Perché un gran numero di indiani sta lasciando il Paese
Se l’immigrazione non fosse esistita, si sarebbe dovuto inventarla per il progresso dell’umanità. Sin da quando l’uomo è apparso sulla terra, il movimento di persone da un luogo all’altro è uno dei fenomeni più antichi. In epoca moderna, si trova testimonianza della prima migrazione su larga scala nel XIX secolo, un secolo in cui milioni di persone hanno viaggiato da un continente all’altro. Il fenomeno si è ulteriormente accentuato nel XX secolo, quello che il romanziere Salman Rushdie ha definito “un secolo di migranti”. Dopo la Seconda guerra mondiale, la seconda metà del Novecento ha conosciuto un’altra ondata di spostamenti da un continente all’altro in cerca di lavoro e sicurezza.
Ma il XXI secolo ha visto emergere una diversa ondata migratoria, in cui è difficile distinguere tra rifugiati e immigrati: ancora oggi, milioni di persone continuano a rischiare la vita in Africa e in Asia attraversando mari, oceani e fiumi in nome di un futuro migliore. Nel mondo volatile e anarchico di oggi, potrebbero esserci dozzine di ragioni per cui le persone abbandonano il luogo di origine e migrano verso altre mete, conosciute o sconosciute che siano.
L’India ha una lunga storia di migrazione. Più di un secolo fa, un gran numero di migranti indiani si trasferì in Africa, nei Caraibi e all’interno del subcontinente indiano, e molti lo fecero contro la propria volontà. Oggi un migrante internazionale su venti è indiano. Soltanto a causa della carneficina che precedette e seguì l’indipendenza del Paese, milioni di persone furono costrette a lasciare le case dei loro avi, la progenie, gli amici, i loro cari e i vicini per stabilirsi in uno spazio territoriale sovrano di nuova creazione (Pakistan).
Più tardi, nei primi anni 1970, l’ascesa del petrodollaro sulla scia del boom petrolifero nei Paesi del Golfo Persico ha nuovamente indotto milioni di indiani a spostarsi in quell’area in cerca di lavoro, e oggi i Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC) ospitano tra i nove e i dieci milioni di indiani. C’è stato un costante aumento del numero di indiani che raggiungono i paesi ricchi di petrolio: da 300.000 nel 1973 a 2,15 milioni nel 1993, a 3,5 milioni nel 2000, a 5 milioni nel 2011, fino agli attuali 9 milioni. Questi lavoratori immigrati sono la principale fonte di rimesse per il Paese, che oggi valgono cento miliardi e costituiscono il 3% del PIL, il che fa dell’India il più grande destinatario di rimesse al mondo. Ma nel frattempo il loro status rimane quello di lavoratori espatriati, e prima o poi si trovano a dover rientrare in India.
Ma negli ultimi anni, un nuovo modello di immigrazione sta prendendo piede tra gli indiani, che non solo abbandonano la loro patria in cerca di una nuova destinazione ma rinunciano anche alla loro cittadinanza. Questo accade nel momento in cui l’India, grazie al suo controverso Citizenship Amendment Act (CAA) del 2019, ha aperto le braccia ai migranti indù, sikh, buddisti, giainisti o parsi.
Secondo un recente rapporto del Ministero degli Affari Esteri, dal 2011 1.663.440 indiani hanno rinunciato alla loro cittadinanza, tra cui 225.620 solo nel 2022, quasi il doppio della cifra registrata nel 2015. Ciò significa che ogni giorno 618 indiani riconsegnano i loro passaporti, il che costituisce un fenomeno alquanto allarmante. Nel 2020 (l’anno del COVID-19), 85.256 indiani hanno deciso di rinunciare alla loro cittadinanza; nel 2021 questa cifra ha raggiunto quota 163.370, mentre nel 2019 gli indiani che avevano restituito il passaporto erano stati 144.017. Ad eccezione dell’anno segnato dal COVID, possiamo vedere che la cifra è in costante aumento. Tra coloro che hanno rinunciato alla cittadinanza, il 40% ha ricevuto quella statunitense, mentre il resto è diretto verso Regno Unito, Australia e Canada. In confronto a questo rapido deflusso, solo 10.645 persone provenienti da 87 paesi hanno richiesto la cittadinanza indiana tra il 2016-2020 e la maggior parte di questi sono immigrati provenienti da Pakistan e Afghanistan che hanno fatto domanda dopo l’approvazione del CAA.
È un dato di fatto che coloro che stanno emigrando sono in genere benestanti, e molti di loro appartengono alle classi più agiate. Nel 2023, circa 6.500 milionari dovrebbero lasciare il paese, mentre nell’anno 2020 erano stati 7.000: in termini di deflusso di milionari, l’India è seconda solo alla Cina.
Negli ultimi 14 anni, circa 61.000 milionari hanno lasciato il Paese. La maggior parte di essi parte per gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’Australia, Dubai e Singapore, noto come “la quinta città dell’India”, dal momento che a Singapore le aliquote fiscali individuali sono molto più basse che in India ed è considerato un paradiso fiscale. I milionari se ne stanno andando a causa di un ambiente sfavorevole agli imprenditori, come una legislazione fiscale proibitiva combinata a regole di mercato convolute, e delle complesse procedure di investimento per gli indiani non residenti (NRI), oltre a una serie di altre ragioni più o meno importanti. Questo accade mentre l’India sta puntando a diventare un’economia da cinquemila miliardi di dollari nei prossimi anni. Sembra che i ricchi si siano trasformati in secessionisti, e che il nazionalismo o il patriottismo siano diventati un fardello dei poveri.
Oltre a quella dei benestanti più ricchi, c’è un’altra categoria di studenti che guarda all’estero per le opportunità di un futuro economicamente migliore. Si segnalano molti casi di brillanti studenti in uscita dal Paese: durante i due decenni compresi tra il 1996 e il 2015, la metà dei primi classificati agli esami di 10ma e 12ma classe della secondaria superiore nelle migliori scuole pubbliche dei grandi centri urbani è emigrata all’estero e, dopo aver proseguito gli studi, oggi vi ha trovato lavoro, per lo più negli Stati Uniti. Solo nel 2019, il 70% degli studenti della 10ma classe di due scuole private di alto profilo della capitale è partito per l’estero. È stato inoltre notato che l’80% di chi si reca all’estero per motivi di studio non ritorna, a causa delle migliori prospettive di lavoro nei Paesi di destinazione.
Ciò che colpisce anche di più in questo esodo è la crescente urgenza tra le minoranze – come quella musulmana e cristiana – di lasciare il Paese. Nel corso degli anni, c’è stato un aumento sproporzionato dell’emigrazione tra i musulmani indiani: una tendenza che si può attribuire alla crescente stagnazione economica, all’aumento delle violenze religiose e tra comunità, ai casi quotidiani di discriminazione ed emarginazione dallo spazio pubblico che causano un prevalente senso di insicurezza e incertezza, fungendo così da catalizzatori per l’esodo. Abdullah (il nome è fittizio), che ha recentemente spostato la sua residenza in Turchia con l’intenzione di chiedere in seguito la cittadinanza, afferma di aver trasferito la sua famiglia per dare una buona istruzione ai suoi figli e per tenerli lontani dal divisivo discorso sociopolitico e religioso quotidiano. Allo stesso modo, Aamir dice che vivere qui non è più un compito facile, a causa delle crescenti divisioni politiche e religiose nella sfera pubblica che rendono insostenibile restare in India. Aamir ha già fatto domanda di residenza permanente in Canada come lavoratore qualificato. Un’altra donna, già emigrata in Australia, afferma di non voler vedere i suoi figli crescere ascoltando chi fa discriminazioni su base religiosa e subendo a più riprese i contraccolpi dovuti alla loro religione.
La Turchia sembra essere la destinazione più ambita tra i musulmani indiani che stanno lasciando il Paese o hanno intenzione di farlo in futuro. Iniziano facendo prima importanti investimenti nel settore immobiliare, e acquistando poi appartamenti alla periferia di Istanbul, Smirne o Ankara con l’intenzione di richiedere la cittadinanza o la residenza a lungo termine. Le nuove leggi in Turchia consentono ai cittadini stranieri di acquistare immobili per un valore di 31 milioni di rupie, ottenendo così la cittadinanza turca.
Data l’attuale quantità di indiani ricchi e istruiti in uscita verso altri Paesi sviluppati, si possono dunque identificare molteplici ragioni che spingono i diversi gruppi di migranti a lasciare la terra dei loro padri. Ma ci sono anche alcuni fattori comuni a tutti gli emigranti che operano come fattori di spinta, e che includono la mancanza di un ambiente pacifico, la diffusione orizzontale e verticale di un contesto ostile e violento, l’aumento esplicito delle disuguaglianze economiche e dell’instabilità, il declino delle opportunità economiche e i rischi per la salute dovuti al crescente inquinamento e a condizioni igieniche precarie. Secondo il Central Pollution Control Board, circa il 60% delle fonti d’acqua dell’India è caratterizzato da una scarsa “domanda biochimica di ossigeno”, un indicatore di inquinamento organico. Un gran numero di indiani è alla disperata ricerca di cittadinanza all’estero per le migliori prospettive economiche ed educative; cercano anche una vita pacifica, lontano da condizionamenti sociopolitici o da forme di controllo eccessivo. La maggior parte delle coppie di lavoratori che hanno già lasciato il Paese è del parere che la classe dirigente non tenga in considerazione le costrizioni familiari e non offra alcun margine di manovra. Una cultura avversa al lavoro ha anche costretto molti a cercare opzioni all’estero. Uno degli esperti in materia, Hilal Ahmad, ha affermato che le ragioni per rinunciare alla cittadinanza indiana includono la mancanza di buona politica, un ambiente sociale ed economico avverso e il rapido aumento della criminalità.
Per la maggior parte degli indiani che scelgono di stabilirsi all’estero, gli Stati Uniti sembrano essere la prima scelta, anche perché nei Paesi dell’Asia occidentale e nel sud-est asiatico le leggi sulla cittadinanza sono molto severe, nonostante il fatto che il maggior numero di indiani vivano lì come lavoratori espatriati. Avendone la possibilità, tutti vorrebbero trasferirsi negli Stati Uniti, considerati, a detta di un esperto, la terra dei coraggiosi e delle persone libere, dove si può respirare una boccata d’aria fresca, in cui si può mangiare, bere, indossare e credere ciò che si vuole.
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