I reclusi di Lesbo – il diritto d’asilo negato ai rifugiati afgani
Sono approdato a 16 anni come un naufrago sull’isola di Lesbo, nel 2008, a conclusione di un pericoloso e drammatico viaggio iniziato a piedi in Afghanistan e durato un anno per arrivare alle coste turche. Ero un “minore non accompagnato”.
A Smirne ci si imbarca di notte, di nascosto, su piccoli gommoni o barchette di fortuna con cui si traversa fino alle isole elleniche. Questo brevissimo tratto di mare non è meno pericoloso della navigazione dalle coste africane.
Siamo saliti sul gommone in dodici, alcuni non ce l’hanno fatta, perché la maggior parte dei ragazzi afgani non sa nuotare; li ho sentiti gridare, visti annegare, sono immagini che ancora dopo anni non riesco a togliermi dalla mente.
Lesbo allora non mi ha respinto, non c’erano muri o campi recintati di filo spinato, ero arrivato alla porta dell’Europa, l’agognata meta, dopo aver attraversato Afghanistan, Iran, Turchia, Grecia, per poi riprendere dieci mesi dopo un altro complicato viaggio da irregolare verso l’Italia, ma con la speranza di intraprendere una nuova vita. Quella speranza che migliaia di profughi in cammino verso l’Unione europea oggi sentono svanire.
Dopo diversi anni sono tornato su quell’isola per lavoro.
Ricordavo le belle spiagge, i bagnanti, le colline, gli uliveti, i profumi intensi, i locali, con una spontanea umanità. Ora su quelle colline la prima immagine che vedi è quella di una grande discarica umana a cielo aperto, un odore insopportabile ti assale e ti rimane addosso.
Un ammasso di umanità che aspetta di entrare in Europa, migliaia di rifugiati intrappolati nelle isole greche in attesa della risposta alla domanda di asilo, di ricollocamento, di ricongiungimento familiare o del rimpatrio in Turchia o in uno dei paesi dei Balcani occidentali.
Benché in Italia se ne parli meno rispetto a Lampedusa, l’afflusso di richiedenti asilo in Grecia è aumentato notevolmente e le isole dell’Egeo sono in piena emergenza.
L’Agenzia dell’Onu per i rifugiati ha comunicato che nel 2019 sono entrati dalla Turchia in Grecia circa 75mila immigrati, in aumento del 50% rispetto all’anno precedente; nel 2020 già più di 100.000 si sono riversati sul territorio greco, si tratta del numero più alto da quando il patto UE-Turchia del 2016 sui rifugiati è entrato in vigore.
Secondo le politiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite i campi allestiti dovrebbero essere un centro di accoglienza temporaneo, per facilitare l’identificazione e la registrazione e provvedere al ricollocamento; invece l’Unhcr già dal 2015 denuncia una situazione di grave violazione dei diritti umani, sia perché le procedure di richiesta durano anni per i tanti ostacoli, sia perché l’accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale non vede garantita l’osservanza del principio di ‘’non refoulement’’, secondo il quale lo status di rifugiato non dev’essere riconosciuto in virtù della provenienza, ma dei reali pericoli che una persona corre indipendentemente dal Paese di arrivo, una palese violazione del principio del diritto internazionale e delle direttive UE in materia di protezione internazionale che consentono a tutti l’accesso al territorio per fare esaminare la propria richiesta di protezione.
Sono stati allestiti 5 campi a: Lesbo, Samos, Chios, Kos e Leros. I richiedenti asilo qui presenti sono rifugiati provenienti dall’Afghanistan per oltre il 70%, dalla Siria 18%, dall’Iraq 12% e negli ultimi mesi anche dall’Africa, in particolar modo dalla Somalia per il 6%. Paesi in cui le guerre e le persecuzioni non si fermano neanche davanti alla pandemia mondiale del coronavirus.
La maggior parte della popolazione che abita nei campi profughi è composta da famiglie ’’in attesa’’ per diversi anni in condizioni disumane, che subiscono violenze di ogni genere, un terzo sono bambini, 7 bambini su dieci hanno meno di 12 anni, circa il 13% è minore non accompagnato.
