Viaggiatori non per scelta: i MSNA afghani
L’Afghanistan sta vivendo un’altra tormentata fase della sua tragica storia.
Dopo quarant’anni di guerra, di violenze e di povertà, il paese non è oggi in grado di garantire e tutelare i diritti fondamentali alla sua popolazione e tra i diritti negati c’è anche quello, per i più giovani, di poter crescere tra gli affetti familiari, nella propria terra.
La guerra, l’insicurezza, il dilagare del terrorismo, la povertà, la mancanza di garanzia dei diritti individuali e le discriminazioni etniche sono le cause che determinano la necessità di allontanare i propri figli dal contesto afghano. I genitori affrontano insieme ai figli la decisione più difficile, quella di separarsi, e migliaia di giovani partono da soli, nonostante la consapevolezza che il viaggio sarà lungo e rischioso.
Non tutti sono maggiorenni: molti iniziano il viaggio da minorenni, a volte sono ancora bambini di dodici o tredici anni. Quindici è l’età più frequente.
L’impresa è estremamente difficile, soprattutto in considerazione della loro età, ma di fronte alla prospettiva di una morte quasi certa l’istinto di sopravvivenza fa superare la nostalgia della madre, la paura di essere completamente soli, la fame o il rischio del carcere.
Sono viaggiatori non per scelta, ma perché fuggono dal loro paese alla ricerca di un futuro migliore. È un intero popolo di minori in movimento che non possono immaginare appieno i reali pericoli del viaggio che li attende.
Sono vent’anni che i giovani afghani si vedono costretti a lasciare il loro paese. Non hanno mai vissuto in pace e poi si trovano ad affrontare un viaggio lungo e pericoloso, di cinque o seimila chilometri, che può durare anche anni, in condizioni terribili.
Si parte senza un progetto preciso. Da un giorno all’altro, il minore viene portato fino al confine da un genitore o da un parente e là c’è il passaggio delle consegne ai trafficanti di esseri umani. Ad ogni paese che si attraversa si passa dalle mani di un trafficante a quelle di altri: curdi, turchi, bulgari, kosovari.
La prima tratta è attraverso le montagne dell’Iran, guidati dai passeur, condividendo parti del cammino con altri ragazzi incontrati lungo il viaggio. Spesso si deve assistere alla morte dei più fragili e poi si arriva sfiancati in Turchia, dopo lunghe marce notturne tra le montagne, al gelo e con poco cibo ed estenuanti tragitti in camion per superare l’Anatolia.
In Turchia la situazione è particolarmente drammatica. Ci sono degli hub per la raccolta dei migranti a Istanbul, a Bodrum, a Izmir, dove i minori si fermano per circa un anno e vengono smistati dai trafficanti nel mercato illegale del lavoro, dove si è sottopagati e soggetti ad ogni tipo di violenza. Spesso si è anche vittime della brutalità della polizia e si può rimanere sequestrati per parecchi mesi.
Di solito la permanenza è lunga e bisogna lavorare per trovare soldi. Si dipende dai trafficanti e si vive tra violenze fisiche e sfruttamento lavorativo. Ci sono laboratori manifatturieri turchi che hanno impiantato un vero business con il lavoro minorile dei migranti.
Poi finalmente arriva la traversata verso la Grecia. C’è la paura del mare, l’ansia di salire di notte sui barconi e rimanere tante ore in balia delle correnti. E alla fine l’Europa, ci si arriva magari aggrappati sotto l’asse di un Tir, vicino al motore.
Appena sbarcati in Italia si viene catapultati in un mondo estremamente diverso da quello lasciato alle spalle, con cultura e stili di vita molto differenti, che all’inizio si fa fatica ad accettare.
I minori che intraprendono la migrazione da soli e arrivano, via terra o mare, in Europa sono chiamati con l’acronimo MSNA (minori stranieri non accompagnati). Tutti, da qualunque paese arrivino, sono tutelati dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e dal Regolamento di Dublino III del 2013, che garantisce il principio di non discriminazione e l’obbligo di presa in carico da parte dello Stato in cui il minore arriva.
