Giustizia di genere e ambiente: una breve panoramica dell’America Latina
L’America Latina è nota come la regione che racchiude circa il 50% della biodiversità globale, e comprende alcuni tra i paesi più megadiversi al mondo. Ospita un quarto delle foreste tropicali globali e altri ecosistemi ricchi di specie, come i bacini dell’Amazzonia e del Petén, le Ande, El Chaco, Pantanal e Mata Atlantica, per citarne alcuni. L’enorme estensione di queste aree ricche di risorse è esattamente ciò che consente alla regione di avere una struttura così produttiva. Ciò ha un netto effetto sulla vita delle donne, che continuano a dover affrontare barriere strutturali difficili da superare, anche a causa dei modelli culturali patriarcali, discriminatori e violenti, propri di questa regione.
A prima vista, capire la stretta correlazione tra l’attuale crisi ambientale e la questione di genere può risultare difficile mentre, in realtà, proprio questo nesso è parte integrante delle cause profonde della crisi stessa. Scopriamo così che le donne non solo sono le più colpite dalla perdita di biodiversità, dall’inquinamento, dai cambiamenti climatici e dall’insicurezza alimentare, ma anche le meno responsabili nel crearle.
Allo stato attuale, il dibattito sull’ambiente tende a considerare le questioni ambientali come problemi per la scienza e non come questioni di giustizia sociale, e le cosiddette soluzioni trascurano in gran parte questo dato di fatto. Ma guardare a questi problemi attraverso una lente di genere (cioè da una prospettiva femminista), può aiutarci comprendere meglio le “cause interdipendenti della distruzione sociale e ambientale”.
La giustizia di genere si riferisce all’uguaglianza e alle pari opportunità tra uomini, donne e persone di tutti i sessi, e al pieno riconoscimento dei loro diritti fondamentali. Storicamente, nel mondo la discriminazione di genere è sempre esistita: dalle norme culturali e dagli stereotipi che impediscono alle donne l’accesso all’istruzione, al marcato divario retributivo di genere (salari più bassi); dalle leggi che negano loro il diritto di possedere beni materiali anche se ereditati, a quelle che impediscono loro di accedere al mercato del lavoro; dal matrimonio forzato alle mutilazioni genitali femminili, e l’elenco potrebbe continuare… Eppure il contributo femminile è stato fondamentale per lo sviluppo umano, visto che, per esempio, tradizionalmente ricade sulla donna l’onere della cura della famiglia, anche noto come “lavoro domestico e di cura non retribuito”, compresa la cura dei giovani, degli anziani e dei malati. In effetti, un rapporto delle Nazioni Unite del 2016 afferma che “l’assistenza non retribuita e il lavoro domestico valgono dal 10 al 39 per cento del Prodotto interno lordo”, quindi non sorprende che le donne costituiscano la maggioranza dei poveri nel mondo. Le cifre relative all’America Latina e i Caraibi mostrano che, rispetto agli uomini, il tempo che trascorrono a fare lavori domestici e di cura non retribuiti è 2,8 volte maggiore.
Dal momento che la giustizia di genere è una questione di giustizia sociale strettamente connessa al degrado ambientale, la teoria ecofemminista ci aiuta a capire come il razzismo, la discriminazione di genere e il degrado ambientale finiscano per consolidare i sistemi oppressivi basati su una struttura patriarcale che perpetua la disuguaglianza e il distacco del genere umano dalla natura. In un tale sistema, c’è una dicotomia concettuale tra il “maschile” dominante e il “femminile” subordinato, quindi “madre natura” può essere oggetto di sfruttamento. Questa concezione occidentale, secondo la quale la società domina la natura e gli uomini dominano naturalmente le donne, emargina allo stesso tempo entrambe. È sempre più evidente il nesso tra salute planetaria e salute femminile. Per esempio, è stato riconosciuto che le donne sono più esposte alle tossine e all’impatto dell’inquinamento, compresi i rifiuti pericolosi e le sostanze chimiche, che possono creare enorme danno a madri e figli, in particolare durante la gravidanza e l’allattamento. Pertanto, la superiorità morale attribuita a colui che domina consente anche il verificarsi di altre ingiustizie basate sul genere, sulla razza e sulla classe. È importante riconoscere che questa non è una mera politica identitaria, ma piuttosto una lotta radicata nell’intersezionalità.
