Cosa significa nascere donna in Bangladesh?
La condizione femminile in Bangladesh è senza dubbio tra le peggiori al mondo, ed è il risultato di condizioni di estrema povertà e di disparità sociali e tra i sessi. Violenze e abusi nei confronti delle donne, comprese le aggressioni con l’uso di acido, sono spesso considerati episodi “normali”, tra quelli che avvengono all’interno delle mura domestiche. Nella maggior parte dei casi la donna vittima di violenza non sporge denuncia, perché quell’atto di protesta potrebbe avere ricadute negative su tutti gli aspetti della sua vita, compresa la sua immagine sociale. A questo si aggiungono le carenze nell’amministrazione della giustizia, in un paese dove la discriminazione delle donne è presente in ogni sfera della vita sociale. Il Bangladesh è anche il paese con il più alto tasso di matrimoni infantili del mondo, e circa il 18% delle ragazze che si sposano a soli 15 anni. Nonostante il governo abbia, negli ultimi vent’anni, approvato numerose leggi e provvedimenti per arginare il fenomeno della violenza contro le donne, lo scarso livello di attuazione delle norme, la poca conoscenza delle stesse leggi da parte delle autorità giudiziarie, e la corruzione della polizia hanno impedito di ottenere risultati significativi. In questo contesto già di per sé drammatico, si inserisce anche la particolare situazione della comunità di donne Rohingya che vive nel campo profughi di Kutupalong a Cox’s Bazar: discriminate, rifiutate da tutti e senza alcun diritto.
Negli ultimi decenni, le donne bengalesi hanno duramente lottato per affermare i propri diritti all’interno della famiglia, della società e dello Stato, e questo ha cambiato in modo significativo le opportunità loro aperte e la loro partecipazione alla vita pubblica del paese. Ad esempio, notevoli progressi sono stati fatti per ridurre il gap nell’iscrizione alle scuole primarie e secondarie: il numero delle ragazze iscritte a scuola attualmente supera quello dei loro coetanei maschi. Molte donne sono diventate membri dei Consigli dei governi locali, istituzioni che hanno importanti responsabilità nello sviluppo rurale e urbano. Inoltre, la rapida crescita dell’industria tessile ha garantito un gran numero di posti di lavoro per le donne, che rappresentano oggi il 90% della forza lavoro in questo settore.
Tuttavia, nonostante tali progressi, la condizione femminile in Bangladesh rimane di fatto molto precaria: le donne si trovano ancora a vivere in un contesto caratterizzato da un alto livello di discriminazione, esclusione e ingiustizia sociale, e hanno scarsa influenza sui processi decisionali. Leggi discriminatorie e istituzioni giudiziarie e di polizia corrotte ostacolano l’uguaglianza formale tra uomo e donna, e le condizioni socio-politiche limitano le donne nell’esercizio dei loro diritti. Le ragazze sono spesso considerate un peso per le famiglie, specialmente tra le classi più povere, dove rischiano un matrimonio in età precoce e dove, sebbene illegale, la pratica delle doti continua a gravare su di loro.
La violenza nei confronti delle donne, perpetrata soprattutto con l’uso di acido, è pratica quotidiana e, sebbene sia considerata reato, è raro che gli aggressori vengano denunciati. Una donna sfregiata con l’acido viene automaticamente esclusa dalla società: non riuscirà mai a sposarsi, né ad avere figli e in molti casi la sua stessa famiglia ripudierà la figlia aggredita, perché diventata un peso economico.
