In libreria – The Palgrave Handbook of Globalization with Chinese Characteristics: The Case of the Belt and Road Initiative
A cura di Paulo Afonso B. Duarte*, Francisco José B. S. Leandro**, Enrique Martínez Galán***
È già trascorso un decennio da quando, nel 2013, la Cina presentò per la prima volta la Belt and Road Initiative (BRI), la strategia globale soprannominata il “progetto del secolo” o Nuova Via della Seta. L’ambizioso progetto significava essenzialmente costruzione di autostrade, ferrovie, gasdotti energetici e collegamenti di telecomunicazione per connettere la Cina all’Europa occidentale attraverso gli Stati dell’Asia centrale, l’Iran, la Turchia, la Russia, il Caucaso e i Balcani.
All’epoca, tra gli obiettivi dichiarati, c’era il potenziamento della connettività attraverso le reti infrastrutturali, il miglioramento del coordinamento delle politiche economiche regionali, la rimozione delle barriere al commercio e agli investimenti, l’aumento della cooperazione finanziaria e la promozione di legami culturali per costruire il sostegno al progetto materiale. I detrattori ne parlavano come di un’operazione di marketing che riuniva progetti preesistenti di cooperazione economica con Paesi partner (come il Pakistan, la cooperazione tra Cina, India e Myanmar e quella tra Cina, Mongolia e Russia) o come di una strategia aggressiva e neoimperialista della Cina per conquistare spazi, risorse e alleanze al fine di materializzare la propria grandeur e distogliere l’attenzione dai suoi grandi squilibri interni.
Gli anni successivi hanno visto un’estensione dell’iniziativa cinese, che ai numerosi corridoi terrestri ha aggiunto anche molte rotte marittime, così da collegare la Cina con l’Asia Meridionale, il Sud-Est Asiatico, l’Australia, il Medio Oriente, l’Africa, l’Europa e l’America Latina. Oggi l’iniziativa vede coinvolte, a diverso titolo, circa 150 nazioni, che in gran parte avrebbero sottoscritto accordi al riguardo. Anche il governo italiano, nel marzo del 2019, ha firmato un memorandum d’intesa sulla Nuova Via della Seta, particolarmente incentrato sulle rotte marittime attraverso il Mediterraneo.
La pandemia da COVID-19 ha inevitabilmente frenato e congelato per un po’ la BRI, che poi ha ripreso il cammino. Un’ambiziosa agenda di investimenti infrastrutturali globali e ramificazioni geopolitiche e di sicurezza che determinano giudizi molto contrastanti: una grande opportunità di pace e cooperazione per lo sviluppo economico secondo alcuni, un cavallo di Troia per alimentare una spirale di indebitamento estero e una successiva svendita di asset nazionali alla Cina, secondo altri.
In ogni caso, indipendentemente dalle diverse analisi, la BRI è un ambizioso progetto a lungo termine, intercontinentale e multiforme, che sta ridisegnando il panorama geoeconomico globale e l’ordine mondiale. Dopo la crisi finanziaria del 2008-09 e successivamente in concomitanza della crisi pandemica, la fiducia incondizionata nei benefici della globalizzazione che dominava in molti circoli culturali e politici ha cominciato a scricchiolare e ora vacilla palesemente. Tutto ciò rende ancora più interessante la BRI, che può essere letta come un grande progetto in seno alla globalizzazione, da analizzare – al pari della fase attuale della globalizzazione – in termini di contraddizioni, risultati, fallimenti, sfide e impatti. Perché la fase più recente della globalizzazione è anche un processo di accumulazione, produzione e distribuzione di ricchezza che si basa sull’intersezione tra reti di città e catene globali di valore.
In occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre 2021, il Presidente cinese Xi Jinping ha presentato la nuova Iniziativa di Sviluppo Globale (Global Development Initiative, GDI), per aumentare la consapevolezza delle sfide che minacciano la realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG) e per ridefinire le priorità e rinnovare gli impegni globali nei confronti di questi obiettivi, aggiungendo che il sostegno ai Paesi in via di sviluppo (PVS) aumenterà per l’adozione di energia verde e a basse emissioni di carbonio, e non finanzierà più le centrali elettriche a carbone all’estero.
Non si tratta di una strategia per soppiantare la BRI, anche se i suoi contorni restano ancora un po’ vaghi, e con la BRI condivide il carattere ambizioso e l’estensione. Il 24 giugno 2022 si è svolto un Dialogo ad alto livello sulla GDI, cui hanno partecipato i leader di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica (i cosiddetti BRICS) e una selezione di altri Paesi: Algeria, Argentina, Cambogia, Egitto, Etiopia, Figi, Indonesia, Iran, Kazakistan, Malesia, Senegal, Thailandia e Uzbekistan. La Cina, con la BRI prima e la GDI poi, intende perseguire la via di una geografia del capitalismo mondiale alternativa a quella promossa dall’Occidente e dal G7. Non a caso, il presidente statunitense Joe Biden, in occasione del vertice estivo del G7 nel 2022, ha lanciato l’iniziativa del Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali (Partnership for Global Infrastructure and Investment, PGII), che trova i suoi principali sostenitori nello stesso G7 e, in particolare, negli gli Stati membri dell’UE. Allo stesso modo, gli Stati Uniti, il Giappone e l’Australia hanno formato nel 2019 una contro-iniziativa, la Blue Dot Network, seguita dall’iniziativa Build Back Better World del G7 nel 2021. Tutto ciò si lega al fatto che, nel documento intitolato “Nato 2030. United for a new Era”, la Cina viene posta subito dopo la Russia come rivale sistemico, mentre nel rapporto intitolato “Strategic Concept 2022”, la Cina è definita una «sfida» per gli «interessi, la sicurezza e i valori» della NATO.
