Il Libano ospita circa 250.000 donne migranti, la maggior parte delle quali impiegate nel settore del lavoro domestico presso abitazioni private, uffici o luoghi di ristorazione. Le condizioni già difficili in cui queste donne sono spesso costrette a lavorare sono state ulteriormente aggravate dalla crisi economica e politico-sociale che ha colpito il Libano nell’ultimo anno e dalle conseguenze della terribile esplosione del 4 agosto 2020 che ha distrutto interi quartieri della città, causando migliaia di feriti e lasciando circa 300.000 persone senza casa.
La migrazione economica femminile in Libano è un fenomeno relativamente recente: dagli anni Novanta in poi, con la fine della guerra civile (1975-1990), il paese è diventato meta lavorativa per centinaia di migliaia di donne migranti, provenienti soprattutto da alcuni stati dell’Asia (Filippine, Bangladesh, Sri-Lanka) e dell’Africa (Etiopia, Nigeria, Kenya, Ghana in primis). Questo tipo di migrazione, che inizialmente interessava solo alcuni paesi del Golfo, si è successivamente indirizzata anche verso il Libano con il progressivo aumento della domanda di manodopera femminile, richiesta in modo particolare presso le famiglie di classe media e medio-alta, diventando un aspetto tanto radicato nella società quanto denunciato da diverse organizzazioni a causa delle numerose violazioni e brutalità che ne conseguono.
Il sistema della kafala: che cos’è e come funziona?
L’ingresso e la permanenza delle donne migranti in Libano sono regolati dal sistema della kafala (o sponsorhip), che comprende un insieme di leggi, decreti e decisioni ministeriali che non confluiscono, tuttavia, nella legislazione sul lavoro. Questo vuol dire che le lavoratrici domestiche sono escluse da alcuni diritti basilari quali il salario minimo, il pagamento degli straordinari, l’indennità per licenziamento irregolare, la pensione e la maternità. Secondo tale sistema, inoltre, prima dell’arrivo in Libano ciascuna donna deve trovare uno sponsor che si incarichi di seguire le procedure per richiedere il permesso di residenza e che si faccia carico della sua presenza nel paese a livello lavorativo e legale. Spesso accade che lo sponsor coincida con il proprietario dell’immobile nel quale queste donne vanno a lavorare come baby-sitter, domestiche o badanti e nel quale sono costrette a vivere per non spezzare il contratto di impiego e diventare illegali nel paese.
Per facilitare la ricerca di uno sponsor libanese, sono nate vere e proprie agenzie di reclutamento nei paesi di provenienza, alle quali le donne migranti fanno riferimento prima di partire alla volta del Libano. Tuttavia, le agenzie tendono ad omettere, talvolta, il tipo di lavoro da svolgere e le difficoltà presenti nel paese, mascherando la realtà proponendo impieghi fittizi come infermiere, segretarie e cameriere per attirare maggiormente l’attenzione e non perdere l’occasione di un ricco guadagno. Inoltre, non capita di rado che le agenzie decidano di camuffare l’età di alcune ragazze minorenni per permettere loro di partire senza che ci siano conseguenze legali. Di frequente, chi decide di emigrare per andare a lavorare in Libano o nei paesi del Golfo non possiede né il background educativo né le competenze necessarie per proteggersi da potenziali truffe o violazioni e rischia di essere maggiormente esposto a situazioni di abuso e strumentalizzazione.
Come si può immaginare, l’assenza di una regolamentazione del lavoro domestico ha dato origine, negli anni, alla nascita di agenzie illegali e al proliferare di zone grigie in cui si moltiplicano lo sfruttamento e la tratta delle donne migranti, aspetti che sono stati ulteriormente esacerbati dalla situazione attuale, caratterizzata da una profonda crisi sanitaria, economica e politico-sociale.
Già nel 2019, Amnesty International aveva pubblicato un report denunciando lo sfruttamento delle donne migranti in Libano, mettendo in luce, tra le altre cose, le modalità utilizzate dagli sponsor libanesi e dalle loro famiglie per riprodurre dei rapporti di subalternità e controllo nei confronti delle stesse: dalla confisca del passaporto al mancato pagamento dei salari; dalla privazione di cibo, acqua e di un alloggiamento dignitoso fino ad arrivare all’abuso verbale, fisico e sessuale. Un anno e mezzo dopo la pubblicazione di Amnesty, la situazione non è cambiata e le donne migranti sono ancora le prime a pagare le conseguenze di una crisi che sembra non avere via d’uscita.
