Globalizzazione, conflitti e conquiste
Prendersi cura di una foresta è un compito più complesso della semplice cura un albero, perché volendo coltivare un solo albero a un certo punto ci rendiamo conto che l’ambiente che lo circonda – cioè l’ecosistema di cui l’uomo è solo uno dei tanti elementi – è la chiave della sua riuscita. Si apre così una realtà complessa i cui equilibri sono minacciati. Il capitolo precedente, “Globalizzazione e conflitti” è stato un’introduzione al contesto per comprenderne le complessità, conoscenza senza la quale è impossibile comprendere quell’ ecosistema complesso e in continuo movimento, per indirizzarlo verso il futuro che vogliamo.
Pertanto partiamo dalla comprensione della globalizzazione per inquadrare il contesto generale, con una complessità tanto dettagliata da poter andare in ogni regione, luogo e praticamente in ogni città, quartiere, fino ad alcune famiglie specifiche, così che il puzzle delle voci messe a tacere inizi a ricomporsi, per ricostruire ingiustizie e dolori che non vogliamo dimenticare. Come la memoria di chi è stato storicamente escluso, quella dei perdenti soggetti al dominio dei più forti – come propone Foucault nel suo approccio genealogico – che ci permette di comprendere come è stato gestito il potere da parte di chi l’ha avuto e messo in pratica dominando sugli altri. Una ricostruzione non per la storia universale, perché questa è fondamentalmente raccontata dai vincitori e ignora le ingiustizie e gli abusi di alcune culture rispetto ad altre. È piuttosto una ricostruzione fatta in modo che la storia globale, che inizia ad armonizzarsi, parta da una storia pluriversale o interuniversale, dettaglio a cui arriveremo dopo (Foucault, 2008).
Il punto che per ora deve essere chiaro è che il dialogo tra la storia degli oppressi e quella dei vincitori-oppressori è necessario per poter mettere in evidenza quei cliché nei rapporti umani che oggi non permettono di superare ingiustizie e disuguaglianze. È l’atteggiamento di una regione del nord globale e di alcuni suoi individui, che continuano a cercare di imporsi sul sud globale e su quelle parti del nord globale che si oppongono a questa gestione del futuro del mondo da parte delle egemonie.
Il seme della globalizzazione porta purtroppo con sé una caratteristica identità conquistatrice. Idea che implica il riconoscimento del suo intento colonizzatore, uno degli atteggiamenti prevalenti nel medioevo, all’origine della globalizzazione nella sua forma nascente, che ancora oggi perdura. Cos’è l’intento colonizzatore? Potremmo dire che è l’intento di varie civiltà – e degli individui che le hanno guidate e che le guidano – di conquistare i vicini territori di altri imperi, popoli o civiltà. Atteggiamento che la storia dell’umanità ha mostrato fin dagli albori delle prime civiltà. A che scopo? Per avere più terra, più raccolti, più ricchezze, più schiavi, vassalli, per controllare i punti chiave del mercato, perché sono simboli culturali, e per tutte quelle ragioni con cui ogni civiltà ha giustificato la sua invasione di un’altra.
Voglio portare un esempio un po’ grossolano, ma molto coerente con la nostra natura animale, che però ha perso la saggezza che la natura porta con sé. Se osserviamo i branchi delle leonesse con i loro leoni, vediamo non solo che questi segnano il proprio territorio da generazioni, ma anche che i leoni vicini sanno dove non entrare per non iniziare un conflitto che potrebbe portarli alla morte. La saggezza permette loro di distinguere dove possono arrivare e dove no; tuttavia, se sono costretti a spostarsi a causa di un evento naturale estremo, o di qualsiasi situazione stressante, ciò porterà a un conflitto, e il risultato di quella lotta di potere stabilirà un nuovo ordine di controllo territoriale. È in questa seconda parte, quella dello sfollamento forzato, che l’umanità trova, secondo me, un punto di confronto valido: il conflitto alla fine arriverà, il problema è come si reagirà ad esso. La reazione al conflitto in molti casi rimane violenta; l’umanità ha cercato di costruire forme politiche, legali e normative per non arrivare fino a questo punto, ma non è stato sufficiente. Perché? Ci sono alcuni individui che, facendo parte di queste egemonie come capitani al comando di una nave, credono ancora nella violenza come mezzo di controllo, come modo per generare un’omogeneità di comportamenti con cui pensano di mantenere la pace nei loro territori o di controllare gli individui. Questa omogeneizzazione culturale richiede secoli, e le religioni sono uno degli esempi più chiari del tentativo di imporre le proprie forme, specialmente alcune religioni più violente di altre, con aspetti che costringono altre culture a credere nelle loro tematiche e quindi a fare ciò che è dettato nei loro libri sacri.
