In Africa, guerre sempre più dimenticate
L’orrore del teatro di guerra in Ucraina, che fa registrare giorno dopo giorno violenza, odio, morte e macerie, è tuttora sotto i nostri occhi. Una delle misure che possono dar conto del dramma della guerra è il numero delle persone che sono costrette ad abbandonare la propria casa e il proprio Paese. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dall’inizio dell’invasione russa sono stati oltre 14,3 milioni gli attraversamenti di frontiera fuori dall’Ucraina, e in molti hanno cercato rifugio nei Paesi vicini: gli ultimi dati mostrano quasi 7 milioni di attraversamenti di confine verso la Polonia, 1,4 milioni verso la Romania, 2,85 milioni verso la Russia, 1,6 milioni verso l’Ungheria, quasi 900 mila verso la Slovacchia, oltre 660 mila verso la Moldavia e 16.705 verso la Bielorussia. Per la maggior parte si tratta di donne e bambini, perché agli uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni è stato chiesto di rimanere in Ucraina per combattere.
Purtroppo, l’orrore dei conflitti e delle violenze e delle sofferenze che essi producono non si limita alla sola Ucraina. L’attenzione sull’Ucraina rischia infatti di far dimenticare altre crisi in tutto il mondo, soprattutto perché l’impatto economico dell’invasione russa si fa sentire in Europa e nel resto del mondo, a differenza di quel che capita nel caso di molti altri conflitti, in particolare quelli che perdurano in modo strisciante e rimangono confinati all’interno dei singoli Stati. Nel frattempo, purtroppo, cresce il divario tra i finanziamenti umanitari a sostegno delle vittime ucraine, sfollate o emigrate, e l’aumento record dei bisogni non soddisfatti di aiuti di emergenza in altri contesti del mondo e per milioni di persone che vagano esiliate in terre che non danno loro riparo, orfani di un tetto, una terra e un cielo.
Gli esempi sono numerosi. Fra tutti, si pensi alla crisi causata dalla siccità e dell’insicurezza alimentare nel Corno d’Africa, con circa 13 milioni di persone colpite o bisognose di aiuto, un numero che è in aumento e che le stime del Famine Early Warning System Network prevedono arriverà presto a 20 milioni.
In Somalia, il Paese più colpito, 4,3 milioni di persone soffrono la fame; in Etiopia, la siccità sta aggravando il disastro umanitario causato dalla guerra nel nord del Paese. Nel Tigray infatti milioni di persone sono minacciate dalla carestia, ma il governo etiope ha ripetutamente impedito agli aiuti umanitari di entrare in Tigray, dove c’è anche una presenza sempre più massiccia di forze armate eritree.
Intanto, nella vicina zona pastorale del Kenya, le perdite di bestiame stanno scatenando scontri tra le comunità locali. Causata dal riscaldamento climatico e dal prolungato effetto de La Niña, e accompagnata dal raffreddamento delle temperature oceaniche nel Pacifico equatoriale centrale e orientale, che ha impatti sul tempo e sul clima opposti, la siccità è iniziata nel settembre 2020 ed è probabilmente destinata – secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale – a durare fino alla fine del 2022. Diventerebbe così, nell’arco di un secolo, il primo evento di questo tipo ad attraversare tre inverni settentrionali consecutivi, e ha colpito una regione già povera e vulnerabile, in cui perdurano da tempo “guerre a bassa intensità”. Quest’ultimo è un termine ereditato dalla strategia anti-insurrezionale attuata dagli Stati Uniti durane la guerra fredda, ma le guerre a bassa intensità sono divenute ricorrenti, in anni più recenti, come guerre “sporche”, opache per le ragioni e gli interessi in gioco, dimenticate dalla copertura quotidiana dei principali mass-media (con le dovute eccezione, a cominciare in Italia dall’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo o dall’Osservatorio sulle Crisi Dimenticate).
È il caso dei conflitti in Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, nord del Mozambico, che hanno mietuto più vittime di molte guerre dichiarate. Oggi, con l’impennata dei prezzi del grano e dei fertilizzanti dovuta alla situazione in Ucraina, il Corno d’Africa si trova ad affrontare una maggiore concorrenza per l’assistenza a breve termine, in seguito all’emergere di crisi da carestia in altri Paesi e regioni.
Non meno preoccupante è la situazione nel Sahel, in Africa occidentale, dove i bisogni umanitari sono in aumento: i gruppi jihadisti legati ad Al-Qaeda e al cosiddetto Stato Islamico hanno guadagnato terreno negli ultimi dieci anni, mentre gli shock climatici e le perdite di reddito causate dalle pandemie hanno peggiorato la situazione.
Le carenze di fondi della cooperazione internazionale mettono a rischio di riduzione o di chiusura interventi umanitari cruciali. Spostandoci poco lontano, in Medio Oriente, un Paese che rischia di essere dimenticato è lo Yemen: a fine settembre 2022, il cluster Sicurezza alimentare e agricoltura del Piano di risposta umanitaria 2022 era finanziato solo al 49%, mentre i cluster Nutrizione, Salute e WASH (Water, sanitation, and hygiene) erano finanziati rispettivamente al 32, 64 e 23%. Questi cluster forniscono servizi che aiutano a prevenire e curare la malnutrizione acuta. Con le recenti inondazioni, che hanno danneggiato i sistemi idrici e igienico-sanitari aumentando probabilmente il rischio di malattie trasmesse dall’acqua, la riduzione dell’accesso ai servizi sanitari renderà probabilmente le famiglie più vulnerabili agli impatti di un elevato livello di insicurezza alimentare e contribuirà ad aumentare i tassi di malnutrizione acuta in molte aree. Nel frattempo, sebbene il programma di alimentazione scolastica del Programma alimentare mondiale (World Food Program, WFP) delle Nazioni Unite sia ripreso con l’inizio del nuovo trimestre a fine luglio/inizio agosto 2022, solo un terzo degli 1,9 milioni di bambini originariamente previsti come beneficiari sarà raggiunto nel semestre in corso, a causa della carenza di fondi.
È sempre difficile provare a riassumere la complessità delle cause che determinano le situazioni conflittuali, soprattutto facendo riferimento alla situazione dei 54 Stati indipendenti che compongono, con le loro differenze strutturali, il continente africano. Tuttavia, non c’è dubbio che dietro a molte guerre in Africa c’è la questione del controllo delle terre, della distruzione dell’ambiente, del potere di pochi e della povertà della maggioranza. Più in generale, al centro di molti problemi che interessano gli africani c’è la questione della insoddisfacente governance (cioè, il sistema articolato e democratico del processo decisionale che determina le decisioni politiche) delle terre e delle vaste risorse naturali ad essa associate, su cui si basano i mezzi di sostentamento della maggior parte della popolazione africana.
Occorre ricordare che la popolazione in Africa, nelle diverse regioni che la compongono, era ed è costantemente in crescita – anche se oggi a ritmi calanti – a fronte di una superficie invariata, il che determina una crescente pressione in termini di densità abitativa.
Nonostante la crescente pressione antropica sull’ambiente, l’agricoltura continua a rivestire un ruolo importante, a tal punto che l’Africa è fra tutti il continente la cui ricchezza economica – misurata attraverso il Reddito nazionale lordo (RNL) o il Prodotto interno lordo (PIL) – dipende maggiormente, in base ai dati disponibili e consultabili (World Development Indicators, WDI), dall’agricoltura. Al contempo, in Africa l’aumento di produttività agricola negli ultimi decenni è stato basso, e dovuto essenzialmente all’estensione delle terre messe a coltura, e non agli effetti dell’innovazione tecnica (come invece accaduto, per esempio, in Asia).
In teoria l’Africa, che ospita il 60% delle terre coltivabili del mondo, avrebbe il potenziale per soddisfare non solo il proprio fabbisogno alimentare ma anche quello del resto del mondo. L’agricoltura rimane uno dei settori economici più importanti del continente, in quanto dà lavoro alla maggior parte della popolazione e rappresenta il 14% del PIL dell’Africa subsahariana, ma è un’agricoltura che penalizza la maggioranza della popolazione rurale, costretta su terre marginali, a beneficio di grandi interessi transnazionali e delle fasce più abbienti della popolazione (soprattutto urbana).
In pratica, urbanizzazione crescente, deforestazione, desertificazione, progressiva perdita di biodiversità, disuguaglianza e povertà diffusa rendono la natura una risorsa contesa e sfruttata a ritmi che sono diventati insostenibili. In assenza di processi partecipativi e di istituzioni democratiche in grado di contribuire ad eliminare povertà e disuguaglianze, le risorse naturali possono diventare una “maledizione”, su cui convergono appetiti di gruppi all’interno dei Paesi e interessi internazionali che fomentano conflitti e guerre armate, talvolta per procura.
Recentemente, va ricordato, l’Africa si trova a fronteggiare la combinazione esplosiva di fattori di rischio legati alla bassa diffusione della vaccinazione contro il COVID-19 e al rischio di contagio (con la conseguente possibilità di dover mantenere alcune restrizioni), all’indebolimento dei sistemi sanitari nazionali, all’aumento della vulnerabilità del debito, alle condizioni finanziarie globali con l’aumento delle pressioni inflazionistiche, all’effetto del conflitto tra Russia e Ucraina e delle relative sanzioni alla Russia, ai rischi climatici e ambientali e ad altre questioni sociopolitiche e di sicurezza. In particolare, tali nuovi fattori di rischio rimettono in primo piano una vecchia sfida allo sviluppo dell’Africa: la forte dipendenza dalle esportazioni di prodotti primari, cioè anzitutto le risorse estrattive (petrolio, gas e minerali) e i prodotti agricoli (alimenti e materie prime agricole). Infatti, la dipendenza dalle materie prime è associata a una crescita economica non inclusiva e a una maggiore vulnerabilità economica in caso di uno shock esterno che si propaghi all’intera economia, modificandone la struttura produttiva. Nel peggiore dei casi, si tratta delle guerre per procura (per il petrolio o i diamanti ma, sempre più, anche per le risorse naturali scarse, come oggi l’acqua).
Sulla base della definizione dell’UNCTAD di dipendenza dalle materie prime – una situazione in cui le materie prime rappresentano più del 60 per cento delle esportazioni totali di merci – l’83 per cento dei Paesi africani sono dipendenti dalle materie prime, e rappresentano il 45% dei Paesi dipendenti dalle materie prime a livello mondiale.
Naturalmente, il quadro continentale è composito, presentando molte differenze non solo in termini di conflittualità, ma anche, ad esempio, in termini del ruolo giocato dall’agricoltura.
Il fatto che l’Africa si distingua, purtroppo, sul piano della conflittualità ce lo dice, per esempio – oltre al numero di missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite – il Global Conflict Risk Index (GCRI) su cui è costruito il Sistema di allerta precoce sui conflitti dell’Unione Europea. L’indice è basato sui dati di cinque aree di rischio, che rappresentano le condizioni strutturali che caratterizzano un determinato Paese (aree politiche, economiche, sociali, ambientali e di sicurezza) e mira a valutare il rischio di conflitto violento nei prossimi 1-4 anni. L’Africa è ampiamente presente in questi scenari.
In base, invece, ai dati del Rapporto 2022 dell’UNCTAD intitolato Rethinking the Foundations of Export Diversification in Africa: The Catalytic Role of Business and Financial Services, 17 Paesi africani hanno ridotto la quota di prodotti di base nei loro panieri di esportazione tra il 2008-2010 e il 2018-2020, ma ci sono delle differenze significative che vale la pena notare. Le percentuali variano dal 16% (tra gli 11 Paesi dipendenti dai prodotti di base, guidati da Sao Tomé e Principe) all’1,5% (Guinea Equatoriale, Guinea e Nigeria).
Ciononostante, 32 Paesi africani esportano più materie prime oggi rispetto a un decennio fa (2008-2010). Ad esempio Capo Verde, Eritrea, Liberia e Madagascar hanno aumentato di molto la loro dipendenza dalle materie prime nell’ultimo decennio. Diversi Paesi come Benin, Burundi, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea Bissau, Libia, Malawi e Mali, hanno aumentato la loro quota di prodotti di base nel paniere delle esportazioni. Nello stesso periodo, alcuni Paesi sono passati dalla dipendenza dalle materie prime agricole a quella dalle materie prime minerarie (Burkina Faso, Burundi, Eritrea, Ghana, Mali, Namibia, Ruanda, Tanzania e Zimbabwe). Altri, come il Camerun, il Ciad e il Mozambico, sono passati dalla dipendenza dai prodotti agricoli alla dipendenza dai combustibili. Paesi esportatori di prodotti agricoli, come Capo Verde, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Sao Tomé e Principe hanno forti specializzazioni: la pesca (Capo Verde), la silvicoltura (Repubblica Centrafricana), le spezie (Madagascar) e il cacao (Sao Tomé e Principe).
Nel 2021, la Sierra Leone ha registrato il contributo più alto del settore agricolo al PIL in Africa, quasi il 60%. Seguono Ciad ed Etiopia, con agricoltura, silvicoltura e pesca che rappresentano rispettivamente circa il 54% e il 38% del PIL. All’estremo opposto Gibuti, Botswana, Seychelles e Sudafrica sono stati i paesi africani con la percentuale più bassa del PIL generato dal settore agricolo.
Il fatto che l’agricoltura pesi molto o poco e che le esportazioni di prodotti di base aumentino non sono in sé indice di nulla, in relazione ai conflitti, ma è la miscela esplosiva di cui si è detto che richiede attenzione alle dinamiche di trasformazione in atto.
