In libreria – Human Rights in Turkey. Assaults on Human Dignity
Capitolo "Discrimination Based on Religion: A Complex Story in Turkey" di İştar Gözaydın *
Il libro “Diritti umani in Turchia, aggressioni alla dignità umana” (Human Rights in Turkey, Assaults on Human Dignity), curato da
pubblicato da Springer nel 2021, prende in esame la transizione della Turchia da paese autoritario -dalla sua fondazione nel 1923 e nei decenni successivi- ad un progressivo, lento e sempre intermittente miglioramento, nel senso di un’apertura verso la democrazia, per infine tornare nuovamente verso l’autoritarismo, in maniera anche abbastanza profonda dopo il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016. Per analizzare tale evoluzione e regressione gli autori si servono delle lenti dei diritti umani e delle libertà concesse a varie tipologie di minoranze, sia religiose che civili e dipanano un quadro per niente confortante.Il libro offre una visione chiara e soprattutto storica dell’evoluzione/involuzione della democrazia, i problemi che riguardano i diritti umani ed il trattamento delle minoranze etniche, culturali e religiose. Sin dalla fondazione della Repubblica di Turchia, l’esercito ed i media sono stati la bocca di fuoco principale dei regimi oppressivi, secolari e nazionalisti del paese. Dopo un periodo iniziale di riforme, anziché eliminare le strutture dello stato autoritario Recep Tayyip Erdoğan si è impossessato delle leve del potere, ha rivolto la propria azione contro i rivali politici ed ha infine trasformato la Turchia in un regime governato da una sola persona, compiendo reiterate violazioni dei diritti umani.
Questo libro racconta le conseguenze delle misure prese dopo il fallito colpo di stato che hanno inciso negativamente sullo sviluppo della democrazia e dei diritti umani in Turchia, alterando il corso della storia della nazione. Dallo stato di emergenza si è in breve passati ad uno stato più autoritario. Tra le conseguenze delle azioni prese c’è stato l’imprigionamento di numerosissimi oppositori e di politici curdi eletti democraticamente, la chiusura di mass media, il licenziamento di accademici ed il mal utilizzo della giustizia penale per vittimizzare la popolazione, comprendendo anche violazioni diffuse dei diritti umani, tortura, maltrattamento dei prigionieri, imprigionamenti senza il diritto ad un processo giusto.
Il volume esamina alcune delle più spinose problematiche legate alla democratizzazione in Turchia e ai diritti umani, incluse le ragioni che hanno portato al decadimento della democrazia e cosa è successo come conseguenza di ciò. Tra queste il deterioramento del sistema educativo, la riduzione della stabilità economica, l’assenza del “rule of law” e “processo giusto”, una radicale trasformazione del paese e le violazioni dei diritti umani universali.
Infine il libro chiarifica quali sono le conseguenze di breve e lungo periodo -dovute alle misure prese dopo il fallito colpo di stato- legate al peggioramento della situazione, compresi gli impatti sugli individui, sulle istituzioni (come l’educazione, i media ed il sistema della giustizia penale), l’economia e la posizione della Turchia all’interno della comunità internazionale.
Il capitolo in esame, “Discriminazione religiosa: una storia complessa in Turchia” (Discrimination Based on Religion: A Complex Story in Turkey) di Iştar Gözaydın, soprattutto nella sua prima parte, ha lo scopo di creare un quadro storico in grado di fornire gli strumenti al lettore per comprendere come il complicato rapporto tra stato turco (e prima ancora ottomano) e religione sia cambiato più volte nel corso dei secoli e come non abbia seguito un’evoluzione lineare ed, infine, come si è arrivati all’attuale presenza di discriminazioni verso diverse comunità sia non musulmane che musulmane non sunnite. L’autrice spiega come le discriminazioni sono rivolte “sia verso gli individui che verso i gruppi religiosi non musulmani”, anticipando così il soggetto principale del suo studio, dimostrato grazie a tre “casi studio” che riguardano le discriminazioni subite (in passato ed anche adesso) dalla minoranza Alevita.
Nell’introduzione Gözaydın presenta la Turchia come un progetto di modernità (sin dalla sua fondazione nel 1923), e stabilisce -su questo punto- una fondamentale continuità con la fine del tardo periodo ottomano dato che l’intento dei governanti sia dell’impero che della giovane repubblica era quello di trasformarla in un “corpo moderno ed occidentale” e con essa tutta la società turca. Secondo i “fondatori della patria” e, nello specifico, secondo la visione dell’élite kemalista al potere, la religione veniva percepita come rivale dello stato e minaccia alla modernità ed era quindi da rimuovere o comunque da relegare alla sfera privata ed individuale, non a quella pubblica.
Partendo dal periodo kemalista a partito unico tra gli anni 1923 e 1945, Gözaydın evidenzia in particolare i momenti che hanno spinto la Turchia verso una certa apertura democratica ed anche quelli che invece hanno visto i diritti dei cittadini venire limitati.