Come già sottolineato, il governo del Bangladesh ha varato numerose leggi volte a prevenire e punire le varie forme di violenza ma, nonostante tali progressi, senza una corretta attuazione di quelle leggi le donne non sono in grado di ottenere protezione o validi rimedi legali, ed inoltre gli autori degli atti di violenza di genere sono raramente reputati responsabili e processati. Non bisogna dimenticare infatti che il Bangladesh è al quarto posto nella triste classifica dei paesi più corrotti al mondo, specialmente per quanto riguarda le forze dell’ordine. Anche nel Piano di Azione Nazionale 2013-2025 sulla Violenza contro le Donne, sebbene numerosi Ministeri siano stati coinvolti per assicurare l’attuazione delle leggi più importanti, continuano ad esserci numerose falle nell’applicazione e nel coordinamento delle norme, nonché nella conoscenza e consapevolezza della loro esistenza, sia a livello di cittadini che a livello di istituzioni.
L’ “Acid Offense Prevention Act” e l’“Acid Control Act”, resi esecutivi nel 2002, sono significativi non solo perché stabiliscono un quadro regolamentare per la vendita, la distribuzione e l’utilizzo di acido, ma anche perché puniscono i responsabili di “lancio di acido”, e pongono in essere misure per i servizi sociali. Nel 2004 e nel 2008 si sono aggiunte altre due leggi e l’ultima ha attivato una forma di catena di condivisione delle informazioni, dall’ospedale alla polizia e ai servizi sociali, per assicurare giustizia alla donna. Tuttavia si tratta di procedure raramente seguite, specialmente perché la polizia si rifiuta spesso di prendere in carico tali casi dal momento che, tradizionalmente, la società bengalese e anche le stesse donne hanno sempre considerato la violenza come una questione privata, da risolversi prevalentemente all’interno delle mura domestiche.
Il “Nari-o-Shishu Nirjatan Daman Ain” (Legge per la Prevenzione contro la Repressione di Donne e Bambini) del 2000, è un caposaldo della legislazione bengalese volta a punire un gran numero di fenomeni violenti come il traffico di donne e bambini, il rapimento, il rogo, lo stupro, la violenza legata a dispute sulle doti e molti altri crimini. Tale legge istituisce anche dei tribunali speciali, i Nari-o-Shishu tribunals, che attualmente ammontano a 95 in tutto il paese ma della cui esistenza non solo le donne, ma anche la polizia e le istituzioni giudiziarie sono spesso completamente ignari.
In Bangladesh inoltre il 90% delle vittime di violenza in generale sono donne, e l’80% delle donne sono vittime di violenza domestica. Prima dell’introduzione, nel 2010, del Domestic Violence (Prevention and Protection) Act, la legislazione esistente in materia non prendeva in considerazione i numerosi casi di violenza domestica. Questa legge ha rappresentato un importante passo in avanti nell’espandere la definizione di violenza domestica contro donne e bambine, includendo l’abuso fisico, psicologico, sessuale ed economico, ed è stata la prima legge ad introdurre la necessità di protezione per le vittime. Inoltre ha dato ai magistrati il potere di emettere ordini di arresto e ordini restrittivi, prendere decisioni per la custodia dei bambini e misure per garantire rifugi sicuri alle vittime.
Il principale limite della legislazione vigente è che definisce violenza domestica solo quella che avviene all’interno di una “relazione familiare”, con riferimento ai coniugi o ai parenti, escludendo quindi, in maniera discriminatoria e sfavorevole per le donne, le persone coinvolte in una relazione non coniugale.
Una pratica che rimane largamente comune in Bangladesh, anche se dichiarata illegale circa 40 anni fa con il Dowry Prohibition Act, poi ribadito da un’altra legge del 2000, è la pratica della dote pagata dalla famiglia della sposa alla famiglia del marito o al marito stesso. Nel Maggio 2018, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la libertà religiosa ha sottolineato che la tradizione del pagamento delle doti persiste ancora in Bangladesh e contribuisce a mettere la donna in una posizione umiliante, che la rende oggetto di mercanteggiamento. Nel 2020, ci sono stati 73 casi in cui donne e ragazze sono state fisicamente abusate a causa di dispute relative al pagamento delle doti, e in 66 casi sono state uccise dal marito o dalla famiglia di lui. Sebbene nel 2018 il Parlamento abbia varato una nuova legge che proibisce la pratica delle doti, il problema principale, ancora una volta, è che le donne non sporgono denuncia per paura di ritorsioni.