Prima della colonizzazione, alcune società in America Latina si fondavano su sistemi matriarcali. Successivamente la situazione è cambiata e si è imposto il “tropocentrismo maschile” coloniale occidentale, che ha contribuito a far scomparire le preziose conoscenze e il contributo femminile alla conservazione della biodiversità, alla sovranità alimentare e alla lotta ai cambiamenti climatici, insieme a molte altre conoscenze indigene e di genere. Per una regione la cui economia dipende in gran parte dalle risorse naturali, e che è sempre più colpita dall’estrattivismo – ovverosia il cambiamento dell’uso del suolo per lo sfruttamento e l’accaparramento delle terre, accompagnato da sfratti, sfollamenti e violenze – non avere voce in capitolo comporta ulteriori ostacoli all’emancipazione femminile e alla conquista dei diritti umani fondamentali.
Una prospettiva di genere in una governance ambientale efficace
È ampiamente riconosciuto che le donne e gli uomini hanno ruoli differenziati nell’uso e nella gestione delle risorse naturali, e che le prime sono più suscettibili all’impatto dei cambiamenti climatici; inoltre, nonostante il fatto che globalmente costituiscano la maggior parte dei piccoli produttori alimentari, le donne hanno maggiori probabilità di soffrire di fame, malnutrizione e malattie correlate, a causa di un’iniqua distribuzione del potere che, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), è particolarmente marcata nella regione latinoamericana; tra l’altro, se il capofamiglia è una donna le famiglie hanno maggiori possibilità di essere povere. Tuttavia, le politiche per la conservazione della biodiversità, o quelle sui cambiamenti climatici e la sicurezza alimentare ignorano in gran parte questa situazione.
Le donne rurali dipendono più spesso dalla biodiversità per il loro sostentamento, mentre gli uomini tendono di più a occuparsi della commercializzazione di prodotti derivati, come il legno per la produzione di legname o carbone. Nei paesi in via di sviluppo molte indigene dipendono dalla generosità della natura per il loro sostentamento poiché sono responsabili della preparazione del cibo, della conservazione dei semi, del recupero dell’acqua, della raccolta di piante medicinali, della raccolta di legna da ardere per cucinare e riscaldarsi, nonché di altri prodotti della foresta a parte il legno (come frutta, noci, fibre). Dal momento che donne e ragazze trascorrono più tempo a contatto diretto con le risorse naturali, sono depositarie di conoscenze tradizionali fondamentali e possono essere le prime ad accorgersi che una risorsa è esaurita e/o se si è verificato un cambiamento climatico. Se l’accesso a queste risorse è limitato o negato, si vedono costrette a percorrere distanze più lunghe per procurarsi le risorse di cui hanno bisogno, esponendosi ad altri rischi come malattie o persino violenze, inclusi gli stupri.
Quindi, la salute degli ecosistemi è importante al fine di garantire la sopravvivenza di coloro che dipendono direttamente da essa, ma contano anche i diritti di proprietà delle terre. Di solito, la terra su cui molte donne e le loro famiglie tradizionalmente lavorano non è di loro proprietà. Di sicuro hanno meno beni capitali e meno diritti di possedere le terre, e questo è uno dei principali fattori alla base dell’impatto differenziato sui due sessi. L’accesso alla proprietà e al controllo delle risorse naturali storicamente radicato nei sistemi patriarcali contribuisce alla femminilizzazione della povertà e perpetua le disuguaglianze di genere. Questo divario patrimoniale di genere in America Latina è particolarmente significativo e presenta un’importante correlazione con la governance delle risorse naturali. La distribuzione dei terreni agricoli della regione è riconosciuta come la più diseguale al mondo e, secondo le stime di Oxfam, l’1% delle aziende agricole occupa più della metà delle terre produttive, mentre l’80% delle attività agricole sono svolte da piccole aziende familiari relegate in aree vulnerabili che costituiscono solo il 13% delle terre. Le poche donne che possiedono effettivamente dei terreni sono comunque svantaggiate, in quanto possono incontrare maggiori difficoltà nel far valere i loro diritti e nel trovare accesso ai mercati, al credito e all’assistenza tecnica.