I richiedenti asilo sono collocati in strutture recintate da filo spinato, all’interno ci sono livelli successivi di cancelli, invalicabili, con un posto di blocco finale. I campi sono carenti di acqua e servizi igienici, gli arrivi sono continui, i ricollocamenti quasi inesistenti, il sovraffollamento è drammatico. Le migliaia di persone che non trovano spazio negli ambienti ufficiali stanno in rifugi di fortuna, in tende donate dalle organizzazioni umanitarie, molti dormono per terra coperti da cartoni. Praticamente sono baraccopoli senza nessun tipo di servizio e i migranti sono abbandonati a se stessi; gli operatori umanitari di Oxfam hanno più volte lanciato l’allarme di migranti ammassati, esposti a violenze di ogni genere e senza accesso a cure mediche, oltre che di frequenti casi di autolesionismo; adesso si teme che la pandemia da coronavirus si trasformi in una vera e propria catastrofe sanitaria.
Le isole dell’Egeo sono vicine alla Turchia. Nel 2016 l’UE ha firmato un accordo con il governo di Ankara che prevedeva 6 miliardi di euro in cambio dell’impegno turco a fermare il flusso di rifugiati dalla costa occidentale alla Grecia, ma il numero delle persone ospitate nei campi è aumentato notevolmente dopo che la rotta Balcanica è diventata sempre più pericolosa.
La Turchia è uno snodo importante per i migranti che arrivano dalle nazioni mediorientali devastate dalle guerre; tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020 la rotta del Mediterraneo orientale ha visto più di 7000 sbarchi, sono passati circa 1800 migranti a settimana secondo i dati dell’Unhcr. Da qualche mese, a causa del deteriorarsi della situazione politica nell’area e del cambiamento della politica migratoria turca, Erdogan ha aperto le porte all’espatrio di migliaia di persone. Il ricatto del Presidente turco di aprire le frontiere ha portato alla militarizzazione dei 200 km del confine greco.
Il campo più spettrale è quello di Moria a Lesbo, divenuto hotspot, il centro ufficiale di accoglienza da dove vengono smistati i migranti negli altri campi di transito allestiti. I migranti sono sparpagliati ovunque, una parte è collocata entro le strutture, tutti gli altri ammassati fuori in condizioni di vita inumane.
L’ennesimo incendio scoppiato la notte tra l’8 e il 9 settembre nel campo più sovraffollato d’Europa era inevitabile; due mesi prima era successo nel campo di Kara Tepe.
La situazione per i profughi dopo l’emergenza sanitaria da Covid ormai era diventata insostenibile, si erano registrati alcuni casi di positività e da 179 giorni il campo era in lockdown con misure sempre più dure. Il governo di Atene aveva sospeso le pratiche per il riconoscimento della protezione internazionale. Erano scoppiate frequenti rivolte sia interne che esterne, spesso violente ed anche con morti.
Da mesi l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati aveva denunciato le terribili condizioni del campo e sollecitato l’evacuazione di famiglie e malati dal campo di Moria, in grado di contenere non più di 5000 persone, ma in cui se ne trovavano più di 20.000 ; inoltre, più volte era stata denunciata anche la presenza di gruppi di estrema destra come Alba Dorata che compivano atti di intolleranza e provocazione, non soltanto contro i profughi ma anche contro gli operatori delle ONG, colpendo sia persone che strutture, per cui molte organizzazioni non governative operanti sul territorio si stanno ritirando.
A seguito dell’incendio, l’80% del campo è distrutto e probabilmente inagibile, ora è un cumulo di macerie, più di 12.000 persone sono fuggite, tra cui diversi malati Covid o positivi, i minori non accompagnati hanno abbandonato il campo in fiamme da soli, sono affamati e non sanno dove andare. Dieci paesi europei si sono resi disponibili a ricollocarne 400, e gli altri?