Le concessioni del CHP (partito repubblicano kemalista) ai conservatori della fine degli anni Quaranta hanno rappresentato un passo in avanti in ottica democratica ma, allo stesso tempo, hanno dimostrato la voglia di rivalsa e l’abilità di questi partiti -il primo è il Demokrat Parti– nell’utilizzare i sentimenti religiosi a proprio vantaggio e che nel 1950, dopo essere arrivato al potere da un mese, ha ripristinato l’ezan (chiamata alla preghiera) in arabo.
Per quanto riguarda i ‘momenti più bui’ della repressione delle comunità non musulmane in Turchia, vengono ricordate le rivolte ‘pogrom’ del 1955 contro i greci di Istanbul definite “il peggior errore della storia turca moderna”.
Un passo in avanti significativo viene prodotto dalla Costituzione del 1961 con un sensibile miglioramento del livello di diritti e libertà dei cittadini, e la formazione di nuovi partiti politici, cui si giunge -ironicamente- dopo (se non addirittura grazie a) il colpo di stato del 1960. L’apertura sancita dalla costituzione del ‘61 favorisce le forze conservatrici con l’Adalet Partisi di Süleyman Demirel che continua le politiche liberiste e conservatrici del Demokrat Parti e l’istituzione nel 1970 del primo partito politico pro-islamico, il Milli Nizam Partisi -che verrà chiuso nel 1971- in concomitanza del secondo colpo di stato.
Il Coup d’Etat del 1971 sancisce un peggioramento del grado di libertà in Turchia -mentre parallelamente viene fondato nel ‘72 il Milli Selamet Partisi (MSP) di Necmettin Erbakan- e dà il via ad un decennio in cui lo stato attacca soprattutto la ‘sinistra’. In particolare dopo che nel 1975 si giunge alla coalizione di destra chiamata “Fronte Nazionale”, guidata da Demirel, con MSP e MHP (partito nazionalista) in cui i militanti di destra si sentono legittimati ad attaccare gli oppositori politici con l’emblematico caso di Kahramanmaraş del 1978, in cui le tensioni altissime si manifestano negli attacchi contro la comunità alevita (che supportava i repubblicani del CHP) e sfociano in più di 100 morti, nella distruzione di 210 case e 70 uffici.
Il colpo di stato del 1980, poi, produce una costituzione meno libertaria della precedente ma, nel corso del decennio successivo, nonostante il generale Evren riesca ad ottenere la supervisione delle attività politiche da parte dell’esercito, si assiste all’emersione e formazione delle più importanti organizzazioni di diritti umani tutt’ora esistenti.
Gli anni Novanta rappresentano un decennio di violenze, sia per i Kurdi che per gli Aleviti: contro gli Aleviti avvengono il massacro di Sivas nel 1993 ad opera di un fondamentalista islamico [35 morti e più di 50 feriti gravi] e quello del quartiere Gazi di Istanbul nel 1995, con dichiarazioni ufficiali che difendevano i colpevoli (tutt’ora impuniti) [22 morti e 155 feriti gravi].
Ad inizio 1997 lo staff del generale richiede -tramite un memorandum– un più stretto controllo sulle fratellanze islamiche con varie iniziative (riduzione delle scuole per imam e corsi sul Corano, chiusura radio e TV anti-secolari, proibizione del Hijab) e si arriva nel 1998 alla chiusura del più grande partito in parlamento, il Refah Partisi capeggiato da Erbakan, per decisione della corte costituzionale.
La vittoria impressionante dell’AKP nel 2002 rappresenta un cambiamento profondo nella politica turca. Ciò nonostante nel 2007 le presunte minacce al regime secolare e, l’anno successivo, il processo di chiusura del partito AKP che però viene respinto (6 su 7 membri della corte costituzionale) con il verdetto del 2009.
In ogni caso, con le proteste per Gezi Parkı del 2013, il conseguente “processo 17-25 dicembre”, e poi il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 si è entrati nella penultima fase della “evidente discesa in direzione dell’autoritarismo”. Nel 2018 con la vittoria alle elezioni presidenziali Erdogan cambia il sistema parlamentare in presidenziale (per, in sostanza, governare da solo).
Il Diyanet (ministero per gli affari religiosi) è stato trasformato in un utile strumento per disseminare nuove politiche statali sia a livello interno che internazionale. Dall’arrivo al potere dell’AKP è diventato più potente, rappresentativo e popolare, ha ricevuto concreti vantaggi dal nuovo partito al potere ed ha chiaramente favorito l’Islam sunnita a detrimento di tutte le altre forme di credenze religiose (o degli atei e degli agnostici).
