Quale futuro per l’Afghanistan?
Vent’anni fa l’operazione militare “Enduring Freedom” delle truppe anglo-americane portava il suo attacco al regime dei talebani in Afghanistan, accusato di proteggere Osama bin Laden e fornire un nascondiglio ai terroristi autori dell’attentato alle Torri Gemelle.
Ero a Kabul quando, alle 20.57 del 7 ottobre 2001, gli aerei americani presero a rombare sopra di noi.
La città sarebbe stata bombardata a tappeto ininterrottamente con missili e bombe, per cinque giorni. All’alba ci fu un’esplosione assordante e un immenso bagliore avvolse la città; era stata colpita la radio talebana, Radio sharia. Qualche ora dopo fu devastato l’aeroporto della capitale. I bombardamenti colpivano indiscriminatamente: un edificio della Croce Rossa sul cui tetto sventolava ben visibile il simbolo, un grosso ospedale, alcune scuole. Partivano i primi convogli di profughi.
Il 6 novembre una parte di Kabul fu oscurata dalla cenere: l’aveva colpita una bomba di 7 tonnellate, la Blu-82. Restammo terrorizzati.
In migliaia, bambini, donne, anziani, scappavamo atterriti calpestando i morti. Si scavava tra le macerie per salvare qualcuno e una moltitudine di famiglie cercava di fuggire ovunque e con qualunque mezzo. Decine di migliaia di persone si diressero verso i confini con il Pakistan e con l’Iran. Dal cielo, insieme alle bombe, gli americani ci lanciavano aiuti alimentari accompagnati da biglietti con scritto: “questo è un dono del governo americano”.
Il 14 novembre Kabul cadeva, devastata. Sul terreno avanzava l’Alleanza del Nord, Bin Laden riusciva a fuggire, i talebani ripiegavano nel vicino Pakistan e in Afghanistan cominciava il conflitto più lungo mai combattuto dagli Stati Uniti.
Il 20 dicembre venne istituita l’ISAF (International Security Assistance Force) con il compito di stabilizzare il Paese, garantire la sicurezza, fornire addestramento all’esercito afghano e sostenere il nuovo governo di Hamid Karzai.
La guerra non è mai cessata, e secondo fonti dell’aeronautica militare statunitense ancora nel 2019 gli Stati Uniti hanno sganciato più di 7.000 bombe. Alcuni report delle Nazioni Unite stimano che in questi ultimi anni più di mille persone, ogni giorno, abbiano abbandonato le loro case.
In questi giorni le immagini di TeleTolo Kabul mostrano il cielo di Kabul pieno di elicotteri che sorvolano continuamente la città: sono i preparativi per la partenza degli occidentali. Alla popolazione locale lasciano in eredità un paese per nulla pacificato, con un alto livello di conflittualità, 159.000 morti in venti anni, milioni di profughi (più altri nel prossimo futuro), mentre più della metà del paese è controllata dagli insorti.
L’invasione occidentale, oltre a combattere il terrorismo, prometteva libertà e migliori condizioni di vita al popolo afghano, soprattutto alle donne, che durante il regime talebano erano state condannate all’invisibilità ed all’analfabetismo.
La copertura mediatica internazionale all’epoca fu alta e l’Occidente rimase scioccato nel vedere le donne che vivevano coperte dal burqua.
A distanza di vent’anni, l’attenzione dei media sul destino di questo popolo e delle sue donne si è spenta. I talebani cacciati dagli americani nel 2001 sono risorti per mano degli stessi americani che li volevano annientare e quelle donne “liberate” stanno rispolverando i burqua.
Si disse allora: “siamo qui anche per liberare le donne dal burqua”. La violenza contro le donne è tornata, l’odio non è diminuito e gli afghani vengono abbandonati al loro destino.
È di pochi giorni fa la notizia di una donna che, poiché ascoltava musica, è stata fustigata e linciata dai talebani a Herat, a poca distanza dal presidio del contingente italiano.
Dopo vent’anni i talebani non solo non sono stati sconfitti, ma sono ancora lì, più forti di prima.
Alla fine di febbraio del 2020 i talebani sono diventati gli interlocutori privilegiati del processo di pace e hanno firmato l’accordo di Doha con gli Stati Uniti, che stabiliva la cessazione della missione statunitense in Afghanistan entro il primo maggio 2021.
Il presidente americano Joe Biden ha poi fissato per il ritiro definitivo di tutte le truppe la data simbolica del prossimo 11 settembre. Anche gli alleati della NATO che li hanno seguiti in questa impresa sembrano intenzionati a ritirarsi, mentre l’ONU ha dichiarato che intende rimanere con la sua missione umanitaria di aiuto.