Il governo greco ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha adottato una linea più dura contro i migranti, che comprende anche la costruzione di un muro galleggiante alto 110 centimetri, di cui 50 sopra il livello del mare, dotato di lampeggiante, lungo quasi tre chilometri al fine di difendere la frontiera marittima e contrastare il flusso migratorio. In attesa del ‘’muro’’ in mare il governo greco da diversi mesi ha iniziato esercitazioni militari sia diurne che notturne delle forze armate di terra.
La nazionalità più presente nei campi hotspot della Grecia è quella afgana. Gli afgani rappresentano una delle popolazioni di rifugiati più numerosa al mondo, attualmente oltre 5 milioni vivono in più di 70 paesi del mondo ed altrettanti milioni sono sfollati interni.
Quarant’anni fa gli afgani iniziarono a fuggire a seguito dell’invasione sovietica, milioni di persone scapparono in Iran e Pakistan. La fuga continuò durante le guerre civili tra le fazioni estremiste, proseguì con l’ascesa dei talebani ed anche dopo l’invasione statunitense nel 2001, risultato della “guerra al terrore” contro Al-Quaeda, che aveva l’obiettivo di rovesciare il regime talebano e catturare Osama Bin-Laden.
La guerra ha causato più di un milione e mezzo di morti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati, milioni di profughi.
L’Afghanistan, ufficialmente liberato dai talebani dal 2001 (in realtà saldamente presenti e intenti a destabilizzare il Paese e riprenderne il controllo), è ancora instabile e pericoloso. La popolazione continua a morire e fuggire per una permanente guerra civile.
Secondo un recente servizio della BBC Pashto, il governo afgano controlla meno del 30% del territorio e quasi 20 milioni di civili vivono nelle zone controllate dai talebani. Dal 2016 sono ripresi con vigore gli attentati terroristici, a cui si sono aggiunte le milizie Khorasan, sotto le bandiere nere dell’Isis, che compiono attacchi sempre più frequenti, soprattutto contro la popolazione sciita. Dai primi mesi di quest’anno, ed in particolare dagli accordi di Doha, i talebani hanno lanciato una cinquantina di attacchi al giorno. Il numero delle vittime civili è al suo massimo storico.
L’Afghanistan, come riportano i dati delle Nazioni Unite, è uno dei paesi più in basso nella classifica basata sull’Indice di Sviluppo Umano, almeno il 40% degli afgani vive in povertà e secondo l’Unicef il 50% dei bambini non ha accesso alla scuola, percentuale molto più alta per le ragazze. L’Afghanistan è anche tra i primi paesi al mondo per tasso di mortalità infantile.
L’economia è in affanno, non è in grado di reggersi da sola, dipende quasi completamente da aiuti stranieri.
Nel 2019, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan ha registrato il più alto numero di civili e di bambini uccisi: sono state 11.000 le vittime, di cui 3.804 morti e 7.189 feriti ed è stato il sesto anno consecutivo che la guerra ha causato più di 10mila vittime. Secondo il Global Peace Index nel 2019 l’Afghanistan è diventato il paese meno pacifico al mondo, ancora meno della Siria.
La maggior parte dei migranti afgani sono stati accolti dai Paesi vicini, come tantissimi altri migranti rifugiati, ospitati dal Sud del mondo. I dati UNHCR rilevano un 65% di rifugiati in questi Paesi contro un 12% in Europa.
Il numero degli sfollati interni afgani ha superato i due milioni.
Il 90% dei rifugiati si trova in Pakistan ed Iran, la scelta di raggiungere l’Europa è iniziata dopo, dal 2009: oltre un milione, per lo più giovani, vi è arrivato. Si calcola che gli esuli afgani abbiano in media meno di 25 anni e che detengano il triste primato dei minori non accompagnati; oltre il 70% dei minori ha un’età tra i 14 e i 17 anni.
