In libreria – Uncovered: the role of the IMF in shrinking the social protection
Un volume a cura di Salma Hussein *
Questo studio di circa 160 pagine, pubblicato dalla Friedrich Erbert Foundation, rappresenta la conclusione di un progetto di ricerca triennale avviato all’inizio del 2020. Gli autori – Jihen Chandoul[1], insieme a Chafik Ben Rouine[2], Laith Al-Ajlouni[3], Boutaina Falsy[4] e Jamal Azouaoui[5] – con il coordinamento redazionale di Salma Hussein, che ha scritto l’introduzione, illustrano l’impatto delle politiche del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sulla protezione sociale in tre Paesi arabi: Giordania, Tunisia e Marocco, negli anni tra il 2011 e il 2021.
Tale periodo, segnato da due eventi di grande importanza come le rivolte arabe e lo scoppio della pandemia da Covid-19, è – anche – il lasso di tempo in cui i Paesi citati hanno stipulato un elevato numero di accordi con il FMI. Gli accordi prevedono diverse condizioni (c.d. “condizionalità”) e riforme legate, in particolar modo, al consolidamento fiscale, ed inoltre tagli alla spesa pubblica con un impatto – secondo gli autori – negativo sulla protezione sociale e di conseguenza sulle condizioni di vita delle persone più vulnerabili.
Ma cosa si intende per protezione sociale? Non esiste una definizione universalmente accettata ma vi sono, secondo gli autori, due approcci alla protezione sociale e il FMI, insieme ad altre Istituzioni finanziarie internazionali (IFI) come la Banca Mondiale (BM), avrebbe da sempre preferito quella “teoricamente più ristretta e distaccata dalla realtà concreta”.
Per contro, dal punto di vista dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), la protezione o sicurezza sociale è un diritto umano e consiste “nell’insieme di misure pubbliche che una società mette a disposizione dei suoi membri per proteggerli dal disagio economico e sociale causato dall’assenza o dalla riduzione sostanziale del reddito da lavoro a seguito di varie contingenze”.
Per il FMI, sostengono con decisione gli autori, la protezione sociale non è un diritto né tanto meno qualcosa che rientri tra le sue responsabilità. Di recente, tuttavia, sia il FMI che la BM avrebbero cominciato ad includere il tema della sicurezza sociale nei loro interventi, riconoscendole il potere di dare stabilità macroeconomica. In questa prospettiva, la protezione sociale va oltre la semplice protezione delle persone vulnerabili, in quanto ha effetti importanti e positivi sulla crescita economica e sulla produttività.
La regione dei Paesi del Nord Africa e Medio Oriente (MENA è l’acronimo in inglese) è quella che spende meno, in termini di spesa sociale, in tutto il mondo. In questi Paesi, infatti, rappresenta solo l’1% del prodotto interno lordo.
Gli autori –esplicita l’introduzione – intendono mostrare come le riforme del FMI non abbiano creato sufficiente spazio fiscale per permettere alla protezione sociale in Marocco, Tunisia e Giordania di espandersi e abbracciare il maggior numero di persone possibile. Al contrario, le condizioni imposte dal FMI non solo hanno rallentato l’investimento nella protezione sociale, ma hanno avuto ripercussioni negative su di essa.
Con lo scoppio della pandemia da Covid-19, le debolezze nel campo della protezione sociale sono venute a galla, svelando un sistema che non riesce a offrire la più basilare assistenza ai suoi cittadini.
Lo studio si compone, oltre che dell’introduzione, di tre studi comparativi sui sistemi di protezione sociale nei tre Paesi, confrontando l’impatto dei diversi accordi col FMI e delle loro condizioni sulla spesa sociale e sulla protezione sociale in particolare. L’obiettivo è quello di formulare raccomandazioni per la società civile e per i governi, al fine di proteggere la spesa sociale in un contesto di austerità e di difficile ripresa economica post-pandemica.