Alla notizia del ritiro delle truppe di occupazione, nonostante la si aspettasse da molto, a Kabul in pochi hanno festeggiato, mentre a esultare sono stati invece i talebani. In una intervista alla BBC Persian uno dei loro leader, Haji Hekmat, ha dichiarato: “l’obiettivo dei talebani è ripristinare l’Emirato islamico governato dalla sharia che venne rovesciato dall’invasione anglo-americana del 2001, combattiamo da vent’anni per questo obiettivo”.
In Afghanistan nessuno si illude che la pace che è stata proclamata segni la fine della violenza e molti temono il peggio, poiché ci sono tutti i segni che la situazione stia già degenerando. I talebani non vogliono negoziare con il governo di Kabul, c’è grande preoccupazione tra la gente e le donne sono in preda al panico.
Nel 2019 il Global Peace Index ha collocato l’Afghanistan al primo posto tra gli stati più conflittuali al mondo e la minaccia terroristica è altissima: secondo l’ONU, nel 2018, il 50% di tutte le vittime di atti di terrorismo nel mondo si sono registrate in Afghanistan.
L’Afghanistan rischia di trasformarsi di nuovo in una polveriera e la situazione sta tornando simile a quella dell’11 settembre 2001, quando due terzi del territorio erano in mano ai talebani ed il resto in quelle dei loro oppositori. E’ il preludio a una guerra civile senza fine.
L’Afghanistan rischia anche di diventare il santuario del terrorismo. Accanto ad al-Quaeda, attualmente silente ma ancora presente in undici province con migliaia di affiliati sul territorio, sono operanti altri 25 gruppi di Mujaheddin e a partire dal 2015 si è stabilito anche un insediamento dello Stato islamico, che vorrebbe far entrare l’Afghanistan nel “grande Korasan”, area che comprenderebbe anche parti dell’Iran e del Pakistan. Nel caos afghano attuale, si fanno sentire soprattutto con attentati stragisti nelle città, in particolare contro la comunità sciita e i cooperanti occidentali.
È ancora troppo presto per capire come si svilupperà la situazione, ma a Kabul tira una brutta aria, e può succedere di tutto. ToloNews trasmette le immagini della rabbia e della frustrazione della popolazione e la tensione e la paura sono fortissime. Molti negozi stanno chiudendo e in tanti, nel timore che possa riesplodere la guerra civile, si stanno preparando a lasciare il paese. Chi può sta vendendo tutto quello che ha, si cominciano a vedere gruppi di famiglie in cammino verso la frontiera con il Tagikistan e si potrebbe formare una nuova imponente ondata di profughi che cercheranno salvezza all’estero. Questa volta, sull’esempio dei siriani, migliaia di famiglie sceglieranno la via della fuga verso l’Europa.
In queste ore tanti afghani che hanno collaborato con gli occidentali, soprattutto interpreti che hanno lavorato per la missione internazionale, con le ambasciate o per compagnie americane, si sentono ancora più vulnerabili degli altri. Conoscono e temono la vendetta dei talebani: la stampa locale riporta che la resa dei conti è già iniziata, qualcuno è già stato ucciso e impiccato e molti insieme alle loro famiglie si stanno accalcando presso le basi militari occidentali. Implorano di essere portati via e alcune nazioni, come Germania e USA, hanno già concesso il visto ad alcuni collaboratori. Ad Herat c’è folla presso la sede del contingente italiano, qualcuno è riuscito a sbarcare a Fiumicino ma molti non ce la faranno e sono pronti a fuggire ovunque.
Dopo l’annuncio del presidente Biden del rinvio del ritiro delle truppe USA dal primo maggio all’11 settembre (disattendendo così gli accordi di Doha del febbraio 2020, che prevedevano il ritiro entro 14 mesi) la violenza è aumentata ulteriormente ed è iniziato nel Paese quello che molti analisti ed osservatori temevano: attacchi quotidiani, caos incontrollato, pericolo del collasso definitivo del governo di Kabul e il possibile ritorno, a breve, di una guerra civile tra governanti, talebani, milizie varie fondamentaliste presenti sul territorio ed etnie che non si sentono difese dal governo.
Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, pochi giorni fa ha ammonito le forze di occupazione: “Poiché il termine per il ritiro delle forze straniere entro la data concordata del primo maggio è scaduto, i Mujaheddin potranno adottare qualsiasi azione, in dipendenza della sovranità, dei valori e degli interessi superiori del Paese e contro le forze di occupazione, quindi agiranno di conseguenza”.
