti fondamentali di questo programma, come sottolinea in prima persona Barzey: riempire il “vuoto che ho osservato nel dibattito sul cambiamento climatico; mentre la regione caraibica è in prima linea nel subire gli impatti climatici, l’attenzione internazionale si concentra sul Nord Globale” e “amplificare le voci di esperti, attivisti e imprenditori caraibici, mettendo in risalto le conoscenze locali e le soluzioni nazionali e coinvolgendo e dando visibilità a giovani e donne nella difesa del clima e delle questioni di genere”. Per fare questo, Barzey invita costantemente nelle puntate del suo poadcast attiviste e attivisti locali, esponenti di piccoli movimenti di lotta e rappresentanti della società civile.

In generale, sono numerosi sempre più diffusi collettivi e movimenti di base che uniscono il discorso climatico e quello femminista, e che portano avanti, in praticamente tutti i Paesi della regione, progetti di sviluppo, empowerment e sensibilizzazione, mettendo in risalto il fatto che la giustizia ambientale e quella di genere vadano di pari passo e siano imprescindibili l’una per l’altra.