La guerra in Rojava. Da eroi contro il terrorismo ad alleati dimenticati
Dopo anni di lotte e di azioni politiche, nel 2016 la regione a maggioranza curda del Rojava, nel nord-est della Siria, si autoproclamava Stato autonomo e indipendente.
Le milizie curde, insieme alla coalizione internazionale, avevano riconquistato i territori occupati dall’ISIS fino a costringere gli estremisti dello Stato Islamico alla resa definitiva.
Giornali e notiziari di tutto il mondo mostravano le foto dei combattenti dell’Unità di Protezione Popolare (in curdo Yekîneyên Parastina Gel: YPG) e soprattutto quelle delle truppe dell’Unità di Protezione delle Donne (in curdo Yekîneyên Parastina Jin: YPJ), osannati come nuovi paladini della libertà.
I curdi, nel nord-est della Siria, diventavano il baluardo contro il terrorismo. La nuova democrazia del Rojava gettava le basi della sua costituzione: un’idea di Stato dove convivono diverse religioni ed etnie e dove tutti hanno una rappresentanza senza distinzione di religione, sesso o ideologia.
Dopo 13 anni di lotta, a partire dal primo movimento per l’autonomia fondato dal Partito di Unione Democratica (in curdo Partiya Yekîtiya Demokrat: PYD), gemello siriano del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in curdo Partîya Karkerén Kurdîstan: PKK), anche i curdi siriani avevano una propria patria. Questo esperimento democratico catturava l’attenzione e l’interesse di politici, giornalisti, ricercatori e curiosi da tutto il mondo.
In seguito tuttavia, per anni, un lungo silenzio da parte dei media. Fino a qualche mese fa, quando i bombardamenti da parte della Turchia hanno riportato questa zona del Medioriente a far parlare di sé.
Cosa è successo da allora? Come si vive in Rojava oggi, soprattutto dopo i recenti attacchi turchi?
Il Paese si trova in uno stato di profonda povertà, e non essendo ufficialmente riconosciuto a livello internazionale, ha una moneta praticamente senza valore. Il Rojava è isolato, circondato da forze ostili, come le truppe siriane del regime di Assad che occupano ancora diversi settori delle città principali.
Sin dalla sua nascita questo luogo non ha mai conosciuto la pace. Entrando nelle città, a Kobane o Raqqa, tantissimi sono i palazzi ancora in rovina, distrutti durante la guerra contro lo Stato Islamico. Nonostante questo, molte sono le famiglie costrette, non sapendo dove vivere, a occupare le case bombardate e a pericolo di crollo. Le periferie brulicano di bambini che lavorano in mezzo a montagne di rifiuti, in cerca di materiali da vendere per il riciclo. I conflitti degli ultimi anni hanno causato circa un milione di cosiddetti sfollati o rifugiati interni (Internally Displaced People: IDP), ovvero persone che hanno perso la propria casa e oggi vivono per lo più in campi di accoglienza.
L’ISIS, meglio conosciuto in Medioriente con l’acronimo di DAESH (dall’arabo: Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham: Stato islamico dell’Iraq e del Levante) è una minaccia ancora attuale. La maggior parte dei centri di detenzione per terroristi si trova proprio nel Rojava. Solo un anno fa, a gennaio 2022, un attacco alla prigione di Al-Hasakah ha causato la morte di 500 persone e la fuga di più di cento detenuti, in una battaglia durata dieci giorni. Molte sono le cellule terroristiche ancora attive. Il 26 dicembre 2022, nella città di Raqqa, un nuovo attacco ha colpito un centro governativo curdo, uccidendo sei persone.
Proprio a Raqqa incontro e intervisto Reem, una donna che ha fondato una piccola ONG per aiutare le vittime del terrorismo. Per la sua attività Reem, considerata sovversiva dall’Islam radicale, è in cima alle liste di DAESH come persona da eliminare. Le molte poesie scritte per lei da artisti curdi le hanno fatto guadagnare il soprannome di Lady Peace.
Come si vive oggi in Rojava?
«Come si può benissimo vedere da quello che c’è fuori per le strade, il nostro Paese è fermo, senza futuro. In questa ONG sono tutti volontari, ci manteniamo solo grazie alle donazioni di privati, ma la verità è che oggi chi ne ha la possibilità cerca di fuggire verso altri Paesi. È molto difficile anche ricevere aiuti, denaro e materiali dall’estero, tutto deve passare da Damasco. Assad, con il suo regime, è sempre stato contro la nostra indipendenza. Anche le ONG straniere sono tutte andate via, richiamate in patria per poi spostarsi in Ucraina. Per fortuna non viviamo i giorni, terribili, dell’occupazione di DAESH, ma siamo ancora molto lontani dallo star bene».
I terroristi oggi si trovano confinati solo in alcune zone, abbastanza isolati. Vi sentite più al sicuro?
«Molti di noi sono ancora traumatizzati, forse irrimediabilmente, dagli anni in cui siamo stati sotto il regime dello Stato Islamico. In quei giorni se non c’erano i terroristi a minacciarci, lo facevano le bombe degli americani che attaccavano Raqqa, senza tener conto delle migliaia di civili innocenti. Qui nel centro, ad esempio, diamo sostegno psicologico a tantissime persone che per paura non escono quasi mai di casa. Oggi ci sono ancora bombardamenti, questa volta della Turchia. La minaccia di una nuova guerra toglie speranza e sogni alle persone, nessuno fa progetti per il domani, si vive alla giornata. Per questo si preferisce trovare un modo per scappare».
