I diritti delle donne in Arabia Saudita: tra riforme ed immobilismo
Il sistema del guardiano
L’ascesa al trono saudita di Salman bin Abdulaziz e la nomina di suo figlio Mohammed bin Salman (MbS) alla carica di principe ereditario, avvenute rispettivamente nel 2015 e nel 2017, hanno segnato l’avvio di una stagione di progressiva liberalizzazione dei diritti delle donne in Arabia Saudita. Un percorso questo che si è sviluppato parallelamente al progetto di “Vision 2030”, un piano caldamente sponsorizzato dal principe ereditario e che mira a trasformare la struttura dell’economia saudita diversificandone le rendite e riducendone l’elevata dipendenza dalle esportazioni di petrolio.
Innanzitutto, prima di addentrarsi nelle riforme, bisogna specificare che in Arabia Saudita vige un regime estremamente restrittivo, se non il più rigido al mondo, per quanto concerne la capacità delle donne di esercitare i propri diritti e le proprie libertà politiche, sociali, economiche e civili. In secondo luogo, va specificato che, per quanto ad un primo sguardo superficiale queste restrizioni possano esser ricondotte ad un’interpretazione radicale dell’Islam, un’analisi più attenta rivela invece che il vigente regime di discriminazione è in realtà il frutto di un’intricata serie di elementi, in cui la religione è solo uno dei tanti aspetti coinvolti.
Infatti, la condizione di diseguaglianza a cui è soggetta la donna in Arabia Saudita non rappresenta la regola nel mondo islamico ma, al contrario, costituisce un’eccezionalità peculiare ed esclusiva del tessuto religioso, culturale, sociale e politico del paese. Fin dai suoi albori la monarchia saudita si regge sull’alleanza informale tra due componenti, una politica e l’altra religiosa. La dinastia degli Al Saud, originaria della regione del Najd (nel centro dell’Arabia Saudita, dove si trova la capitale Riyadh), rappresenta l’elemento politico, mentre l’establishment religioso di tradizione Wahhabita costituisce quello religioso. Nello specifico, il Wahhabismo nasce come una diramazione della scuola giuridica islamica hanbalita, all’interno del sunnismo (la corrente maggioritaria dell’Islam), e si basa essenzialmente su un’applicazione in termini rigidamente letterali della shari’a (la legge sacra dell’Islam imposta da Dio) e sull’identificare il Corano e la Sunna del Profeta come gli unici testi capaci di regolare legittimamente la vita degli individui e della società.
Pertanto, è a partire da questa secolare interconnessione tra politica e religione che viene a definirsi la realtà sociopolitica saudita nelle sue più diverse particolarità; tra queste si può senza ombra di dubbio annoverare il sistema del guardiano, ovvero il principio che è alla base della condizione di sfruttamento a cui son soggette le donne saudite.
Quest’ultimo rappresenta un’istituzione che regolamenta il godimento e l’esercizio dei diritti e delle libertà delle donne saudite. La sua struttura è al contempo formale e informale: questo significa che la sua legittimità trova il proprio fondamento su di un complesso intreccio composto sia di usi e tradizioni della penisola arabica, come ad esempio i fenomeni di matrimoni precoci o forzati, e i casi di divorzio unilaterale da parte dell’uomo senza comunicazione ufficiale alla moglie, sia di leggi, normative e regolamenti che, pur non facendo apertamente riferimento al sistema del guardiano, tendono a favorire una condizione di marcata diseguaglianza di genere. Ad ogni modo, non si può non evidenziare come gli usi, per quanto non codificati in forma scritta, godano di ampio riconoscimento presso la popolazione, che ripone nelle norme consuetudinarie un valore pari, se non superiore, rispetto a quello delle norme scritte.
Secondo il sistema del guardiano, noto come wilaya o wisaya, ogni donna saudita a prescindere dalla sua età deve dipendere da un wali al-amr, ovvero un tutore legale, per quanto concerne innumerevoli aspetti della sua vita pubblica e privata. Inizialmente questo ruolo viene attribuito al padre mentre in un secondo momento, qualora la donna decida di sposarsi, la figura del marito succede a quella del padre nell’esercizio di tale funzione. Nel caso in cui una donna passi dalla condizione coniugale a quella di vedovanza, il ruolo di guardiano viene trasferito al familiare di sesso maschile a lei più prossimo, come ad esempio il padre, il fratello o il figlio.