Il Dipartimento di Stato degli USA ha annunciato un alto livello di allerta ed ha espresso il timore che “gruppi terroristici e ribelli continuino a pianificare ed eseguire attentati in Afghanistan”, invitando tutti gli occidentali presenti a vario titolo ad abbandonare immediatamente il Paese.
A conferma di ciò, si è poi puntualmente verificata una serie di gravi attentati in tutto il paese e ogni giorno ci sono attacchi mirati contro i civili e le forze di sicurezza afghane.
Dal 30 aprile in poi i talebani hanno lanciato un’offensiva su vasta scala, con una media di decine di attacchi al giorno, e c’è un generale aumento della violenza. Sono stati colpiti obiettivi strategici come strade, autostrade, dighe (ultima quella, importantissima, di Dahla) e moschee e soprattutto sono state attaccate le forze governative, rimaste sole a gestire la sicurezza.
I talebani hanno fretta di insediarsi in più aree possibili contemporaneamente al ritiro delle forze occidentali. I media locali riportano che la tensione a Kabul è molto alta: i guerriglieri hanno già cominciato ad allestire posti di blocco lungo le strade ed autostrade che portano alla città, nel tentativo di accerchiarla. Anche in queste ore si stanno avvicinando; sono arrivati a circa 30 chilometri a sudovest della capitale e hanno conquistato il Distretto di Nerkhi. Il 18 maggio hanno lanciato un attacco nel distretto di Obe, vicino a Herat, e in molti stanno fuggendo per le feroci violenze che si verificano tra gruppi di militanti islamisti. Ancora, il 20 maggio hanno attaccato e preso alcuni distretti nella provincia di Laghman al confine con il Panshir e 8.500 famiglie sono sfollate a causa dei forti scontri e dei numerosi incendi. Il 21 maggio si sono avvicinati ancor più ai distretti a nord della capitale. In base alle notizie che giungono dall’area, preoccupa il fatto che stiano entrando nel territorio guerriglieri non afghani: un migliaio di pakistani starebbero supportando i talebani e da queste aree l’assalto finale a Kabul sarà molto veloce. Dalle province di Takhar, Daikundi e Baghan giungono notizie che altri gruppi jihadisti starebbero combattendo contro gli stessi talebani.
Diverse province sono cadute in mano talebana: nella provincia di Gazni, nel sud dell’Afghanistan, almeno 20 soldati hanno perso la vita e ci sono state decine di feriti. Nella provincia di Helmand c’è una battaglia ancora in atto che sta costringendo centinaia di famiglie ad abbandonare le proprie case e, secondo fonti del ministero della Difesa, altri attacchi sono in corso: l’avanzata talebana nel paese è sempre più evidente.
Nelle province di Kandahar a Sud, Herat ad Ovest, Nangarhar ad est e Balk a Nord, fonti dei media riferiscono che i talebani continuano a guadagnare terreno. Molti si interrogano sulle reali capacità delle forze governative, che nonostante l’addestramento e il sostegno finanziario ricevuto hanno scarse capacità di far fronte all’attacco talebano. Il generale statunitense McKenzie ha espresso il timore di un “collasso dell’esercito afghano”. Negli ultimi 5 mesi le truppe governative hanno abbandonato più di 200 postazioni di fronte agli attacchi dei talebani e in molti dismettono la divisa.
Negli ultimi vent’anni le violenze non sono mai cessate davvero, ma la nuova escalation di questi giorni preoccupa sempre più la popolazione che teme che il processo di pace sia stato un accordo tra talebani e Stati Uniti finalizzato soltanto al ritiro delle truppe di occupazione, non concepito per portare la pace in Afghanistan.
A dimostrazione di ciò ci sono i dati diffusi da UNAMA, la missione ONU a Kabul: sono 3.050 i morti e 5.785 i feriti registrati nel 2020, dopo l’accordo di Doha, e nei primi tre mesi di quest’anno sono stati uccisi o feriti 1.800 civili.
Questi timori sembrano fondati e dall’inizio di maggio il conflitto si è intensificato con attacchi mirati alla società civile, anche da parte di altri insorti. Continua la scia di sangue degli attentati contro gli attivisti, soprattutto donne e giornalisti. Il 6 maggio è stato ucciso Nemat Rawan, volto di ToloNews, che documentava puntualmente gli attacchi e le violenze, e ci sono stati bombe ed attacchi mirati contro operatori sanitari, giudici, artisti. Secondo UNAMA, dall’inizio di gennaio c’è stato un aumento del 30% di vittime appartenenti alla società civile, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Intanto, continua anche l’accanimento contro le scuole: dal 2018, oltre mille scuole all’anno sono state chiuse a causa di attentati. I talebani odiano l’istruzione e la modernità e, scagliandosi contro le scuole, distruggono la speranza di rinascita e privano i giovani del loro futuro.