Una triste realtà che pone il Bangladesh al primo posto nella relativa classifica mondiale riguarda l’alto tasso di matrimoni infantili che coinvolgono ragazze con meno di 15 anni, in una percentuale che ammonta al 40%. Secondo i dati più recenti raccolti dall’UNICEF, più della metà delle ragazze bengalesi hanno contratto matrimonio prima dei 18 anni. Il Bangladesh’s Child Marriage Restraint Act (CMRA), varato nel 2017, considera un crimine il matrimonio al di sotto dei 18 anni per una ragazza e dei 21 anni per un ragazzo, ma tale legge raramente viene rispettata. Tuttavia, con una modifica legislativa del 2017, è stato fatto un grave passo indietro nel regolamentare e combattere i matrimoni infantili, poiché è stato deciso che, in “specifiche circostanze”, non ben identificate, è possibile per una ragazza sposarsi prima dei 18 anni. L’aspetto più drammatico di ciò è che numerose ricerche hanno dimostrato una forte correlazione diretta tra i matrimoni infantili e la violenza domestica.
Quali sono i principali ostacoli all’attuazione di tali leggi, volte ad arginare il fenomeno della discriminazione e della violenza contro le donne del Bangladesh? Tradizionalmente, le stesse donne e le loro famiglie di origine hanno sempre considerato l’abuso domestico come una questione privata, da risolversi all’interno della famiglia. La società ritiene che la violenza domestica sia una questione quasi ridicola, sciocca, qualcosa che accade normalmente all’interno delle mura casalinghe. Di conseguenza c’è forte imbarazzo da parte delle donne a denunciare episodi violenti, cui si aggiunge la paura di ritorsioni da parte del marito o della famiglia di lui.
Inoltre molte donne non sono nelle condizioni di poter lasciare un ambiente domestico violento per paura di essere abbandonate e, soprattutto, per impossibilità economica. Un report di Human Rights Watch ha messo in luce come molte donne in Bangladesh siano costrette a subire mesi e addirittura anni di violenza domestica perché consapevoli che, qualora dovessero separarsi dal marito, si troverebbero a fronteggiare una grave situazione di indigenza che non permetterebbe loro la sopravvivenza.
Senza un accesso autonomo a supporti finanziari, alloggi e servizi sociali, molte donne e ragazze devono necessariamente dipendere dalla famiglia per avere protezione e, di conseguenza, raramente decidono di chiedere giustizia. Inoltre, a livello generale, nel paese mancano completamente servizi di supporto per le donne, come alloggi sicuri o servizi di consulenza e di aiuto legale. Il sistema giudiziario dovrebbe poter sostenere queste vittime anche garantendo programmi di protezione per i testimoni e ufficiali giudiziari qualificati per trattare casi di violenza di genere, ed erogando ordini di protezione. Senza misure a tutela delle vittime e dei testimoni, senza accesso a un supporto finanziario o alloggi di emergenza, senza assistenza legale e custodia infantile, molte donne in Bangladesh ritengono troppo pericoloso rivolgersi al sistema giudiziario. Basti pensare che, in un paese con oltre 80 milioni di donne e più di 64 milioni di bambini, ci sono soltanto circa 36 alloggi per donne e ragazze, messi a disposizione dal Ministero del Social Welfare.
Nelle osservazioni conclusive dell’ultimo report sull’ottemperanza del Bangladesh agli obblighi della Convenzione sull’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), il relativo Comitato ha espresso preoccupazioni relativamente alla mancanza di accesso alla giustizia per le donne, soprattutto quelle che vivono in una situazione di marginalizzazione e di svantaggio economico e sociale, a causa della scarsa consapevolezza, della scarsa alfabetizzazione e degli elevati costi delle procedure legali.