A questo punto, l’autrice comincia ad entrare nei dettagli del suo studio servendosi di vari rapporti di monitoraggio delle libertà religiose e della loro messa in pratica in Turchia per dimostrare come alcune violazioni e molti atti discriminatori siano tuttora in corso. Gözaydın si concentra su due di questi processi di monitoraggio particolarmente legati alla libertà di religione. In primo luogo, l’inserimento della Turchia come “Countries of particuar concern” negli anni 2012 e 2013 e poi come other countries and regions monitored da parte della commissione governativa statunitense indipendente e bipartisan United States Commission on International Religious Freedom (USCIRF). In secondo luogo, l’iniziativa Freedom of Belief, lanciata nel 2011 con lo scopo di monitorare i problemi legati a libertà di pensiero, credenza e religione in Turchia e le libertà di manifestare e praticare una religione o credenza.
L’autrice passa poi ad enumerare le 5 principali violazioni delle libertà di religione e credenza:
I- Diritto di (far) cambiare religione e credenza
E’ sempre stato uno dei diritti più contestati in Turchia. A riprova di ciò è evidente la difficoltà vissuta dalle attività missionarie: nel 2006 padre Santoro (prete cattolico) viene ucciso a Trabzon (Trebisonda) da un ragazzo nazionalista, nel 2007 un altro giovane accoltella un prete cattolico ad Izmir (Smirne). Sempre nel 2007 un protestante tedesco e due protestanti convertiti turchi vengono uccisi a Malatya da cinque giovani turchi dopo ore di tortura.
II- Il discorso diffamatorio che prende di mira i gruppi di credenza minoritari
Sebbene sia stato proprio l’AKP ad avviare sviluppi incoraggianti riguardo ai diritti delle comunità non musulmane, il discorso inerente la superiorità dell’Islam rispetto le altre credenze è stato pronunciato dallo stesso Erdoğan e questo ha facilitato l’uso di incitamento all’odio contro gruppi di non musulmani e le etichette di traditori e sfruttatori.
III- I seminari popolari
La Scuola Teologica di Heybeliada (greco-ortodossa), fondata nel 1844 per educare i religiosi ed ecclesiastici è stata legalmente chiusa nel 1971 nell’ambito di un atto di riorganizzazione dell’alta istruzione teso a proibire le attività delle scuole private. Nel periodo degli anni ‘70 aumentano le frizioni tra Grecia e Turchia per il caso di Cipro (1974) ed i seminari popolari sono stati oggetto di negoziazione politica tra i due stati. Il fatto che venga proibita la riapertura di questo seminario è una violazione dei diritti sia religiosi che educativi.
IV- I corsi obbligatori di Cultura religiosa e conoscenza dell’etica
Per i figli di cristiani ed ebrei il fatto di aver esplicitata la loro appartenenza religiosa sulla carta di identità -e che questa venga utilizzata nel passaggio dalla scuola primaria alla secondaria- rappresenta una fonte di discriminazione secondo le regole della Corte Europea dei Diritti Umani.
V- Le discriminazioni contro le comunità Alevite
I conflitti che storicamente hanno caratterizzato il rapporto tra Aleviti e Sunniti hanno mantenuto le loro identità settarie nascoste nella sfera pubblica sotto la minaccia di una severa discriminazione. Secondo un articolo di Özdalga del 2008 la frustrazione degli Aleviti riguarda in particolare: l’educazione religiosa obbligatoria a scuola, le difficoltà nell’ottenere permessi e finanziamenti per la costruzione di cemevi (luoghi di culto) e l’assenza di rappresentanza a livello statale.
L’ultima parte del saggio di Gözaydın è incentrata proprio nella spiegazione delle ingiustizie subite dagli aleviti. Negli ultimi anni si è assistito a significativi sviluppi legali da parte delle comunità alevite in Turchia attraverso alcune sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). L’autrice si sofferma su 3 importanti casi in cui la Turchia avrebbe dovuto applicare le decisioni prese dalla CEDU rivelando le discriminazioni subite dagli Aleviti negli ambiti di educazione, beneficio ricevuto dalle esenzioni fiscali per i luoghi di culto e ‘status’ delle cemevi.
- I casi di Hasan e Eylem Zengin vs Turchia e Mansur Yalcin ed altri vs Turchia
- Fondazione per l’educazione repubblicana e la cultura vs Turchia
- Izmettin Dogan ed altri vs Turchia
A guisa di conclusione la studiosa turca afferma che nonostante le decisioni della CEDU, le minoranze religiose non godono ancora di alcuna identità legale e che non ci sono progressi che vanno in questo senso.
I luoghi di culto per Aleviti, cristiani protestanti ed altri non sono riconosciuti. Gli interventi nelle procedure di elezione del patriarca armeno sono state riconosciute solo recentemente, e solo una piccola parte dei beni appartenenti a fondazioni di minoranze sono stati restituiti ai legittimi proprietari mentre un gran numero di fondazioni delle minoranze non è ancora stato riconosciuto.