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La crisi del modello democratico in Senegal

Lamine Ly Mohamed

Come gran parte dei Paesi francofoni della stessa subregione, il Senegal ha ottenuto la sovranità nazionale all’inizio degli anni Sessanta, e il 4 aprile 1960 è la data ufficiale della sua indipendenza.

Riepilogo storico

Si tratta di un Paese che possiede solide tradizioni democratiche che risalgono al periodo precoloniale, e che ha perfino vissuto una rivoluzione politica antischiavista (la c.d. rivoluzione Torodo di Thierno Souleyman Baal) precedente a quella francese. Inoltre, a partire dall’inizio del XIX secolo, rappresentanti della colonia del Senegal vennero inviati presso le istituzioni parlamentari francesi, a seguito di vivaci competizioni elettorali.

Il primo presidente senegalese, Léopold Sédar Senghor, poeta e cantore della negritudine, voleva fare del suo Paese la Grecia dell’Africa nera e sosteneva una tesi che collocava la cultura – e non l’economia – come inizio e fine di ogni forma di sviluppo.

La sua straripante francofilia gli impediva di rendersi conto della pesante tutela neocoloniale della vecchia madrepatria francese, e sarebbe stata all’origine del primo conflitto politico del Senegal indipendente, nel 1962, tra il presidente Senghor e il presidente del consiglio Mamadou Dia, che si concluse con l’incarcerazione di quest’ultimo.

Messo fuori gioco Mamadou Dia, la strada era aperta per una perpetuazione del controllo della Francia sulle economie dei Paesi della vecchia Africa occidentale francese, tramite il sistema monetario basato sul Franco CFA. Sul piano politico, è anche da notare l’ossessione della Francia nel voler mantenere le antiche colonie entro la sfera d’influenza del mondo occidentale.

Per consolidare il suo orticello nell’Africa subsahariana, la Francia istituì, a partire dal 1960, un Segretariato generale della Presidenza della Repubblica per gli affari africani e malgasci, diretto dal potente Jacques Foccart, personaggio centrale di una politica nota col termine di “Françafrique”, con al suo attivo esecuzioni extragiudiziali o colpi di Stato militari. Ciò avrà poi delle ripercussioni sulla vita politica delle giovani nazioni africane, soprattutto in quell’epoca di guerra fredda tra le potenze occidentali, raggruppate intorno agli Stati Uniti, e il campo socialista diretto dall’allora Unione Sovietica.

Un’epoca caratterizzata da una demonizzazione delle forze progressiste che evocava il maccartismo americano di triste memoria, e con un forte ostracismo verso i partiti vicini al movimento comunista, che erano vittime di divieti o combattuti con feroci repressioni, per arrivare in alcuni casi fino alla lotta armata (Camerun). Inoltre, le classi dirigenti del mondo occidentale, convinte che una democrazia rappresentativa pluralista o multipartitica costituisse un lusso per i Paesi africani alle prese con i tormentosi problemi del sottosviluppo, imposero il modello del partito unico o unificato. Questo tipo di governo autoritario avrebbe dato luogo a un fiorire di colpi di Stato, che diventarono per forza di cose l’unica modalità di risoluzione dei conflitti o, peggio ancora, di arrivare al potere. In questo il Senegal ha costituito un’eccezione, non avendo mai vissuto putsch militari.

Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, diventò impellente, per l’Occidente rafforzato dall’inattesa caduta del nemico socialista, poter canalizzare – dove non poteva ostacolarla – l’universale aspirazione delle popolazioni al progresso sociale e alla libertà.

Il 20 giugno 1990 rappresenta una data significativa nel quadro del nuovo approccio strategico, illustrato nel discorso di La Baule dal presidente francese François Mitterrand, con cui si faceva appello ai Paesi africani per un cambiamento di schemi, dal momento che la minaccia comunista sembrava svanita. Fino ad allora, i criteri decisivi di sostegno ai Paesi africani erano stati la preservazione dei regimi ostili al blocco socialista, per mantenere il predominio economico, garantendo l’approvvigionamento delle materie prime. Era necessario, da quel momento in poi, cominciare a prendere maggiormente in considerazione il rispetto dei diritti umani e della democrazia, rispetto alle opinioni pubbliche occidentali. I regimi monopartitici furono obbligati a piegarsi alle esigenze delle potenze occidentali, che caldeggiavano l’affermazione di democrazie rappresentative liberali in quei Paesi, preoccupandosi di mantenere la pace interna ma lasciando intatti i rapporti di dominazione imperialista.