Secondo Save the Children, dal 2015 ad oggi oltre 200.000 minori stranieri non accompagnati, in fuga dai loro paesi per guerre, conflitti o povertà, hanno chiesto asilo in Europa. Tra questi, il gruppo più numeroso proviene dall’Afghanistan, un luogo tra i più letali per i bambini, che sono un terzo di tutte le vittime registrate nel paese.
Arrivare in Europa dall’Afghanistan significa affrontare un viaggio molto pericoloso ma, nonostante ciò, nell’ultimo decennio si è verificato un incremento emergenziale del fenomeno per dimensione numerica, anche in termini di presa in carico nei vari paesi europei.
La presenza di minori non accompagnati afghani in Europa si comincia a registrare nei primi anni Duemila ed è aumentata in questi ultimi anni in misura sempre crescente. Si tratta esclusivamente di minori maschi tra 16 e 17 anni, ma va tenuto conto che alla partenza ne avevano spesso solo 14 o 15, alcuni solo 12.
Secondo i dati di Eurostat (Ufficio di statistica dell’UE), negli Stati membri dell’Unione Europea i MSNA rappresentano il 15% di tutti i richiedenti asilo minorenni. Più dei due terzi di loro hanno un’età tra 16 e 17 anni ed i minori afghani rappresentano il gruppo più numeroso: sono oltre 130.000 e risiedono soprattutto in Germania, Francia, Belgio, Svezia e Norvegia.
Anche l’Italia, negli ultimi anni, ha visto un forte incremento di minori non accompagnati afghani richiedenti asilo, da qualche centinaio nei primi anni del Duemila alle cifre attuali, più consistenti. L’aumento dei minori non accompagnati è conseguenza anche delle politiche più restrittive nei confronti dei profughi afghani adottate dalla UE, che rendono sempre più difficile l’ingresso degli adulti. La specificità italiana è che questi minori, una volta giunti in Italia, tentano di continuare il viaggio tramite canali non ufficiali per raggiungere altri paesi europei, soprattutto Germania e Francia.
Anche se la maggior parte di loro, dal 2017, può accedere alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, grazie alla legge 47/2017 (“Legge Zampa”) che ha migliorato la tutela e l’accoglienza, una volta giunti nel territorio italiano spariscono nel giro di pochi giorni. Si rendono invisibili e tra loro solo 1 su 7 chiede l’asilo in Italia, dato che la considerano soltanto come luogo di transito. Si rendono così ancor più vulnerabili e possono finire di nuovo in mano ai trafficanti, o ancor peggio essere inseriti in circuiti criminali o attività illegali. Ogni anno in Italia transitano, in media, circa mille minori afghani non accompagnati.
Le cifre però non possono raccontare la storia personale e la sofferenza di un minore che si trova da solo, senza affetti, in un paese straniero.
I racconti di vita di alcuni minori afghani, tra quelli che vivono a Roma, ci possono aiutare a conoscere meglio la realtà del fenomeno.
Sono giovani di 17 o 18 anni, provengono da diverse zone dell’Afghanistan e sono principalmente di etnia Pashtun o Hazara.
I loro racconti hanno tutti un fondo di tristezza. Si avverte in loro un forte smarrimento, uno sradicamento, la paura di non farcela in un paese così diverso dal proprio. Si trovano a fare i conti con cambiamenti radicali di cultura, religione, lingua, ma nello stesso tempo sono anche pieni di speranze e di aspettative per il futuro.
Per un ragazzo straniero e solo, integrarsi è un processo molto complesso; si va dai bisogni materiali o burocratici a quelli più personali. Tutti loro sono alla ricerca di protezione, di sostegno legale e di assistenza per costruire la loro nuova identità.
