Arriviamo ad Algeri a inizio marzo, pochi giorni prima del lockdown per il Covid-19. Sono passati quarantacinque anni: nel 1975 ero un giovane docente all’Università di Ben Aknoun, mia moglie insegnava al Centro culturale italiano, e nostro figlio era nato lì, in una clinica dove operavano medici in fuga dal Cile di Pinochet.
Quarantacinque anni, e il centro storico sembra immutato: i bellissimi palazzi francesi con le loro eleganti balconate sorrette da cariatidi di ogni genere, e i viali con i portici con vista sul golfo sono ancora lì, a ricordare Algeri “la bianca”, ma disfatti, sporchi, come abbandonati dalla classe dirigente che li abitava, che ora è andata a stare nella periferia nuova della città, lasciando i boulevard del centro alla parte più povera della cittadinanza.
Arriviamo di venerdì, io, mia moglie e nostro figlio, che non era mai ritornato nella città dov’è nato. Ci hanno detto in albergo che il pomeriggio è meglio non uscire, perché da settimane, ogni venerdì, dopo la preghiera, c’è una grande manifestazione contro il governo che passa proprio da quelle parti, per la Didouche Mourad, il grande boulevard del centro che sfocia sulla Grande Poste, storico edificio che all’epoca era il cuore pulsante della città, accanto ai grandi magazzini Lafayette, dove in occasioni particolari si trovavano perfino le forchette, a poca distanza dalla Cinématheque algerienne, dove gli studenti potevano vedere i cinegiornali della Liberazione e la Battaglia di Algeri di Pontecorvo, oppure i film della Nouvelle vague o del Cinema novo latinoamericano.
Il centro allora era affollato fino all’inverosimile da giovani, e non soltanto algerini: la città era meta di militanti rivoluzionari, di esuli dei più diversi paesi, non solo dal Cile, ma soprattutto dagli stati africani appena liberati dal colonialismo, o ancora in lotta per la liberazione, come l’Angola, il Mozambico, il Ciad e Capoverde; ma anche dai leader fuggiaschi delle Black Panthers, come Eldridge Cleaver o Stokely Carmichael, che proprio ad Algeri incontrò Miriam Makeba, che sarebbe in seguito diventata sua moglie.
Naturalmente usciamo dall’albergo proprio quando arrivano i primi manifestanti. Veniamo trascinati dalla folla che scende giù per il boulevard: un fiume di persone, molti giovani, ma anche donne, bambini e tanti anziani, ancora avvolti nella jellaba tradizionale.
Tantissimi i manifesti, gli striscioni, i cartelli, gli slogan contro il governo scanditi da piccoli gruppi. La gente si ferma ad ascoltarli, a condividerli, reggendo lenzuoli colorati che chiedono nuove e libere elezioni: migliaia di cittadini, decisi a non fermarsi, per cambiare un paese congelato da un sistema incapace di aprirsi alla democrazia. Intorno, e in tutte le strade parallele, centinaia di poliziotti con i caschi integrali e i manganelli, allineati a fianco di gigantesche jeep, cellulari e veicoli blindati, seguono a breve distanza i manifestanti, pronti a rincorrerli o a bloccarli al primo tentativo di deviare dal percorso prestabilito o di prendere una traversa per aggirare i blocchi. Ma la gente sembra non aver paura: molti cantano e si abbracciano, fanno filmini con il cellulare, sollevano in alto i ragazzini, scandiscono insieme i nomi dei loro rappresentanti, molti agli arresti, altri in esilio o già morti nelle prigioni governative… E dall’affollatissima piazza della Posta, venerdì dopo venerdì, raccontano al mondo che l’Algeria ha una gran voglia di democrazia.