Il momento culminante del modello democratico senegalese

Il Senegal – uno dei pochi Paesi africani a non aver avuto colpi di Stato militari – aveva iniziato molto presto la sua trasformazione democratica, a partire dal 1974, anno in cui ci fu il passaggio dal monopartitismo a un limitato multipartitismo dopo il lungo decennio di ibernazione della democrazia seguito alla crisi politica tra Senghor e Mamadou Dia. Nel 1980 il presidente Léopold Sédar Senghor rassegnò le dimissioni, non potendo più sostenere la pressione dei sindacati e dei partiti di sinistra, e facendo del primo ministro Abdou Diouf il proprio successore, cui cedette il seggio presidenziale grazie a un artificio che costituiva una forzatura delle leggi costituzionali del 1976.

Il presidente Abdou Diouf sarebbe rimasto in carica per due decenni, durante i quali si affermarono due tendenze contrastanti. Da un lato l’ampliamento degli spazi politici e civili (pluripartitismo completo, nascita di molti sindacati autonomi, pluralismo dell’informazione) e dall’altro una liberalizzazione sfrenata delle politiche pubbliche con programmi di aggiustamento strutturale, seguendo la parola d’ordine “meno Stato per uno Stato migliore”.

Grazie alla lotta portata avanti dal movimento democratico nazionale, ci fu un progressivo rafforzamento dell’affidabilità dei procedimenti elettorali (identificazione degli elettori, segretezza del voto, migliore controllo delle schede), consentendo il verificarsi della prima alternanza democratica, il 19 marzo 2000, con l’elezione di Abdoulaye Wade. L’alternanza nasceva dal desiderio di risolvere lo spinoso problema delle istanze sociali, acuite dai programmi di aggiustamento strutturale del precedente regime socialista, ma soprattutto di approfondire il processo democratico, attuando un riequilibrio istituzionale e ponendo fine all’eccesso di concentrazione di poteri nelle mani del presidente della Repubblica. Purtroppo il presidente Wade, invece di smantellare il sistema iperpresidenzialista, avrebbe rafforzato le proprie prerogative con la nuova costituzione, votata in occasione del referendum del 7 gennaio 2001.
Una seconda alternanza senza un vero cambiamento

È così che, nel 2012, si è giunti alla seconda alternanza democratica senegalese, dopo la vittoria di Macky Sall sul presidente Wade al secondo turno delle elezioni presidenziali. Per compensare la giovinezza e l’inesperienza della sua formazione politica, Alliance pour la République, il nuovo presidente si convinse che la condizione obbligata per la sopravvivenza del nuovo regime era l’attuazione di una vasta coalizione, secondo il motto “vincere insieme e governare insieme”.

Di fatto, la collusione di interessi avrebbe permesso alla coalizione BBY (Brenno Bokk Yakaar) una longevità tanto eccessiva quanto nefasta, e avrebbe reso tale coalizione una delle più forti e unanimiste della storia politica del Senegal. Ci si rese ben presto conto che il nuovo governo non aveva alcuna intenzione di procedere alle riforme democratiche indicate a conclusione delle Assise nazionali, nel 2009, col progetto della nuova costituzione e con le successive raccomandazioni della C.N.R. (Commissione nazionale per le riforme istituita dal presidente Sall), mirate non solo a migliorare la governance sociale e politica ma anche a instaurare l’equilibrio e la separazione dei poteri.