In Tunisia, oggetto del contributo di Jihen Chandoul e Chafik Ben Rouine, l’approccio del FMI e della BM alla protezione sociale è stato “residuale e minimalista”, traducendosi in una politica di gestione del rischio sociale e di compensazione degli effetti delle politiche di austerità a beneficio dei più poveri, piuttosto che essere un approccio basato sul diritto di tutti ad essere protetti contro i rischi delle disuguaglianze.
Inoltre, il focus delle istituzioni finanziarie internazionali in Tunisia è stato posto sulla sostituzione graduale dell’erogazione di sussidi alimentari ed energetici con programmi di assistenza sociale in termini di benefici e prestazioni, in base alla cosiddetta prova dei mezzi (means test), cioè alla verifica del basso reddito di coloro che fanno richiesta di tali prestazioni. Più in particolare, si è utilizzato il metodo del Proxy Means Test (PMT) ovvero una stima della probabilità che una persona sia povera in base alle caratteristiche del suo nucleo familiare e attraverso l’uso di un modello statistico. Si tratta di un metodo utilizzato per descrivere una situazione in cui le informazioni indirette (cosiddette proxy del reddito) sulle caratteristiche della famiglia o dell’individuo correlate ai livelli di benessere – come per esempio l’età dei membri della famiglia e le dimensioni del nucleo familiare, il livello di istruzione del capofamiglia e il livello di scolarizzazione dei figli, il tipo di abitazione e la presenza di frigorifero, televisore o automobile – sono utilizzate in un algoritmo formale per stimare il reddito, il benessere e quindi il livello di bisogno della famiglia stessa, in ragione delle difficoltà amministrative e dell’imprecisione dei test per verificare direttamente il livello di reddito disponibile (i means).
I due autori, criticando tale scelta, dimostrano come i sussidi alimentari ed energetici siano invece progressivi ed equi, e contribuiscano allo sradicamento della povertà in misura maggiore rispetto ai programmi mirati.
Inoltre, il metodo dei PMT presenta un margine di errore elevato e – essendo più complesso e costoso da applicare – può essere soggetto a errori anche sistematici (per esempio non riuscendo a cogliere la struttura dell’economia sommersa e le sue implicazioni in termini di vulnerabilità), finendo così col lasciare molte famiglie senza copertura e a rischio di ulteriore impoverimento. Secondo gli autori è possibile e opportuno definire come target una determinata fetta di popolazione, all’interno di un sistema di protezione sociale universale che ha meno probabilità di indurre in errore rispetto al semplice trasferimento di denaro basato sui PMT.
In Giordania invece – oggetto dello studio di Laith Alajlouni – il sistema di protezione sociale era già in grave crisi prima dell’intervento delle IFI che con le loro condizionalità ne hanno esacerbato le criticità. In questo Paese la situazione è ancora più drammatica, dati gli alti livelli di povertà, disoccupazione e lavoro sommerso, che sono il risultato di una serie di fattori storici e politici legati alle scelte politiche, economiche e finanziarie del governo, insieme alle riforme promosse dalle IFI.
Nel periodo che va dal 2011 al 2021 la Giordania ha firmato quattro accordi con il FMI, che hanno comportato un’ampia gamma di riforme, tra cui l’eliminazione dei sussidi per il pane e l’elettricità e la riforma del regime fiscale. In questo arco di tempo, inoltre, il FMI ha incoraggiato il governo ad espandere i suoi programmi di assistenza sociale. Uno degli ostacoli politici maggiori a una protezione sociale efficace è il clientelismo, ossia il fatto che politiche sociali e di sviluppo sono spesso e volentieri disegnate per soddisfare persone influenti (leader tribali), che hanno il potere di controllare la popolazione attraverso rapporti di clientela.
A ciò si aggiunge la lotta da parte del governo, che si protrae ormai da decenni, contro un alto debito pubblico e un deficit di bilancio cronico, cioè sia sul piano dello stock accumulato che del flusso annuale. Inoltre Laith Alajlouni sostiene che, fin tanto che il governo non crea spazio di manovra per ridurre la spesa militare e lottare contro clientelismo e corruzione – oltre a riformare il suo sistema di riscossione delle tasse – non ci sarà la capacità fiscale necessaria per migliorare il sistema sociale.