Inoltre, anche qualora un caso di violenza riuscisse ad essere portato davanti a un giudice, le vittime spesso si troverebbero davanti a innumerevoli pregiudizi degli stessi ufficiali giudiziari, scarsamente qualificati e spesso anche corrotti. Questi ultimi infatti sovente richiedono tangenti ad entrambe le parti della disputa e se l’accusato, in questo caso l’uomo, ha maggiori possibilità economiche, il pubblico ministero può anche ridurre la pena o addirittura annullare il caso.
Infine, una delle ragioni principali per cui frequentemente i casi di violenza femminile portati in tribunale rimangono pendenti per anni è l’assenza dei testimoni, che non si presentano davanti al giudice. Il Bangladesh, infatti, non ha alcuna legge a protezione dei testimoni, e ciò rappresenta un serio ostacolo al perseguimento dei casi.
Se la condizione della donna in Bangladesh è di per sé drammatica, anche in questo paese, come in tutto il resto del mondo, l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da Covid-19 ha aumentato le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne. La crisi economica ha visto aumentare gli abusi, in un contesto nazionale già critico, e il dato più allarmante è stata la crescita dei matrimoni precoci per le bambine. Basti pensare che le chiamate al “999”, il numero di emergenza nazionale per chiedere aiuto e impedire un matrimonio precoce, sono aumentate del 45% durante il 2020, nel corso del quale sono stati segnalati 101 matrimoni precoci, contro i 70 del 2019. Dati certamente parziali, ma che non possono non destare preoccupazione in un paese in cui, anche prima dell’emergenza Covid-19, l’incidenza dei matrimoni precoci era già molto elevata.
In questa tragica situazione è doveroso attirare l’attenzione sulla condizione ancor più critica in cui versano le donne della comunità Rohingya, la maggior parte delle quali vive all’interno del campo profughi di Kutupalong a Cox’s Bazar. Si tratta di una comunità di fede musulmana residente principalmente in Myanmar, nello stato di Rakhine al confine con il Bangladesh, e i cui membri sono da sempre discriminati e perseguitati perché non riconosciuti come cittadini birmani ma come bengalesi musulmani, arrivati nella zona con la colonizzazione britannica. Dalla fine di agosto del 2017 circa 866 mila Rohingya, dopo una rapida e allarmante escalation di violenze, sono fuggiti in Bangladesh e, nel corso dell’invasione da parte dell’esercito birmano, l’Onu ha denunciato lo stupro etnico ai danni delle donne di questo gruppo.
Nascere non solo donna ma anche di origine Rohingya significa essere destinata a una vita fatta di privazioni e discriminazioni di natura etnica, religiosa e sessuale, come ci insegna la teoria dell’intersezionalità sviluppata dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw. La situazione delle donne all’interno di questi campi profughi è particolarmente difficile: ogni giorno rischiano di subire atti di violenza di genere o di sfruttamento, o di essere vittime di tratta di esseri umani o di matrimoni forzati. Le donne Rohingya che vivono in Bangladesh non hanno alcun diritto, nemmeno quello di studiare: secondo il governo, consentire l’accesso all’istruzione incoraggerebbe i rifugiati Rohingya a rimanere in Bangladesh anziché rientrare in Myanmar.
Con la diffusione del Covid-19, molti di questi problemi, come già sottolineato, sono stati ulteriormente amplificati e inoltre la pandemia ha messo in luce anche le carenze dei servizi sanitari, carenze che le donne scontano ancora di più, poiché è difficile persino avere accesso a un’adeguata igiene mestruale, per le carenze nella distribuzione di prodotti sanitari. All’interno dei campi, dove vige la pratica del purdah, ossia la distinzione e la separazione delle donne dagli uomini all’interno delle stesse abitazioni attraverso l’utilizzo di una tenda, i casi di violenza domestica contro le donne da parte di altri componenti della famiglia sono aumentati in modo significativo, trasformando, ancora una volta, la violenza di genere in una pandemia parallela.
Foto Credits: Bangladeshi women, Neko1998. Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0), Flickr.
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