Da meno di due anni il vecchio presidente algerino Bouteflika (già ministro, si pensi, proprio in quel lontano 1975, e poi presidente per vent’anni, da quattro sulla sedia a rotelle, a quanto si dice capace di comunicare soltanto attraverso il fedele fratello minore, che non si sa fino a che punto fedele sia nel tradurre le sue volontà), ha finalmente lasciato la poltrona. Il nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, eletto nel dicembre 2019 con un voto non riconosciuto da gran parte dei manifestanti, ha ripetutamente affermato di voler soddisfare le richieste dei movimenti di protesta procedendo con una serie di modifiche alla Costituzione. Il presidente ha anche dichiarato di voler innalzare gli standard di vita della popolazione, costruendo più scuole, e migliorando le infrastrutture e i servizi di trasporto in tutto il Paese. Tuttavia, le modifiche radicali nella struttura del potere e il completo ritiro dei militari dalla politica che chiedono gli algerini – depressi da anni di governo militare, dalle code velenose del biennio terrorista e dall’opacità del potere – non sono ancora all’orizzonte. Una classe politica vecchia, rigida, ancora formalmente legata alla storia della Liberazione, ma in realtà consunta da un regime da troppo tempo lontano dalla gente, sembra incapace di aprirsi in senso democratico. Il declino economico ha alimentato la rabbia dei manifestanti, che danno la colpa dello spreco delle ricchezze derivanti dalle risorse energetiche del Paese e degli elevati livelli di corruzione all’élite dominante. Purtroppo, alla volontà del popolo di farla finita con queste vecchie élites non si è accompagnata finora alcuna strutturazione politica capace di trattare con il regime: d’altra parte, le manifestazioni si caratterizzano per una organizzazione orizzontale che impedisce l’emergere di nuovi leader, o anche soltanto di un porte-parole capace. Così, libere elezioni e facce nuove rimangono, almeno per ora, soltanto sui cartelli artigianali dei manifestanti del venerdì.
Una nazione isolata, l’Algeria, pur potendo contare sulle ricchissime risorse di petrolio e di metano (vitali per paesi come l’Italia, che grazie a Enrico Mattei è stata la prima a rendersi conto delle sue straordinarie potenzialità energetiche); sulle notevoli rimesse degli emigrati (soprattutto dalla Francia, dove, secondo stime dell’Insee, gli immigrati algerini e i loro figli sono circa 1.800.000); su una posizione geografica e geopolitica straordinaria, anche in riferimento all’attuale sconvolgimento in atto nel Mediterraneo orientale, con l’aggressiva politica della Turchia; e, infine, su una bellissima costa mediterranea di migliaia di chilometri, mai ancora sfruttata, tanto dall’inesistente turismo interno quanto da un possibile turismo internazionale, soprattutto dall’Europa, che è a soltanto un’ora di volo. Ma anche i rapporti regionali con i confinanti Paesi arabi non sono buoni: con il Marocco, soprattutto per il trascinarsi dell’annosa questione Saharawi, e con la Tunisia, per il progressivo disfarsi dei progetti di integrazione e sviluppo comune dopo la fine della presidenza Bouteflika.
Isolata, ma contemporaneamente dipendente dai mercati occidentali, visto che per l’Algeria il commercio estero rappresenta il 58% del PIL. Nel 2019, l’Italia è stata la prima destinazione dell’export algerino (circa 6 milioni di dollari), seguita da Francia, Spagna, Stati Uniti e Brasile. Nello stesso periodo, la Cina è stata il principale fornitore di beni nel Paese, con il 18,1% di tutte le importazioni, prima di tutti i paesi europei.
L’economia algerina è in recessione dal 2014 ed è ancora lontana dal recupero: il tasso di disoccupazione è stimato attualmente all’11,7% ed è particolarmente elevato tra i giovani, dove raggiunge il 28%. Il 15 dicembre 2019 il governo ha ratificato ad Accra l’Accordo di libero scambio continentale africano (afCFTA), che doveva entrare in vigore a luglio di quest’anno: ma l’emergenza Covid ha congelato anche questo accordo, che sulla carta dovrebbe consentire agli Stati interessati di beneficiare per un quinquennio di una progressiva eliminazione delle barriere tariffarie. L’implementazione di questo accordo potrebbe gradualmente liberare i Paesi africani, e tra loro anche l’Algeria, dalla dipendenza dall’estrazione di materie prime, e promuovere invece il commercio intercontinentale.
Foto Credits: Laura Terzani