Ci sono vari esempi di questi conflitti, che chiameremo di imposizione culturale, anche prima del 1492, come i secoli delle invasioni dei templari, le cosiddette Crociate in Medio Oriente, che cercavano di conquistare la terra sacra del cristianesimo, Gerusalemme. Questo evento rappresentò un facile capro espiatorio che allineò le monarchie europee sullo stesso obiettivo, e quelli che non lo condividevano subirono la disumanità delle torture dell’Inquisizione. Potremmo dire che questo evento, altamente conflittuale, influenzò anche l’Illuminismo, che viene considerato dalla Storia universale come il risveglio dello Stato dal controllo della Chiesa. Un atteggiamento che generò un’avanzata ancora più rapida delle idee libertarie e antimonarchiche che si consolidarono nel 1789 con la Rivoluzione francese, ma di cui già si trovava traccia nella guerra civile americana di un decennio prima, e nelle innumerevoli resistenze del sud globale ai primi contatti con l’Occidente. L’Asia e l’Africa emergono qui come due continenti con una storia ancora da raccontare, perché anche se il mondo non era globalizzato, questi continenti hanno sofferto del costante assedio delle monarchie europee in cerca di ricchezze locali.
Al di là dei vari esempi della caratteristica natura conquistatrice con cui ha avuto inizio la globalizzazione, quello che voglio lasciare come contributo a questa definizione è che, se si è consapevoli di quella caratteristica, ci si rende conto che questa è la forma della globalizzazione interculturale relazionale che avvantaggia solo un lato della relazione, quella della cultura dominante. Con questa consapevolezza della coscienza storica, cosa dovremmo fare per costruire un’altra forma di globalizzazione? Una possibilità sarebbe quella di partire dalla trasformazione di questa caratteristica monarchico-medievale, per non cadere in atteggiamenti che la replichino. Forgiare una nuova globalizzazione, che cerchi l’equità nei benefici delle relazioni culturali, non solo è complesso, ma è anche l’ideale di ciò che definiamo una globalizzazione interculturale critica.
Nei capitoli futuri descriveremo in dettaglio cos’è l’interculturalità e che cosa intendiamo parlando di interculturalità relazionale, o interculturalità funzionale o interculturalità critica. Per ora, vediamo quanto possiamo andare avanti senza entrare nel dettaglio di questa complessa conoscenza delle relazioni umane e del rapporto con la natura.
Nel frattempo è importante collegare a quella globalità e ai suoi conflitti parte della genesi del pensiero critico che da millenni cerca di controllare le tendenze violente dell’umanità, e quindi l’abuso di potere. Dai greci ci sono stati tramandati scritti come la Repubblica di Platone, dove sono trattati nel dettaglio i temi relativi a quel concetto di conflittualità, con riflessioni sul da farsi. E poi la costruzione della giustizia, come concetto che precede i greci e che questi mutuarono da civiltà all’epoca più avanzate come gli egizi, e che attraversa un percorso complesso, come quello che accompagnò l’impero romano. Ma anche come spartiacque tra la costruzione della giustizia occidentale e altre forme di giustizia, come quelle che hanno resistito in Asia e in Africa in culture con punti molto chiari su questo argomento, ma che ancora non sono state ben comprese, né studiate, né sono parte di quella conoscenza che si dice universale. Questo dettaglio ci porterà a un crocevia millenni dopo, perché attualmente l’auto-giustizia, termine che identifica la giustizia dei nostri nativi americani, ha dilemmi troppo complessi per essere riconosciuti da quel mondo occidentale professionalizzato. Blocco concettuale ed epistemico che impedisce che molti conflitti locali si risolvano con il sostegno di forme di giustizia locali, in dialogo con la giustizia del sapere occidentale. Questo dialogo è una parte fondamentale della differenza tra i tipi di interculturalità, perché è teorizzato come orizzontale, non prevede una conoscenza superiore alle altre, per cui la scienza e la tecnologia non sono altro che conoscenze a cui dare la possibilità, unitamente ad altre conoscenze locali e attraverso un cambiamento relazionale, di costruire futuri diversi per ogni conflitto, per produrre conoscenze emancipate, che raggiungano un punto desiderato, oltre a cercare la soluzione dei conflitti stessi. Lo sguardo è volto alla trasformazione, e non alla risoluzione dei conflitti, perché nel nostro sguardo il conflitto cambia e si trasforma, ma non scompare. I conflitti fanno parte della vita, e fingere di viverla senza di essi vuol dire mentire a noi stessi.
E qui il rapporto tra globalizzazione e giustizia implica la memoria delle impunità che ancora oggi ci interrogano su cosa fare della giustizia. Le disuguaglianze con cui partecipano alla globalizzazione intere culture e popoli, come il mondo africano, le comunità delle foreste e quelle del deserto, il mondo rurale, costretti ad essere schiavi e trattati in modo razzista, continuano a escluderli dal libero sviluppo, vittime delle varie geopolitiche che li hanno oppressi e continuano a opprimerli. È un dato di fatto che lo sviluppo abbia escluso molti a beneficio di alcuni. Come cambiare questa tendenza, che è diventata culturale? Un percorso di cambiamento può essere parte di ogni nuovo individuo che prenda consapevolezza della situazione e della sua creatività, per trasformare le relazioni oppressive in nuove forme relazionali, che partano dal rispetto per gli altri e per le altre culture. Da lì potremo aggiungere altri valori a un nuovo modo di relazionarci.
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Foto Credits: Morten Oddvik, Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0) attraverso Flickr