La “gestione” della mobilità africana e il progetto neocoloniale
Nel corso degli ultimi vent’anni la migrazione africana è divenuta oggetto di notevole interesse politico anche per gli europei, oltre che – in modo sempre maggiore – per gli stessi africani. Man mano che le opportunità economiche si concentrano nelle aree urbane, in molti vi accorrono in cerca di una nuova vita e infatti le città africane sono tra quelle che nel mondo registrano la crescita più rapida. Gli spostamenti aumentano anche a causa del cambiamento climatico, che rende meno praticabili l’agricoltura e altre forme di sussistenza basate sulle risorse naturali: le aree rurali e costiere non sono più in grado di sostentare le loro popolazioni, che si dirigono altrove. A volte la partenza è definitiva, in altri casi limitata a periodi di emergenza. Centinaia di migliaia di persone sono inoltre costrette alla partenza da persecuzioni politiche e violenze. La vita non è sicura per chi resta, che si tratti degli annosi conflitti nella Repubblica Democratica del Congo o delle più recenti situazioni nel nord del Mozambico e altrove. Gli africani sono da sempre in movimento, come tutti i popoli del mondo. Ci sono quindi buone ragioni per questa maggiore attenzione alla mobilità delle persone. Tuttavia, ciò che spesso motiva le politiche e gli interventi europei non è tanto l’interesse per la demografia o lo sviluppo quanto il timore, tra i progressisti, di un’ondata di politiche interne demagogiche e anti-immigrati, conseguenti all’aumento dei flussi migratori, considerate pericolose e che, per essere scongiurate, richiedono appunto “mosse preventive” in materia migratoria.
In un mondo globalizzato e precario dal punto di vista politico ed ambientale, la mobilità è parte integrante della sopravvivenza e del tentativo di costruirsi un futuro. Confinare le persone in spazi delimitati va contro tutto questo, eppure è proprio quello che cercano di realizzare molti leader politici. A partire dal 2015 e dalla “crisi migratoria europea”, l’Unione Europea ha speso centinaia di milioni di Euro in progetti mirati a permettere agli africani di restare “a casa loro” e ad incoraggiarli a farlo. Cosa potrebbe mai esserci di sbagliato? Come si è scoperto, molte cose, in realtà. Proprio le strategie attualmente impiegate per scoraggiare la mobilità probabilmente non fanno che rafforzare le motivazioni a trasferirsi altrove. Per giunta, esse rafforzano forme globalizzate di governance che rinnovano le geografie coloniali del passato. Vediamo perché.
Negli ultimi dieci anni l’Unione Europea, l’Australia e gli Stati Uniti hanno guidato un cambiamento nella governance globale delle migrazioni, in particolare attraverso i Global Compacts on Migration and Refugees. Spesso catalogati come sforzi umanitari per promuovere migrazioni “sicure e ordinate”, essi includono l’appello a favorire movimenti di popolazione che siano “responsabili”. Questa terminologia viene riecheggiata anche negli accordi europei sulla migrazione con l’Africa e in una serie di accordi bilaterali e multilaterali. Alla base c’è spesso il tentativo di fare in modo che le persone si trasferiscano solo quando possono farlo in modo legale e che rimangano vicino ai luoghi di origine, per contribuire alla costruzione delle loro famiglie, comunità, nazioni. In sostanza è una specie di “sviluppo del contenimento”: un programma per l’Africa che somiglia al Piano Marshall, mirato ad affrontare le cause profonde della migrazione ed eliminare in pratica la necessità, per gli africani, di cercare di farsi una vita altrove. Tutto questo comprende programmi d’istruzione, training vocazionali, infrastrutture e vari altri tentativi di creare opportunità per le persone all’interno del continente.
Questi tentativi di favorire la sussistenza probabilmente aiutano alcuni, ma le iniziative non si fermano qui. Esiste anche una serie di politiche di supporto definite “pre-crime”, volte a identificare e disincentivare coloro che intendono uscire dall’Africa prima ancora che lo facciano. Questo implica non solo controlli di tipo coercitivo, come frontiere più rigide e centri di detenzione, ma un ampio sforzo volto a modificare il modo in cui gli africani percepiscono sé stessi e la loro posizione nel mondo. Proclamando il proprio dovere di proteggere quelli che non possono proteggersi da soli, ecco l’Europa che “salva gli africani da sé stessi”. Gli europei affermano di essere impegnati in un’opera di protezione e miglioramento: mantenere cioè gli africani nel loro continente abbastanza a lungo da permettere loro di superare le deficienze che li rendono così inadatti a circolare nel mondo del futuro globalizzato. In simili tentativi risuona fortemente l’eco del discorso sul “fardello dell’uomo bianco” che funzionari governativi e apologeti usavano per giustificare le interferenze colonialiste, più di un secolo fa. Ovviamente le strategie sono cambiate, ma gli effetti sono simili: creare una gerarchia globale di tipo razziale in cui gli europei possono muoversi liberamente sul pianeta, ma altri non possono farlo.