Dato che donne e ragazze affrontano disuguaglianze multiple e incrociate, hanno meno opportunità di accedere all’istruzione e perciò non è concesso loro di partecipare alle decisioni che le riguardano. In molti contesti rurali del Sud del mondo, tradizioni culturali e opinioni obsolete non consentono alle ragazze di frequentare la scuola. Di conseguenza, abbiamo notato che negli incontri tenuti con alcune comunità, gli uomini costituivano la maggioranza dei partecipanti. Infatti, mentre conducevamo un progetto con le comunità Tzotzil in Chiapas, in Messico, le donne sono state presenti solo a uno dei vari incontri organizzati su nostra richiesta e, dal momento che non parlavano spagnolo ma solo la loro lingua madre, sono state automaticamente escluse sia dalla partecipazione al dibattito che da qualsiasi decisione presa successivamente. Inoltre, mariti, padri o altri membri della famiglia possono vietare alle donne di partecipare alle riunioni o ad altri incontri. Questa mancanza di partecipazione spesso si traduce in decisioni che ne trascurano i bisogni e le aspirazioni, aggravando lo squilibrio di potere già esistente.
Nel novembre 2018, un gruppo di contadine di Chachirí a Santander, in Colombia, ha vinto il primo premio nazionale nello speciale concorso dedicato al miele colombiano. Questo è solo uno dei risultati raggiungibili quando le donne riescono a superare le molte barriere imposte loro. Dietro questo premio, c’è una storia di lotte per sconfiggere la stigmatizzazione, un processo che ha mostrato di cosa sono capaci e l’importanza di sostenere le loro iniziative. All’inizio, molte di loro hanno dovuto affrontare numerosi ostacoli per partecipare alle riunioni periodiche o sono state prese in giro per aver tentato di infrangere le tradizioni culturali, ma oggi servono da esempio per le loro comunità, e sono sempre di più quelle disposte a unirsi ai loro sforzi per perseguire il “Buen Vivir” (una visione pluralistica del mondo prevalente tra le comunità indigene dell’America Latina per il cui sviluppo le donne sono fondamentali; Eduardo Gudynas, noto analista dei conflitti ambientali nella regione, lo spiega come “una posizione decoloniale che promuove una nuova etica che bilanci la qualità della vita, la democratizzazione dello Stato e la preoccupazione per gli ideali biocentrici“).
Nei paesi in via di sviluppo le donne rappresentano circa il 43% della forza lavoro agricola e hanno un ruolo chiave in tutte le fasi della produzione alimentare, come la raccolta delle sementi, la preparazione del terreno, la rimozione delle erbacce, il raccolto e lo stoccaggio, la trasformazione degli alimenti e l’allevamento (in alcune regioni, queste ultime due attività costituiscono un’importante fonte di reddito supplementare; in realtà, si stima che quasi i due terzi dei 600 milioni di allevatori di bestiame poveri nel mondo siano donne). In molte comunità latinoamericane le pratiche ancestrali riguardanti la supremazia alimentare sono incentrate su di loro, come nelle comunità indigene amazzoniche, in cui sono responsabili del ‘Chagra‘, un pezzo di terra dove coltivano il cibo e le piante medicinali per il consumo e che serve anche come luogo di valore spirituale e culturale. Allo stesso modo, nelle comunità mesoamericane, hanno la responsabilità della “Milpa“, un pilastro dell’agricoltura familiare dove, per secoli, hanno custodito le loro conoscenze tradizionali e la loro cultura, promuovendo la conservazione dei semi, la salute del suolo e il benessere ambientale alla base della loro sopravvivenza.