Quel che colpisce nel caso delle iniziative cinesi è che oltre 100 Paesi (anzitutto nella regione dell’Asia e del Pacifico) hanno espresso il proprio sostegno alla GDI cinese dopo che, nel gennaio 2022, alle Nazioni Unite era stato istituito il Gruppo di amici della GDI, al quale avevano aderito oltre 50 Paesi, diventati 60 il 20 settembre 2022, in occasione della riunione ministeriale del Gruppo di amici della GDI tenuta a New York.
La capacità cinese di mettere in campo ingenti risorse finanziarie è un fattore che riesce a fare la differenza, nel caso della BRI e della GDI: ad esempio, il Presidente Xi Jinping si è impegnato ad aggiungere 42 miliardi di dollari al Fondo di assistenza alla cooperazione Sud-Sud, inizialmente capitalizzato con 3,1 miliardi di dollari e rinominato “Fondo globale per lo sviluppo e la cooperazione Sud-Sud” (Global Development and South-South Cooperation Fund, GD&SSCF). Del resto questa stessa prerogativa caratterizza la BRI, e infatti una parte consistente delle critiche occidentali nei confronti di questa iniziativa si appuntano proprio sul perverso meccanismo della trappola dell’indebitamento estero che i prestiti cinesi concessi nel quadro della BRI starebbero determinando. Non che il rischio non sia reale, tutt’altro; ma, nella contrapposizione delle due narrazioni ufficiali dell’Occidente e della Cina, da una prospettiva africana verrebbe naturale domandarsi “Da che pulpito viene, questa critica occidentale all’iniziativa cinese?”. Non bisognerebbe infatti dimenticare che, dagli anni Settanta del secolo scorso, si avviò una trappola dell’indebitamento estero che limitò poi enormemente i gradi di libertà dei governi del Sud del mondo nel definire le proprie strategie di politica economica, costringendoli ad adottare programmi di aggiustamento strutturale e piani di stabilizzazione finanziaria promossi come “condizionalità per ottenere nuovi prestiti da Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale”, cioè istituzioni finanziarie internazionali influenzate principalmente da Stati Uniti e suoi alleati occidentali. È proprio per questa ragione, del resto, che nell’ottobre del 2014 fu istituita a Pechino, per volontà soprattutto cinese, la Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture (Asian Infrastructure Investment Bank, AIIB), un’istituzione finanziaria internazionale regionale il cui obiettivo principale è promuovere uno sviluppo economico sostenibile in Asia attraverso investimenti nelle infrastrutture.
Insomma, la BRI non starà ridefinendo gli assetti geopolitici ed economici del capitalismo mondiale, ma resta una strategia che per dimensioni, ambizioni di investimento infrastrutturale globale e ramificazioni geopolitiche e di sicurezza, è senza precedenti. Anche per questo, pur impropriamente, la si paragona al Piano Marshall degli Stati Uniti del dopoguerra.
A inizio del 2023, per i tipi della Palgrave, è stato pubblicato un corposo volume di circa 800 pagine, intitolato The Palgrave Handbook of Globalization with Chinese Characteristics: The Case of the Belt and Road Initiative. Lo hanno curato tre giovani accademici portoghesi, Paulo Afronso B. Duarte (politologo, ricercatore presso la Universidade Lusófona di Porto), Francisco B. S. José Leandro (politologo, professore associato presso la City University di Macao, in Cina) ed Enrique Martínez Galán (economista, professore associato presso la School of Development Management – Asian Institute of Management, nelle Filippine). Il merito dei curatori è di aver coinvolto studiosi senior e giovani, professionisti delle relazioni internazionali, membri di think tank, politici, economisti, storici e dottorandi. Il risultato finale qui presentato comprende 24 capitoli a singolo autore, 23 capitoli in co-autorialità (47 capitoli in totale), con la partecipazione di 80 autori internazionali, 31 donne, 49 uomini e 10 ricercatori junior, in rappresentanza di 42 diverse istituzioni accademiche, governative, non governative e di ricerca. Uno sforzo significativo per approfondire, combinando economia, mercati, politiche, relazioni internazionali, geopolitica, storia, narrazioni, sostenibilità e pandemia da COVID-19, il dibattito sul ruolo da protagonista della Cina nel processo di globalizzazione, all’interno di un equilibrio mutevole e di contrapposizione delle potenze mondiali in termini di norme, standard, valori e narrazioni. Diverse prospettive e analisi complementari, intrecciate e a più livelli sulla globalizzazione e sul multilateralismo con caratteristiche cinesi, con un focus sul ruolo della BRI in questo processo.
Chi è curioso di conoscere la Cina e le politiche estere cinesi troverà molto materiale di interesse in questo volume ambizioso e aggiornato, una sorta di manuale di geografia, geoeconomia, scienze politiche e relazioni internazionali diviso in tre parti. La prima parte (che comprende 18 capitoli) analizza le manifestazioni e gli impatti della BRI in relazione alla governance globale. La seconda parte (composta da 13 capitoli) affronta le percezioni reciproche e i contorni mutevoli della globalizzazione dal punto di vista delle relazioni tra la Cina e le principali potenze emergenti. La terza parte (che comprende 15 capitoli) esplora il potenziale della BRI come iniziativa transfrontaliera, dal punto di vista di come la Cina influenza i sistemi regionali e subregionali del mondo, ovvero Europa, Asia, Medio Oriente, Africa, Atlantico meridionale e regioni polari.