Il primo maggio sono stati uccisi 30 studenti che dovevano sostenere gli esami di ammissione all’università a Kabul e l’8 maggio c’è stato l’attacco più drammatico: diverse esplosioni hanno distrutto una scuola media di Kabul, in un quartiere abitato dalla comunità Hazara, con almeno 85 vittime e 155 feriti accertati. La maggior parte erano giovani dai 12 ai 15 anni, per lo più studentesse. Secondo gli analisti l’attentato aveva l’intento sia di colpire la comunità Hazara, maggioritaria in quel quartiere, sia di provocare terrore e caos indebolendo il governo, ormai sempre più solo. Per gli abitanti di Kabul l’avvertimento è chiaro, l’offensiva dei talebani è iniziata.
Che paese si lasciano alle spalle le forze internazionali, dopo vent’anni di guerra?
Il popolo afghano non sa cosa significhi vivere in pace. L’instabilità e la precarietà assoluta hanno accompagnato ormai diverse generazioni e quarant’anni di conflitti hanno significato la povertà per oltre il 40% della popolazione. Le vittime civili, soprattutto bambini, sono sempre di più, i profughi e gli sfollati riprendono di nuovo ad aumentare e la fame e la malnutrizione affliggono 15 milioni di persone. Secondo la Banca Mondiale, più della metà della popolazione vive in povertà, una situazione praticamente identica a quella dei primi anni Duemila. Ci sono 3,7 milioni di bambini che non vanno a scuola, più di 1 su 4, e tra gli afghani con più di 14 anni solo il 38% sa leggere e scrivere. I bambini che non vanno a scuola rischiano di essere arruolati e diventare combattenti delle milizie e c’è un esodo continuo di minori che fuggono da soli verso l’Europa. Il sistema sanitario è inefficiente e sembra che in questi ultimi giorni, nelle zone confinanti con il Pakistan, stia cominciando una terza ondata della pandemia. La popolazione vive nel terrore e giorno dopo giorno vede anche regredire i diritti delle donne e il rispetto dei diritti umani.
Vent’anni di conflitto hanno dimostrato che libertà e democrazia non possono essere esportate dagli stranieri e che la guerra, invece di distruggere il terrorismo, lo ha agevolato.
Ora si prospetta uno scenario incerto e ci sono molte possibilità che si torni alla situazione sanguinosa degli anni Novanta.
Anche nella migliore delle ipotesi, il paese rimarrà ingovernabile e diviso: Kabul e le città centrali saranno sotto il controllo del governo di Ashraf Ghani e continueranno a ricevere qualche forma di aiuto statunitense; le aree del nord, abitate da Tagiki e Ubzeki, saranno sotto l’egemonia dei signori della guerra e della droga e sotto l’influenza russa e cinese; nel centro gli Hazara guarderanno all’Iran; le aree del sud saranno nella morsa talebana e sotto l’influenza del Pakistan e dei Paesi del Golfo. Nella peggiore delle ipotesi, potrebbe invece esplodere di nuovo un conflitto interno che divorerebbe tutto l’Afghanistan.
Non è escluso inoltre che il ritiro dell’Occidente apra la strada ad altri interessi stranieri e la presenza strategica di altre potenze regionali è già visibile. L’Afghanistan è un ponte fra Medio Oriente ed Asia Centrale e il suo territorio confina con le due super potenze Russia e Cina, entrambe preoccupate dell’aumento dell’integralismo in Asia centrale.
Il paese è anche toccato dalla contrapposizione tra India e Pakistan e ha una lunga frontiera con l’Iran, molto sensibile agli sviluppi della situazione afghana. L’India, che si è già impegnata in questi anni con aiuti economici e militari, è interessata a contrastare il Pakistan, padrino dei talebani. La Cina, già presente nel territorio con ingenti investimenti e con società cinesi, soprattutto nel campo delle risorse naturali, intende anche aprire all’Afghanistan come uno dei principali corridoi della nuova Via della Seta e, secondo alcuni analisti, potrebbe istituire una forza di peacekeeping per tutelare i propri interessi ed arginare la minaccia islamista sulla regione musulmana dello Xinjiang. Infine, anche la Turchia intende diventare un attore in quell’area regionale ed è stata impegnata a provvedere alla sicurezza della capitale nell’ambito delle attività NATO.
Foto Credits:
Gustavo Montes de Oca, Golden Kettle walk – Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
The U.S. Army, Discussion in Afghanistan – Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
Kenny Holston, 100331-F-2616H-011 – Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0)
The U.S. Army, afghanistan – Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)