L’anno nero del Libano: dalle proteste antigovernative all’esplosione del porto di Beirut
Con l’inizio delle manifestazioni antigovernative dell’autunno scorso e la dichiarazione di default finanziario a marzo 2020, coincisa con l’inizio dell’emergenza sanitaria legata al diffondersi del Covid-19, il Libano è rapidamente sprofondato in una situazione di caos e recessione economica che ha colpito trasversalmente gran parte della popolazione libanese e migrante, danneggiando in particolar modo le categorie più vulnerabili e marginalizzate della società, quali le lavoratrici domestiche. Molte famiglie, utilizzando come giustificazione la crisi economica, hanno smesso di pagare i salari alle proprie donne di servizio obbligandole, successivamente, a lasciare le abitazioni senza preavviso e senza alcun tipo di tutela economica e legale. Tale comportamento è purtroppo assai diffuso tra le fila della società libanese ma non è, tuttavia, ancora sufficientemente criminalizzato perché si continua a considerare il lavoro domestico e di cura subordinato a qualsiasi altra occupazione.
Nell’ultimo anno, centinaia di donne migranti hanno perso il lavoro da un giorno all’altro e sono rimaste spesso intrappolate in una condizione di illegalità da cui è difficile districarsi: come ben illustra un reportage pubblicato dalla CNN a marzo, una delle opzioni alla quale fanno ricorso alcune donne migranti rimaste senza permesso di soggiorno o passaporto – poiché confiscati dal datore di lavoro o dall’agenzia di reclutamento – è di auto-denunciarsi presso gli uffici della General Security, il principale apparato di sicurezza dello Stato, rischiando di trascorrere periodi spesso anche molto lunghi in carcere in attesa dell’espletamento delle pratiche relative al rimpatrio. In alternativa, molte altre donne decidono di rimanere nel paese senza documenti, appoggiandosi alle reti di solidarietà create negli anni dalla propria comunità di riferimento, o di rivolgersi ad associazioni e organizzazioni che supportano le lavoratrici migranti in Libano come il collettivo Egna Legna, fondato da attiviste etiopi, e il collettivo Anti-Racist Movement.
La situazione complessiva, già precaria a livello economico e sociopolitico, è stata poi aggravata dalla diffusione del Coronavirus nel paese e dall’adozione di severe misure di contenimento che hanno previsto, tra le altre cose, la chiusura dell’aeroporto per quattro mesi. Durante il lockdown imposto per contenere i contagi, centinaia di donne provenienti da diversi Stati africani e asiatici, non sapendo più come far fronte ad un contesto sempre più ostile ed esasperante, hanno organizzato dei sit-in di protesta di fronte ai consolati e alle ambasciate per denunciare l’assenteismo delle istituzioni nella gestione e regolamentazione della kafala e per richiedere che venissero organizzati dei voli speciali di rimpatrio. Alcune di queste donne, non avendo altra scelta alla vita di strada, sono rimaste accampate per diversi giorni e diverse notti in attesa di ricevere notizie sui propri documenti e sulle possibilità di tornare nel proprio paese.
Questa drammatica situazione è culminata nell’esplosione verificatasi nel porto di Beirut il 4 agosto 2020, i cui effetti devastanti hanno interessato alcune zone notoriamente abitate da una popolazione prevalentemente migrante, come il quartiere Karantina. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) circa 24.500 migranti, uomini e donne, sono stati colpiti direttamente dagli effetti dell’esplosione del porto, chi perdendo il lavoro, chi la casa e i propri mezzi di sussistenza, trovandosi in condizioni di assoluta necessità a livello abitativo, sanitario e alimentare. Anche in questo caso, le comunità migranti presenti a Beirut hanno beneficiato in maniera minore rispetto al resto della popolazione dei numerosi aiuti umanitari provenienti dalla comunità internazionale e dalle istituzioni libanesi, mettendo in luce una risposta emergenziale differenziata a seconda del paese di provenienza dei soggetti colpiti.
Ripensare il lavoro domestico alla luce delle crisi contemporanee
Il contesto libanese, aldilà delle peculiarità che lo contraddistinguono a livello storico e che lo caratterizzano in questo momento di crisi, pone delle domande universali su quelli che sono i metodi di gestione dei flussi di migranti economici e sulla mancata attribuzione di uno status sociale al lavoro domestico e di cura. Nonostante continui ad essere un impiego altamente richiesto, viene infatti ancora considerato come una professione secondaria e gestito in maniera emergenziale e securitaria dagli apparati statali, soprattutto quando coinvolge in primo luogo soggetti migranti. L’esclusione del lavoro domestico dalla sfera pubblica porta, di conseguenza, alla marginalizzazione ed esclusione di coloro che lo praticano, rappresentati in misura elevata da donne che, in questo contesto, vengono ulteriormente discriminate per aspetti quali nazionalità, lingua e tratti somatici.
Si tratta, dunque, di una lotta quotidiana per il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali e per la legittimazione del lavoro domestico nelle società contemporanee, aldilà della nazionalità, del genere o dello status sociale di chi lo esercita. Solo attraverso il ripensamento collettivo del lavoro domestico in quanto lavoro dignitoso e rispettabile è possibile rovesciare le disuguaglianze che lo attraversano e costruire un modello sostenibile e che rispetti la dignità di tutte le lavoratrici e i lavoratori.
Foto Credits: 2020-3-8 Lebanon: IWD – abolishment of the Kafala/sponsorship system. Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0), attraverso Flickr