La logica di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea si basa sul classificare le iniziative africane di mobilità come “fuorvianti” tradimenti della propria famiglia, comunità e nazione, e quindi di sé stessi. Il desiderio di andarsene dimostrerebbe immaturità, atavismo ed inopportuno avventurismo, caratteristiche che non rendono gli africani qualificati a partecipare al cammino verso il futuro condiviso dagli europei. In qualche modo, l’Europa fa della mobilità una promessa, da far balenare crudelmente davanti agli africani. Se si comportano come si deve e rispettano le regole sull’immigrazione sostenute e spesso imposte dall’Europa, possono sperare di diventare a pieno titolo cittadini del mondo. Ma adeguarsi a quegli standard giuridici e morali significa in realtà costruire una vita sedentaria, dedicata allo “sviluppo a casa propria”. È una trappola. All’interno di questo schema, anche detenzioni e morti di confine fanno parte di una politica dai toni paternalistici e pastorali, volta a salvare vite e al tempo stesso rendere gli africani capaci di comprendere il loro potenziale. E tutto si svolge in un contesto in cui coloro che prendono le decisioni sono spesso sconosciuti e irraggiungibili per molti dei loro cosiddetti “beneficiari”: geograficamente lontani, in un viluppo di interventi privati, sovranità congiunte e situazioni giuridiche incerte.
Nell’opera di limitazione delle meno gradite conseguenze del cattivo comportamento degli africani l’Unione Europea coopera, in ogni settore e continente, con alleati pubblici e privati per raccogliere dati, fare previsioni sui movimenti futuri e prevenire la migrazione, nell’intento di migliorare gli africani e responsabilizzarli. Questo tentativo di modificare il futuro fin da oggi in pratica esclude gli africani dal novero di una umanità globale condivisa e li predefinisce come soggetti devianti, dei quali prendersi cura ma senza ascoltarne la voce. L’uso di un certo linguaggio nella narrazione della realtà permette agli europei di continuare a legittimare formalmente (almeno davanti a sé stessi) il proprio impegno per il progresso universale del genere umano, proprio mentre escludono milioni di persone dalla mobilità e da un pieno riconoscimento come esseri umani. Gli approcci descritti costituiscono per molti aspetti la prosecuzione di secoli di legami coloniali, di decolonizzazione formale, di neoimperialismo e la modalità di governo del capitalismo contemporaneo.
Per di più, quello che l’Europa cerca di attuare non farà presumibilmente che esacerbare la necessità di trasferirsi altrove, per gli africani. L’istruzione e i training vocazionali alimenteranno le aspirazioni e la collocabilità sul mercato del lavoro delle persone, ma fanno poco per combattere le realtà economiche del contesto ambientale. Senza cambiamenti nei sistemi globali di commercio e distribuzione delle risorse, di quanti altri idraulici, elettricisti o falegnami avrà bisogno l’Africa? Invece di costruire comunità in patria, queste persone probabilmente andranno là dove c’è più ricchezza. Sfortunatamente, questo significa spesso andarsene dall’Africa. Inoltre, cercare di mantenere ferme le popolazioni avrà come risultato una minore resilienza al cambiamento climatico e ancor più rigidi controlli di frontiera e di polizia. Questo aumenta il potere degli autocrati, incoraggia la repressione e frammenta le reti commerciali regionali.
Citando il grande filosofo scomparso Zygmunt Bauman, “la libertà di movimento, da sempre un bene scarso e distribuito in modo diseguale, sta rapidamente diventando il più importante fattore di gerarchia sociale della nostra epoca”. Il valore della mobilità è oggi più grande che mai. Mentre cerca di forgiare africani “responsabili” che rimangano a casa propria, l’Europa contemporaneamente li esclude dal futuro del mondo. Si tratta di una ulteriore fase di emarginazione razzista e imperialista che si può giustificare solo dimenticando deliberatamente che le radici storiche della ricchezza e del potere dell’Europa risalgono alle avventure coloniali. La mobilità all’interno dell’Africa senza dubbio continuerà, ed un ridotto numero di persone riuscirà a trovare la strada, attraverso deserti ed oceani, per arrivare in Europa, in Medio Oriente o in America settentrionale. Ma nel futuro immaginario della mobilità l’Africa resta ai margini dello spazio-tempo globale.
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Foto Credits: Rick Webb, Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0) attraverso Flickr