Le politiche agricole sono state “cieche” di fronte alle questioni di genere e fino a oggi il ruolo femminile, fondamentale per la produzione di cibo e per l’assistenza alla famiglia, è stato progressivamente ignorato, mentre il focus delle discussioni sulla produzione alimentare si è andato spostando sull’agricoltura commerciale e industriale, in cui una manciata di multinazionali controlla da sola una parte significativa della produzione alimentare mondiale. L’America Latina offre l’esempio più chiaro e terribile di questo fenomeno. Molte contadine nelle comunità indigene e rurali del Sudamerica hanno subito l’impatto dell’accaparramento delle terre, poiché la concentrazione della terra sulla soia, la canna da zucchero, l’olio di palma, il bestiame e la produzione di altre materie prime sposta sia le comunità che le possibilità di portare avanti un’agricoltura di sussistenza. In questa situazione, le donne sono state in prima linea nella lotta contro il controllo delle corporation rivendicando la giustizia sociale, compresa la giustizia climatica e di genere. Il Paraguay offre un buon esempio di tale resistenza. Di fronte alla crescente deforestazione, all’accaparramento delle terre e all’inquinamento causato dalla vasta espansione agroindustriale delle monocolture di soia e della produzione di carne bovina per le esportazioni, gruppi femminili appartenenti a varie organizzazioni che tutelano i diritti dei contadini hanno unito le loro forze per proteggere i loro mezzi di sussistenza. Hanno affrontato la polizia e altre forze di sicurezza violente e sono state perseguitate e criminalizzate per aver difeso i loro territori e rivendicato il loro diritto alla sovranità alimentare. Gli sgomberi e gli sfratti le espongono maggiormente a situazioni di violenza domestica e altri abusi; l’irrorazione di pesticidi ha raggiunto le comunità limitrofe causando malattie e aumentando il carico del lavoro di cura che pesa sulle spalle di donne e ragazze e, in alcuni casi, i residui di pesticidi dovuti all’irrorazione aerea hanno ucciso alcuni membri delle comunità, compresi i bambini. Silvino Talavera era un bambino paraguayano che aveva undici anni quando fu accidentalmente irrorato coi pesticidi mentre passava vicino a un campo di soia. Morì pochi giorni dopo per avvelenamento.
C’è una maggiore consapevolezza della vulnerabilità femminile di fronte ai cambiamenti climatici: le lavoratrici della terra e le indigene devono adattarsi alla crescente scarsità d’acqua, alla variabilità climatica, ai disastri naturali, alle epidemie di parassiti, ai cambiamenti del ciclo delle precipitazioni e ad altri impatti dei cambiamenti climatici sulla produzione agricola; a seguito di eventi meteorologici estremi, muoiono più donne che uomini (o muoiono prematuramente) a causa di una varietà di fattori, tra cui la discriminazione di genere e altri fattori culturali, come, per esempio, il fatto di non saper nuotare e la mancanza di accesso alle risorse e alle informazioni. Secondo la Banca mondiale, l’America Latina è una delle regioni più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici, con un impatto economico importante che potrebbe raggiungere i cento miliardi di dollari all’anno entro il 2050. Le donne della regione stanno conducendo la loro lotta per la giustizia climatica: dalle Ande peruviane, dove hanno fatto ricorso alle loro conoscenze ancestrali recuperando varietà di semi che potrebbero far fronte meglio ai cambiamenti climatici, a quelle del movimento Landless (MST) in Brasile, che hanno protestato tenacemente e si sono opposte alle corporation responsabili dell’aumento delle emissioni di gas serra e, quindi, dei cambiamenti climatici.
Gli attuali approcci per affrontare il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’insicurezza alimentare non sono riusciti a considerare correttamente le questioni di genere, normalizzando e persino intensificando le disuguaglianze, aggravando la dipendenza e l’emarginazione di genere. C’è bisogno di un cambiamento. Possiamo guardare alle donne latinoamericane per aprire la strada, e sostenere adeguatamente le loro iniziative può fare un’enorme differenza. Per esempio, gli approcci integrati adottati dalle comunità che lottano per il “Buen Vivir “si sono dimostrati i modi più efficaci, basati sui diritti e socialmente equi, per affrontare le attuali sfide ambientali, restando al tempo stesso attenti alle questioni genere. Promuovere una partecipazione attiva delle donne alle decisioni che le riguardano può contrastare le strategie imposte dall’esterno nella governance delle risorse naturali, che negano il loro contributo, ne ignorano i bisogni, e che finora si sono dimostrate fallimentari. C’è bisogno di maggiori sforzi da parte dei governi, delle agenzie e delle istituzioni che guidano il processo decisionale sull’ambiente se vogliamo riuscire ad affrontare le attuali crisi planetarie.
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