La caduta nell’abisso dell’autoritarismo

Il governo della coalizione BBY, sotto la leadership del presidente Macky Sall, è stata contrassegnata da:

  • scoperta di giacimenti di gas e petrolio, che fanno sperare ritorni economici importanti per il 2025-2026
  • giudiziarizzazione politica e criminalizzazione dei rappresentanti dell’opposizione, ingiustamente dipinti come terroristi
  • accentuata strumentalizzazione delle istituzioni parlamentari e giudiziarie, con la conseguenza di frequenti manipolazioni di testi di leggi o della Costituzione e dell’incarcerazione di migliaia di militanti politici e attivisti.

In questi ultimi anni, la gioventù senegalese è stata raggiunta dall’onda lunga dell’anti-imperialismo che cerca di spezzare i legami con le vecchie potenze coloniali, e in particolare con la Francia. Questa aspirazione al cambiamento è rappresentata da numerose forze politiche, la più importante delle quali appare attualmente il PASTEF (partito fondato nel 2014), vittima di una implacabile persecuzione e catalogato come nemico pubblico numero uno del regime di Macky Sall. Di fatto, questa formazione politica, che raccoglie le speranze di ampie fasce della gioventù senegalese, è stata messa al bando il 31 luglio 2023, tre giorni dopo l’arresto del suo leader Ousmane Sonko, che ha raggiunto in prigione altre centinaia di militanti del suo partito.

Va detto che l’arresto di Ousmane Sonko è stato l’atto finale di una lunga sceneggiata politico-giudiziaria iniziata tra febbraio e marzo del 2021, in piena crisi Covid-19.  All’epoca, il leader del PASTEF si trovava al centro di una questione morale, per le accuse di stupro avanzate da una giovane massaggiatrice. Il tentativo delle autorità giudiziarie di condannarlo al carcere, mentre il caso aveva tutta l’aria di essere stato costruito a bella posta (d’altronde sarebbe stato assolto dalle imputazioni di stupro e di minacce di morte), avrebbero poi scatenato violente agitazioni con vittime, che paradossalmente avrebbero favorito la carriera politica dello stesso Ousmane Sonko, che era arrivato terzo nelle elezioni presidenziali del 24 febbraio 2019.

IL PUTSCH COSTITUZIONALE DEL 3 FEBBRAIO 2024

All’inizio di febbraio del 2024, la situazione del Senegal ha attirato l’attenzione mediatica a livello internazionale. Mentre si preparavano a recarsi alle urne – la data fissata era il 25 febbraio – i cittadini senegalesi hanno assistito a una specie di colpo di Stato costituzionale da parte di Macky Sall, che ha rinviato a data da destinarsi le elezioni, un fatto mai visto negli ultimi sessant’anni.

Tutto è iniziato con la contestazione, da parte di numerosi  candidati, del processo di convalida delle candidature, che aveva dato luogo a molte controversie essenzialmente legate all’incertezza sulla valutazione dei risultati del “patronato cittadino” (una modalità di preselezione dei candidati col patrocinio di un certo numero di elettori, istituito con una legge del 2018), ma anche all’eliminazione dalla competizione elettorale di due candidati che avevano più di una cittadinanza, uno dei quali è Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade.

Il 3 febbraio il presidente Macky Sall ha emesso, qualche ora prima dell’apertura della campagna elettorale, un decreto di annullamento della convocazione del corpo elettorale, rinviando così sine die l’elezione presidenziale. Due giorni dopo, la maggioranza dei deputati ha votato una legge per rinviare le elezioni alla data del 15 dicembre 2024. Ma un nuovo colpo di scena si è verificato il 15 febbraio, quando il Consiglio costituzionale, la più alta autorità giudiziaria del Paese, ha smentito il presidente della Repubblica e i deputati della maggioranza, oltre a quelli del Partito democratico senegalese.

In particolare, il Consiglio ha respinto il decreto presidenziale del 3 febbraio che abrogava la convocazione del corpo elettorale e anche la legge di deroga alle disposizioni costituzionali votata dall’Assemblea nazionale il 5 febbraio 2024.

Da allora, il Senegal sta vivendo una crisi politica profonda e senza precedenti, che mette a repentaglio il modello democratico senegalese.

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Foto Credits : Jeff Attaway from Abuja, Nigeria, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons