Proteste in Armenia
YEREVAN – «Aranc Nikol Hayastan» (“Armenia senza Nikol”) è lo slogan scandito dalle migliaia di manifestanti che dal 17 aprile protestano nelle strade della capitale armena chiedendo le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan. I partiti di opposizione affermano che il premier si prepara a firmare un trattato di pace con l’Azerbaigian, cedendo definitivamente a Baku il Nagorno-Karabakh. Per questo motivo, quasi ogni giorno a Yerevan si susseguono le proteste. La mattina del 3 giugno le manifestazioni hanno portato all’intervento delle forze dell’ordine, dopo che i manifestanti si erano radunati per chiedere le dimissioni del premier accerchiando la sede del governo e poi tentando di bloccare le uscite dall’edificio. Sono state una cinquantina le persone, tra civili e agenti di polizia, rimaste ferite durante gli scontri all’incrocio tra le strade Proshyan e Demirchyan.
È in questo contesto che giovedì 9 giugno il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov si è recato a Yerevan. L’obiettivo di Mosca – da cui l’Armenia dipende, e non soltanto per il gas – è raggiungere un accordo di pace tra l’Armenia e l’Azerbaigian per risolvere il conflitto nel Nagorno-Karabakh, territorio conteso fin dal crollo dell’Unione Sovietica. Iniziato il 27 settembre 2020, in 44 giorni il conflitto ha mietuto 6500 vittime di cui la metà anziani, si legge nel report Armenia: Last to flee: Older people’s experience of war crimes and displacement in the Nagorno-Karabakh conflict di Amnesty International. L’ultimo episodio di questa guerra si è concluso con l’intervento diplomatico di Mosca, che il 10 novembre 2020 ha imposto il cessate il fuoco e permesso agli azerbaigiani di accaparrarsi parte dei territori che l’Armenia controllava da decenni.
Il cessate il fuoco ha umiliato gli armeni, consapevoli di aver perso non soltanto il 30 percento del Karabakh, ma anche i territori circostanti occupati a partire dalla fine della guerra del 1994 con l’Azerbaigian. Poco per volta, l’iniziativa è passata all’Unione Europea, che ha guidato il processo di normalizzazione nei rapporti tra Armenia e Azerbaigian, ovvero i colloqui di pace, la delimitazione dei confini, la riapertura dei collegamenti e dei trasporti. Ed è a Bruxelles che ad aprile e maggio si sono tenuti le trattative, mediate dal presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, tra il premier armeno Pashinyan e il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev. Ora, la leadership russa è determinata a mantenere una qualche forma di controllo su quelle repubbliche indipendenti, un tempo facenti parte dell’impero sovietico.
Tre milioni di abitanti, un tasso di crescita annuo della popolazione dello 0,2 percento, un’aspettativa di vita di 75 anni, due persone su tre residenti in un contesto urbano: dati che lascerebbero supporre una normalità e un benessere di stampo europeo. A suscitare qualche preoccupazione è però il tasso di povertà: nel 2020, prima della pandemia di Covid-19, il tasso di disoccupazione era al 20,2 percento e il 9,8 percento degli armeni viveva al di sotto della soglia di povertà, ovvero con meno di 3,20 dollari al giorno. E proprio il dato sulla povertà contrasta con l’opulenza ostentata nelle pubblicità all’aeroporto di Yerevan e nel centro della capitale, dove ci sono le vetrine delle grandi firme del lusso – Emporio Armani, Hugo Boss, Ermenegildo Zegna, Burberry – accessibili ai nuovi ricchi.
Il divario tra ceti sociali è evidente allo straniero quando attraversa le vie di Yerevan per fare la spesa: dal fruttivendolo in una via centrale della capitale le albicocche costano tra i 2500 e i 5800 dram al chilo (5,7-13€), le fragole 2300 dram (5,27€), le pesche e le prugne 3800 dram (8,72€). A contribuire alle difficoltà economiche di questo Paese del basso Caucaso, accessibile via terra soltanto dalla Georgia oppure dall’Iran, è anche il fatto che, in seguito alle pressioni dell’Azerbaigian, l’Armenia è rimasta esclusa dalla rotta dell’oleodotto BTC, che parte da Baku e passa per Tbilisi in Georgia prima di approdare al porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo. Di conseguenza, le autorità di Yerevan non incassano le royalties per il passaggio del greggio sul loro territorio.
È in questo difficile contesto economico, esasperato dalla pandemia di Covid-19, che il governo armeno ha perso credibilità e autorevolezza, ed è anche per questo che i dimostranti che manifestano nelle strade di Yerevan chiedono le dimissioni del premier Nikol Pashinyan. Nelle altre città la situazione non è granché migliore: in passato il primo ministro non era stato in grado di raggiungere le città nel sud del Paese perché i residenti della regione di Syunik avevano bloccato le strade, inclusa l’autostrada Yerevan-Goris, impedendo il passaggio del convoglio di Pashinyan. I confini con l’Azerbaigian e la Turchia restano chiusi; al controllo passaporti dell’aeroporto di Yerevan un timbro delle autorità di Baku può comportare un vero e proprio interrogatorio.
Mentre i dimostranti manifestano per le vie di Yerevan, a incutere timore nell’osservatore straniero è il crescente nazionalismo intrecciato all’intolleranza, non soltanto nei confronti dei turchi e degli azerbaigiani. Uno degli slogan ricorrenti durante le proteste è infatti «Via i turchi dall’Armenia», laddove per turchi si intendono, in senso lato, anche le minoranze turche in Armenia. In ogni caso, nel Paese sono presenti altri gruppi etnici e religiosi. Nell’ottobre 2019 gli Yazidi, per esempio, hanno aperto i loro primi centri di fede. Nel giugno 2020 il governo di Yerevan ha dichiarato che l’Armenia si era unita all’ International Religious Freedom Alliance, ma secondo la testata giornalistica Jam News l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle minoranze religiose e dei non credenti resta problematico.
Foto Credits: michael_swan, Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso Flickr