È vero che la cooperazione allo sviluppo non riesce a generare cambiamento sociale? Riflessioni sulla parità di genere
Nonostante la cooperazione allo sviluppo abbia fatto enormi passi in avanti nell’ultimo ventennio con l’adozione di obiettivi condivisi e di programmi studiati per affrontare i maggiori problemi relativi al benessere delle popolazioni, la scarsa efficacia delle politiche di sviluppo è un tema molto discusso che rischia di scoraggiare l’aumento delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo da parte dei maggiori paesi donatori.
Nel mese di Marzo 2023 il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, in occasione della giornata della donna, ha dichiarato, con malcelato sconforto, che occorrerebbero ancora trecento anni per raggiungere l’obiettivo della parità di genere, secondo le stime più recenti delle Nazioni Unite.
Per quale motivo è così difficile promuovere il cambiamento nella direzione di una società giusta ed inclusiva, come quella promossa dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro e riflettere sulle traiettorie che descrivono il cambiamento sociale, mettendole a confronto con le aspirazioni dei progetti di cooperazione allo sviluppo che quel cambiamento intendono promuovere.
Michael Woolcock, sociologo, ricercatore alla Banca Mondiale e docente di sviluppo all’Università di Harvard, pone la questione con un ragionamento che getta luce sulla necessità di rimodulare le aspettative dell’impatto dei progetti di cooperazione.
Il cambiamento sociale dipende da molteplici fattori sia interni, propri dell’architettura del progetto, sia esterni, propri del contesto in cui i progetti si sviluppano.
Mentre i fattori interni sono facilmente controllabili e dipendono dalla qualità della progettazione, per ciò che riguarda i fattori esterni occorre considerare i vari contesti ed il loro grado di complessità, per avere una proiezione delle difficoltà da affrontare nella lotta alla povertà. Più i contesti sono fragili ed esposti a dinamiche di conflitto, più difficile sarà che le azioni promosse dai progetti di sviluppo diano risultati visibili nel breve periodo e anche durevoli nel tempo.
La complessità, inoltre, aumenta quando i progetti lavorano sulle dinamiche socio-culturali delle società in cui la cooperazione opera, dinamiche che, storicamente, assumono traiettorie di cambiamento difficili da predire.
Ad esempio, una riforma legislativa che promuova l’estensione del diritto di eredità alla donna come parte di un progetto di cooperazione che mira alla parità di genere in una società fortemente patriarcale, potrebbe invece nell’immediato provocare un peggioramento della qualità della vita delle donne, causato dall’opposizione della componente maschile al cambiamento. Prima che da questo iniziale peggioramento si registri una risalita della qualità della vita femminile – cioè prima che il progetto di sviluppo mostri il suo impatto positivo – potrebbero passare molti anni, forse decenni. In questo caso la traiettoria del cambiamento assumerebbe una curva negativa, prima di risalire per puntare verso la parità di genere.
Oppure potrebbe succedere che i progetti di sviluppo in favore della parità di genere non sembrino inizialmente sortire alcun effetto, come se il contesto sociale in cui il progetto si colloca accettasse la prevaricazione dell’uomo, fino ad un momento in cui il cambiamento avviene all’improvviso, in modo inatteso. È il caso del movimento Me too contro la violenza sulle donne nel mondo dello spettacolo e sul luogo di lavoro, che solo recentemente si è affermato negli Stati Uniti ed in tutto il mondo grazie ai social media.
Per spiegare questa particolare traiettoria di cambiamento, che in un grafico apparirebbe come una linea piatta fino al picco di ascesa, Woolcock usa la metafora dello scalpellino che batte la pietra cento volte con il suo strumento senza che accada nulla, fino al centunesimo colpo quando la pietra si spacca. La pietra spaccata, con ogni evidenza, non è il frutto dell’ultimo colpo ma della somma dei colpi sferrati in precedenza, che solo apparentemente non producevano alcun effetto. Così anche per un cambiamento sociale, che può verificarsi all’improvviso dopo anni di input apparentemente caduti nel vuoto.
Questi esempi mostrano come l’impatto di quei progetti che implicano un cambiamento socio-culturale e la modifica delle abitudini di una società e delle sue strutture o istituzioni sociali non sia quasi mai lineare e costante come i progetti di sviluppo prevedono nella loro architettura.
Per realizzare l’impianto dell’Agenda 2030, il cambiamento sociale potrebbe quindi presentare traiettorie negative o piatte, pur essendo già in corso, ma invisibile e sotto traccia come l’azione dello scalpellino sulla pietra prima che essa si rompa.
Il problema dell’efficacia dell’aiuto, dunque, è forse mal posto se l’aspettativa di un impatto positivo lineare e costante diventa parte integrante dell’impianto progettuale finanziato dalla cooperazione allo sviluppo.
In altri termini, non è l’aiuto che non funziona ma il modo in cui guardiamo al suo effetto e l’aspettativa che certi processi di cambiamento in contesti complessi si realizzino in breve tempo, o comunque nell’arco temporale del progetto, che di solito dura pochi anni.
Se questa analisi è vera, bisogna prendere atto che chi si occupa di cooperazione allo sviluppo, sia a livello di policy che di esecuzione dei progetti, dovrebbe accettare, lavorando in contesti fragili, di non essere in grado di sapere quando, a seguito di uno o più input esterni, il cambiamento sociale si verificherà ed abbracciare con fiducia la speranza che il “centunesimo colpo” prima o poi produrrà l’effetto desiderato, senza abbandonare il processo di spinta per mancanza di risultati evidenti ed immediati.
Questo atteggiamento di fiducia da parte dei donatori e degli operatori di sviluppo in genere è reso difficile da una narrativa che pone enfasi sulla necessità di raggiungere un risultato visibile a fronte di un investimento erogato attraverso la cooperazione allo sviluppo. È il cosiddetto Result-Based Management, un modello di gestione e di valutazione delle performance dei progetti che punta a mettere in risalto il raggiungimento dei risultati prodotti a seguito del progetto, trascurando però l’importanza dei processi che quei cambiamenti – così difficili – generano più lentamente.
Nel suo libro più recente Nicoletta Stame, esperta di valutazione di rilevanza internazionale, ricorda che la valutazione dei progetti di sviluppo ha sempre alternato periodi in cui prevale un’attenzione ai processi a periodi in cui si punta tutto sul risultato e che la contrapposizione tra le due visioni è artefatta, perché nella pratica il risultato avviene a seguito di un processo ed il processo è valido se confermato da un risultato, per cui la logica suggerisce che occorra guardare ad entrambi gli aspetti. Ma in che modo? Michael Woolcock, in un interessante articolo che sembra raccordarsi bene con le affermazioni di Stame, suggerisce la necessità di osservare il progetto nel suo divenire, ripensando al monitoraggio e rendendolo uno strumento in grado non solo di controllare che il progetto stia procedendo secondo quanto stabilito nel suo piano, ma anche e soprattutto in grado di leggere il cambiamento, allargando il suo raggio di osservazione dal progetto alla realtà sociale in cui esso si dispiega. Per fare ciò occorre cogliere tre “fatti chiave”, che ci aiutano a rapportarci al cambiamento in esame con minore astrazione e maggior concretezza.
Questi “fatti” che devono guidare l’osservazione dei processi di cambiamento per Woolcock sono a) la densità causale; b) la capacità di implementazione; c) le aspettative ragionevoli. Per densità causale si intende il livello di complessità di un determinato progetto all’interno di un determinato sistema, dato dalla numerosità delle cause che generano il problema da affrontare. Più alta è la densità causale, più complesso è un sistema e più difficile sarà affrontare le debolezze che quel sistema esprime. Ad esempio, un progetto che promuove misure contro la trasmissione dell’HIV è un progetto caratterizzato da elevata densità causale, perché la scelta dei beneficiari di modificare le proprie abitudini sessuali per prevenire il contagio dipende da una molteplicità di fattori che è difficile controllare. L’impatto del progetto ed il suo successo sono infatti dipendenti sia da fattori motivazionali propri dei partecipanti che da fattori esterni che ne impediscono le capacità, come la disponibilità o meno di dispositivi per la prevenzione delle malattie veneree. Un tale progetto è definito complesso, perché si confronta con quelle che Woolcock chiama le “istituzioni sociali” di un sistema e con le abitudini e i modi di percepire e interpretare il problema da affrontare.
Al contrario, il progetto di una campagna di vaccinazione per eradicare il morbillo è considerato semplice perché prevede l’utilizzo di una tecnologia conosciuta e data – il vaccino – che occorre solo reperire, e l’organizzazione di un sistema che assicuri la somministrazione del vaccino alla popolazione target. Per quanto questo progetto possa presentare alcune sfide logistiche nella esecuzione materiale della campagna di vaccinazione in zone remote o scarsamente abitate, si tratta di difficoltà superabili con una buona organizzazione, e non si dovrebbero incontrare resistenze da parte dei beneficiari, i quali hanno tutto l’interesse a ricevere il vaccino. Se dunque in un progetto semplice la capacità di implementazione è elevata, è ragionevole aspettarsi di ottenere un buon risultato (la campagna di vaccinazione effettuata su tutta la popolazione) e un impatto a distanza di un tempo determinabile, come l’eradicazione della malattia dalla zona in un anno.
Se invece il progetto è complesso, come ad esempio la prevenzione dell’HIV, anche in presenza di una buona capacità di implementazione non è affatto certo che alla fine del ciclo di vita del progetto il cambiamento sia visibile, perché esso è esposto a più fattori che concorrono a minare la capacità del progetto di produrre il suo risultato, e dunque di generare il cambiamento, facendo leva sulle abitudini delle persone e sulla fiducia che il progetto esprima la soluzione adatta al problema.
Nei contesti complessi, come lo sono la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, e per i progetti complessi, come quelli che modificano le istituzioni sociali, leggere il cambiamento è una sfida che la cooperazione allo sviluppo non ha ancora imparato a gestire.
Nel tentativo di garantire l’efficacia dell’aiuto, la cooperazione si orienta verso una sempre maggiore attenzione alla capacità di implementazione, tecnicizzando i processi di cambiamento e astraendoli da quelle variabili che appartengono a dimensioni non controllabili dei processi di cambiamento, come i desideri delle persone, le motivazioni irrazionali alla base delle scelte, i sentimenti e le passioni. Eliminando i fattori di complessità dalla progettazione e dalla teoria del cambiamento, il progetto si dispiega in un’area astratta, che concepisce il cambiamento come risultante dell’azione progettuale in un determinato lasso di tempo.
La realtà, tuttavia, è diversa e più complessa, e le traiettorie di cambiamento non sono quasi mai lineari e in costante ascesa. Ciò determina frustrazioni e diffidenze che generano una narrativa centrata più su ciò che non funziona nella cooperazione allo sviluppo che sul cambiamento che si intende generare e che è un processo tortuoso, a volte lento, a volte repentino.
Gioverebbe forse valutare l’efficacia dell’aiuto affidandosi maggiormente agli strumenti qualitativi propri della sociologia, che sa leggere ed interpretare il cambiamento, abbracciare l’incertezza e la complessità del mondo in cui viviamo e adottare un atteggiamento più fiducioso, attento ai processi di medio-lungo periodo, per comprendere quale sia l’impatto dei progetti di sviluppo.
Foto Credits: UNICEF Ethiopia. Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0) attraverso Flickr