Questo passaggio così brusco e la percezione, da parte degli stessi minori, della provvisorietà e precarietà della loro condizione li porta spesso ad essere insofferenti verso il sistema. Del resto, i tempi limitati dell’accoglienza nei centri governativi non sembrano favorire un valido percorso di integrazione: al raggiungimento della maggiore età tutti sono obbligati ad uscire dai centri. I neomaggiorenni vedono così cessare improvvisamente diritti e meccanismi di protezione; ciò genera sentimenti di sfiducia ed è penalizzante per il loro futuro.
Tra le diverse storie raccolte, le esperienze traumatiche vissute in patria ed il racconto del viaggio occupano uno spazio molto importante nei ricordi di tutti: si tratta di eventi che hanno determinato la svolta decisiva della loro esistenza.
Sono minori fuggiti da una nazione che non offre loro alternative, come esprimono bene Ali, Akmed, Wali, Fahred e Ahad:
Ali: “Se ti senti al sicuro al tuo paese non scappi. L’Afghanistan è bello, ma non è un posto per vivere, lì si aspetta la morte.”
Wali: “Vivevo in un villaggio, all’improvviso sono arrivati quelli del Korasan (ISIS); sparavano, prendevano i ragazzi per portarli con loro a fare la jihad. Io non voglio uccidere.”
Akmed: “I miei fratelli si trovano ancora a Kabul, ho paura per loro. Tutti i giorni ci sono attentati, anche andare al mercato è pericoloso, mia madre è morta così. Invece mio padre era un militare e i talebani l’hanno ucciso”.
Durante il viaggio, questi ragazzi hanno perso tutto: il legame con il loro paese, la famiglia, la casa. Traspare l’esperienza di un’infanzia negata.
Fahred: “Mia madre mi ha detto: la tua vita è in pericolo, i talebani hanno già ucciso tuo padre; vai, salvati la vita. Mi ha accompagnato al confine con l’Iran, ha dato i soldi a un uomo che non conoscevo, un trafficante. Non l’ho più sentita, ormai sono quasi tre anni che non ne so più nulla.”
La fuga e il viaggio sono ricordi dolorosi, e sempre presenti.
Fahred: “Il viaggio è stato lungo e difficile, è durato due anni. In Iran ho camminato tanto tra le montagne, non c’era cibo e se ci fermavamo i trafficanti ci picchiavano. In Turchia ho sofferto molto, lavoravo sfruttato in un laboratorio per più di 12 ore al giorno, eravamo nascosti giorno e notte in un magazzino. Una volta sono stato preso dalla polizia, lì ti trattano con violenza, ho ancora le cicatrici.”
Ahad: “Dopo che sono ripartito dalla Turchia ho tentato di entrare in Bulgaria molte volte, sei per la precisione, ma per i troppi controlli sono dovuto tornare indietro. Diverse volte le guardie mi hanno preso e mi hanno picchiato, mi hanno tolto tutto, anche le scarpe, e portato in carcere. Dopo mi hanno rimandato in Turchia e poi ho provato con la frontiera croata, dopo vari tentativi ci sono riuscito. Sono arrivato a Udine, credevo che fosse l’Austria, ho evitato di farmi prendere. Ora sto a Roma, e voglio andare in Germania.”
Da tutte le risposte dei ragazzi emerge il desiderio di costruirsi un futuro in Italia o in qualche altro paese d’Europa. Nessuno è intenzionato a tornare in Afghanistan, tutti sono consapevoli che l’integrazione dipende molto dalla loro volontà di inserirsi e dalla motivazione ad impegnarsi per avere un futuro qui.
Wali: “No, non credo che tornerò a Konduz e non credo che ci sarà la pace con i talebani. Loro ci trattano male, bruciano le scuole, si arrabbiano se sentono suonare musica. Non mi ci vedo più in Afghanistan. L’Italia non è il mio paese, ma è sempre meglio che vivere con la guerra.”
Foto Credits: Jim Forest, European migrant crisis – Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0)
EU Civil Protection and Humanitarian Aid, Afghan refugees in Iran – Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0)
Steve Evans, Portrait of a Refugee – Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0)