Il conflitto con la Turchia è da sempre fonte di altissima tensione per chi vive qui. Dalla fondazione ufficiale del Rojava, ci sono stati più di 200 attacchi e tentativi di invasione da parte delle truppe di Erdogan. Uno in particolare, nel 2018, ha cambiato nuovamente i confini di questa regione: l’invasione della città di Afrin (con il supporto dell’Amministrazione Trump). Un’occupazione che ha portato 300 mila civili ad abbandonare la propria terra.
Il 19 novembre 2022, ufficialmente in risposta all’attentato di Istanbul del 13 novembre, la Turchia ha lanciato un’ennesima operazione denominata Claw Sword (Spada ad Artiglio), volta ad eliminare basi militari, pozzi di petrolio e infrastrutture nel nord-est siriano. Nonostante i vertici del governo del Rojava abbiano sempre negato qualsiasi coinvolgimento con l’attentato nella capitale turca (al momento non c’è nessuna prova concreta su chi siano i mandanti), gli attacchi aerei non si sono mai fermati. Nel primo raid dell’operazione sono state bombardate le città di Kobane, Raqqa, Al-Hassakah, Al- Malikiyah e Darbasiya, colpendo postazioni militari ma uccidendo anche 12 civili, tra cui un giornalista. Qualche giorno dopo, il 23 novembre, un attacco di droni ha ucciso 8 guardie che sorvegliavano il campo di Al- Hol.
Al-Hol è un campo di semidetenzione che raccoglie, al suo interno, 55 mila persone. Qui si trovano le famiglie più radicali dei terroristi dell’ISIS in detenuti in prigione. Impossibile, all’interno del campo, vedere il volto di una donna che non indossi il burqa. Ufficialmente, chi è qui non è accusato di nulla, ma queste persone sono considerate un possibile pericolo dal governo curdo.
Omar, una delle guardie di sicurezza del campo, racconta quello che è accaduto durante l’attacco:
«Il 23 novembre, di sera, abbiamo subito un attacco di droni. Due razzi hanno colpito e ucciso otto delle nostre guardie che sorvegliavano i cancelli principali. Non è la prima volta che la Turchia usa questo metodo. L’idea è quella di far scappare da qui potenziali terroristi, in modo che possano destabilizzare il nostro governo dall’interno. Sono anni che la Turchia prova ad invaderci senza successo, allora si sta attuando questo metodo. Noi siamo riusciti a riprendere chi tentava di scappare, ma in altri campi, come ad Al-Hasakah, ci sono state diverse evasioni. Cerchiamo di trattare tutti umanamente, ma gestire tutte queste persone è molto difficile. Di recente, durante un giro di ricognizione, abbiamo scoperto i cadaveri di due bambine, due sorelle assassinate. Abbiamo così perquisito le tende e trovato un arsenale: fucili Kalashnikov e lanciagranate portatili anticarro, molto probabilmente servivano per una imminente rivolta».
Il campo di Al-Hol è un’enorme tendopoli circondata da reti metalliche, guardie e mezzi corazzati. Le stradine tra le tende sono ricoperte di fango, non c’è acqua corrente, viene consegnata sempre con camion-cisterna che arrivano dall’esterno. L’80% delle persone sono donne o bambini sino ai 12 anni di età. Soprattutto le donne lamentano le gravi condizioni in cui vivono: mancanza di acqua, elettricità e diesel per riscaldare l’interno delle tende.
Una di loro dice:
«Ci trattano come criminali, ma noi non abbiamo fatto niente. Ogni mattina, i militari ci trascinano fuori per perquisirci. I nostri mariti sono in galera, ma noi siamo innocenti, non sappiamo nemmeno perché ci troviamo qui».
In Rojava oggi vivono quattro milioni e mezzo di persone. Il 60%, la maggioranza, è di etnia curda, seguiti da arabi sunniti (popolazione che ha quasi raggiunto, nel numero, quella curda). Sono presenti anche minoranze cristiane, circa 55 mila persone di diverse confessioni (soprattutto armeni, siriaci, assiri). Le altre etnie, in piccole percentuali, sono rappresentate da musulmani sciiti e yazidi.
Pur essendo il Rojava uno stato libero e democratico, al suo interno soprattutto nelle zone rurali sono presenti ancora importanti conflitti culturali. Spesso i curdi, più liberali, si scontrano con famiglie di etnia araba tradizionaliste, dove la donna indossa sempre il burqa e il suo ruolo è confinato a quello di moglie e madre. Immagine questa che stride molto all’interno di un Paese dove, ad esempio, il 40% delle forze armate è rappresentato da donne. Queste famiglie più integraliste sono state accusate di dare supporto, soprattutto logistico, ai terroristi dell’ISIS.
Gli abitanti del Rojava continuano a considerarsi la più importante risorsa contro il terrorismo islamico. Oggi però si sentono abbandonati, soli a fronteggiare nuovi conflitti, con ancora il peso di non essere ufficialmente riconosciuti da nessuno, nemmeno dai propri alleati, in uno Stato per cui tanto si è combattuto.
Foto Credits: Angelo Calianno