Peraltro, come ci ricorda l’African Economic Outlook del 2022, pubblicato dall’African Development Bank, l’Africa è la regione più colpita dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici: 5 dei 10 Paesi più colpiti nel 2019 si trovano nel continente africano. Nel 2020 e nel 2021, in Africa sono stati registrati 131 disastri legati a condizioni climatiche estreme e sono state registrate 99 inondazioni, 16 tempeste e 14 emergenze legate alla siccità, oltre a numerosi incendi, che hanno minacciato le vite e i mezzi di sussistenza di milioni di persone.
In questo quadro, l’estrazione delle risorse naturali in diversi casi è stata corresponsabile nel distruggere il territorio e non ha portato a una migliore distribuzione della ricchezza tra i cittadini. In molti Paesi africani, come Nigeria, Sierra Leone, Angola, Repubblica Democratica del Congo e Liberia, lo sfruttamento delle risorse naturali estrattive ha contribuito – come evidenzia una letteratura ormai copiosa – all’aumento dell’instabilità politica, dei conflitti, delle guerre e del degrado socioeconomico.
Dal punto di vista politico, la ricerca della terra e delle risorse naturali portò in passato allo sfruttamento degli africani attraverso la colonizzazione e ha dato poi origine agli attuali conflitti. Nell’era postcoloniale, le questioni relative alle risorse naturali, come il possesso della terra, continuano a essere alla base dell’evoluzione delle relazioni in evoluzione tra Stati e cittadini e di molti conflitti. Per esempio, le disuguaglianze relative all’uso e all’accesso alla terra sono state e continuano a essere la ragione principale dei conflitti fondiari in Africa.
Ci sono diverse sfide chiave legate alle risorse naturali all’interno dell’Africa. Alcune di queste includono limitazioni nel processo decisionale inclusivo sull’uso della terra; acquisizioni di terra su larga scala (land grabbing) che si traducono in politiche di investimento che non fanno gli interessi della popolazione, e l’emarginazione per quanto riguarda l’accesso alle risorse comuni da parte di popolazioni vulnerabili.
Tra quelli mal governati si trovano anche Paesi ricchi di risorse naturali, e la letteratura cita casi in cui i governi centrali sono stati identificati come i principali istigatori dei conflitti fondiari in Africa.
La soluzione a questi nodi irrisolti di buon funzionamento dei processi partecipativi e della ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti sul controllo fondiario in Africa non può venire dagli interventi internazionali. È anzitutto il protagonismo e il coinvolgimento pieno delle comunità nei processi decisionali che può rompere questa lunga storia di conflitti a bassa intensità, che non ricevono la dovuta attenzione da parte di molti mass media in Occidente.
Purtroppo, i conflitti fondiari continuano, con un incremento in termini di intensità e frequenza in alcuni Paesi dell’Africa subsahariana. Tutto ciò aggrava anche le disuguaglianze ereditate dai regimi coloniali e ha creato nuove piattaforme per le ingiustizie sociali e l’instabilità politica, che si oppongono alla pace, alla giustizia sociale e all’uguaglianza.
È uno dei paradossi dell’Africa di oggi: da un lato, nel corso degli anni, in termini relativi si registrano miglioramenti dell’impronta democratica e di sviluppo dell’Africa; dall’altra, l’Africa non si scrolla di dosso l’etichetta di continente di guerre civili, Stati in crisi, comunità in lotta tra loro, conflitti tra agricoltori e pastori, popolazioni locali e migranti, insurrezioni e estremismi violenti in continua crescita e uccisioni insensate di cittadini vulnerabili.
Si potrebbe anche aggiungere che la proliferazione delle armi leggere e di piccolo calibro sta ora trasformando il paesaggio politico, economico, demografico e socioculturale dell’Africa e lo sta facendo in modo cruento. Infatti nel contesto di conflittualità aperta o latente diffusa nel continente, questa “novità” diventa uno dei fattori dell’escalation di conflitti e instabilità non solo nelle zone violente dell’Africa, ma anche in zone relativamente pacifiche – come Botswana, Seychelles, isole Comore – e nelle sacche pacifiche all’interno di Stati a rischio di conflitto, come Nigeria, Sudafrica, Kenya e Tanzania, creando inoltre maggiore spazio di movimento per la criminalità. Ma questo è un altro discorso, peraltro oggetto in questi mesi di interessanti analisi da parte di studiosi africani.
Foto Credits: Clay Gilliland, Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0) attraverso Flickr