Il FMI ha sponsorizzato e fatto attuare diverse riforme, tra cui la riduzione del debito pubblico, del deficit fiscale, il miglioramento delle entrate tributarie e il mantenimento della stabilità monetaria. Per quanto riguarda la spesa sociale, il FMI in un primo periodo ha optato per una sua riduzione, considerandola un fardello per i conti dello Stato, ma in un secondo periodo di intervento nel Paese ha poi invece incoraggiato una migliore allocazione di risorse verso programmi di assistenza sociale mirata. Ciononostante, la situazione macroeconomica della Giordania è rimasta quasi la stessa, ed è anzi peggiorata con lo scoppio della pandemia da Covid-19. Lo studio conclude che non si può stabilire una relazione causale tra le riforme del FMI e la degradante situazione socioeconomica del Paese, ma si può affermare che “queste riforme non hanno portato a un miglioramento del sistema di protezione sociale giordano”.
Anche il Marocco, oggetto del capitolo scritto da Boutaina Falsy e Jamal Azouaoui, di fronte a debolezze strutturali come lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti, le forti disparità sociali, un’economia non diversificata e una performance mediocre degli investimenti, ha chiesto l’intervento del FMI. Le condizioni imposte da quest’ultimo, in particolare l’eliminazione dei sussidi alimentari e la sostituzione di questi con piani sociali altamente mirati – in modo coincidente con quanto rilevato nei precedenti casi di studio – non hanno portato grandi frutti. Infatti, mentre la spesa pubblica è diminuita del 3% del PIL, questa somma non è stata riallocata verso i programmi sociali mirati, che rappresentano solo lo 0.4% del PIL e lasciano fuori protezione una consistente fetta di popolazione vulnerabile, costretta a fare i conti anche con un potere di acquisto ridotto a causa dell’abolizione dei vari sussidi.
Dopo un decennio di interventi e misure del FMI, mentre l’istituzione finanziaria continua ad elogiare il Marocco per essere sulla buona strada verso gli obiettivi prefissati, il Paese – scrivono i due autori – continua a mostrare grandi segni di debolezza economica e sociale, aggravate dallo scoppio della pandemia da Covid-19. Infatti, “due terzi della popolazione attiva (60%) non sono coperti da alcun regime pensionistico e quasi la metà (46%) non è coperta da assicurazione sanitaria”.
La pandemia da Covid-19 ha fatto precipitare il Paese in una recessione senza precedenti, sprofondando milioni di persone in povertà assoluta, conseguenza diretta dell’assenza di un solido sistema di protezione sociale. La crisi ha fatto emergere tutte le debolezze e criticità che questo sistema ha accumulato nel corso degli anni, spingendo le autorità marocchine a ripensarlo e a lanciare un progetto molto ambizioso per estendere la protezione sociale a tutti i cittadini.
Nel complesso, lo studio rappresenta un coraggioso tentativo di mettere in evidenza il ruolo che giocano le istituzioni finanziarie internazionali (e in particolare il Fondo Monetario Internazionale) nelle economie dei Paesi in via di sviluppo, caratterizzato da interventi e condizionalità orientati verso la stabilizzazione macroeconomica, ma senza curarsi sufficientemente delle ripercussioni negative sulle persone vulnerabili. Questo studio obbliga a fare i conti con la necessità di perseguire contemporaneamente obiettivi sia di sviluppo economico che di protezione sociale, critica la scelta delle istituzioni finanziarie internazionali come l’FMI di porsi solo il primo tipo di obiettivi – al costo di oneri insostenibili sul secondo fronte – e invita tutti a ricercare soluzioni innovative. Non a caso, le raccomandazioni finali indicano, al primo posto, la necessità di sviluppare un dibattito tra tutti gli attori delle società nella regione MENA sulla relazione tra la gestione finanziaria dei bilanci pubblici e la progettazione delle politiche sociali.