Secondo le stime dell’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU in Iran e Pakistan si troverebbero quasi 4 milioni di rifugiati afgani, di cui un milione non registrati, che vivono in condizioni precarie nei campi dove sono alloggiati, in cui scarseggiano sia il cibo sia l’assistenza sanitaria. Dal 2018, a causa della crisi politica ed economica che ha investito l’Iran, più di un milione sono stati rimpatriati.
Lo stesso sta avvenendo in Pakistan, dove vivono oltre 2 milioni e mezzo di afgani, di cui un milione e mezzo privi di documenti; il governo di Islamabad è in crisi sulla gestione dell’accoglienza e le autorità hanno inasprito le leggi ed hanno quasi del tutto chiuso i diversi centri di accoglienza, costringendo molti afgani a lasciare gli insediamenti e ad iniziare un ritorno forzato. Tutti i giorni al confine afgano-pakistano colonne di persone varcano la frontiera dirette al centro dell’UNHCR a Samarkhel, in quello che Human Rights Watch ha denunciato come “il più grande rinvio forzato illegale al mondo di rifugiati negli ultimi tempi’’.
L’irrigidimento delle politiche di Iran e Pakistan nei confronti dei migranti afgani ha prodotto un ulteriore spostamento verso la rotta europea; secondo i dati Eurostat nel 2020 sono stati 196.200 gli afgani arrivati qui, ma la loro speranza di essere accolti è molto inferiore a quella di profughi di altre nazionalità, quali siriani, iracheni ed eritrei. Nonostante i livelli di sicurezza nel Paese peggiorino, anche l’Europa ha iniziato la politica dei rimpatri, riportando gli afgani in un paese meno sicuro di quando sono fuggiti.
Un recente congiunto rapporto dell’Unhcr e della Banca mondiale sulle conseguenze dei rimpatri in Afghanistan ha sottolineato come i nuovi rinvii da Iran, Pakistan o Europa rischino di provocare nuovi spostamenti all’interno con ulteriore disoccupazione, instabilità e un generale abbassamento del livello della qualità di vita della popolazione, favorendo sempre più situazioni di vulnerabilità, in quanto milioni di persone non possono essere riassorbite nel tessuto economico e sociale del Paese.
Questo si è già verificato con i rimpatri dall’Iran in piena emergenza Covid.
La politica migratoria europea dal 2016 ha visto la conclusione di una serie di accordi, prima con Ankara per il respingimento dei migranti sulla rotta balcanica in cambio di sei miliardi di euro di aiuti alla Turchia, e poi con il governo afgano per il rimpatrio forzato in cambio di sostegno economico. Nel 2018 un analogo accordo è stato stipulato tra Turchia e Afghanistan.
Fino al 2015 più del 70% degli afgani si vedeva riconosciuta la protezione internazionale; dal 2016, a seguito del ‘’Joint Way Forward’’ – accordo stipulato con il governo di Kabul che vincolava gli aiuti umanitari al rimpatrio di migliaia di afgani presenti in Europa – l’asilo non viene più concesso. I governi europei in questi ultimi mesi hanno accelerato i rimpatri forzati di afgani; soprattutto dai Paesi del Nord Europa, sono sempre più numerosi i voli ordinari e speciali verso Kabul, coordinati dall’agenzia Frontex.
L’Italia fino a due anni fa garantiva ancora la protezione internazionale; lo scorso anno sono cominciati i primi respingimenti alla frontiera del Friuli-Venezia Giulia dove sono concentrati i richiedenti asilo afgani.
Secondo i dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2016 ed i primi mesi del 2020 il numero di afgani rimpatriati dagli Stati membri è triplicato. Entro la fine dell’anno si stima che oltre 2 milioni e mezzo di afgani torneranno nel proprio Paese andando ad unirsi agli oltre tre milioni e mezzo di sfollati interni fuggiti dai talebani.
L’Europa, che è stata in prima fila nella campagna militare americana contro i talebani, riporta indietro quei profughi in un Paese ancora pericoloso, con il primato di attacchi terroristici degli stessi talebani.
Foto Credits: NATO Training Mission-Afghanistan / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0) via Wikimedia Commons