Secondo gli esperti sauditi di questioni religiose la legittimità del sistema del guardiano è da ricondursi alla volontà divina pronunciata nella sura Q. 4:34, la quale recita nella sua prima parte “Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni”. Ciò significa che il sistema del guardiano trae la propria forza normativa da una specifica ed ambigua interpretazione della sura coranica, un’interpretazione che risulta esser figlia di un ambiente religioso particolarmente rigido, le cui posizioni non solo non trovano equivalenti nel mondo islamico ma, soprattutto, sono contestate a più riprese da diverse figure religiose all’interno del contesto saudita stesso.
In merito, bisogna evidenziare come i critici che si oppongono alla visione limitante proposta dagli ambienti religiosi più tradizionalisti in merito alla sura Q. 4:34 avanzano delle contestazioni che si basano a loro volta su delle sure coraniche. Nello specifico, essi fanno spesse volte riferimento alla sura Q. 4:1, “Uomini, temete il vostro Signore che vi ha creati da una sola anima, e da questa anima ha creato la sua compagna, e da loro due ha tratto una moltitudine di uomini e donne”, ed alla sura Q. 49:1, “O uomini, vi abbiamo creato da un uomo e da una donna, vi abbiamo divisi in popoli e tribù, affinché vi conosceste tra voi. Il più degno davanti a Dio è colui che più lo teme”, allo scopo di evidenziare l’eguaglianza tra uomo e donna dinanzi ad Allah.
Da quanto riportato si può pertanto evincere che il sistema del guardiano, con la sua esplicita ed implicita condizione di disuguaglianza strutturale nei confronti delle donne, non trovi fondamento effettivo nelle indicazioni della shari’a, ma al contrario sia il risultato finale di un complesso intrecciarsi di condizioni e fattori umani che la rinomata accademica Madawi Al-Rasheed identifica nello “stato saudita, nel nazionalismo religioso, ed in forme culturali e sociali di patriarcato”.
Dal punto di vista concreto, il sistema del guardiano pone le donne saudite in una condizione di sostanziale impossibilità di godere del pieno esercizio delle proprie libertà individuali in materia di diritto alla salute, al lavoro, all’eguaglianza dinanzi alla legge, all’eguaglianza nei casi di divorzio, separazione e custodia di figli minori, e alla libertà di movimento. In altre parole, all’interno degli schemi di tale struttura il wali al-amr gode di un controllo praticamente assoluto sulla donna in quanto singolo individuo.
La stagione delle riforme
La nomina di Mohammed bin Salman al ruolo di principe ereditario si è accompagnata a considerevoli trasformazioni nel tessuto sociale saudita. Sono state infatti implementate diverse riforme che hanno in breve tempo alterato alcuni aspetti della tradizionale struttura della società.
Nello specifico, le misure adottate in merito ai diritti delle donne e ad una loro maggior inclusione all’interno della cittadinanza, si inseriscono nell’ampio progetto di diversificazione economica conosciuto come Vision 2030. L’iniziativa, caldamente sponsorizzata dal principe ereditario, mira tanto a ridefinire la percezione che il mondo ha dell’Arabia Saudita, presentandola non più come un paese conservatore, tradizionalista e chiuso ma come un polo capace di attrarre investimenti, crescita e sviluppo, quanto a riorganizzarne il tessuto economico riducendo il ruolo predominante delle esportazioni di petrolio all’interno del bilancio statale.
L’implementazione di Vision 2030 si accompagna, pertanto, alla definizione di una nuova idea di cittadinanza e ad una nuova immagine dell’Arabia Saudita, le quali si basano su un rinnovato senso di orgoglio nazionale che viene per l’appunto definito hazm, ovvero “deciso”, proprio allo scopo di trasmetterne il suo carattere risoluto.
In questo contesto di trasformazione della sfera economica e sociale, le preesistenti strutture politiche e religiose si dimostrano incapaci e inadatte nel compito di diffondere e radicare la nuova identità saudita così come definita da Mohammed bin Salman. Ed è proprio in questa incompatibilità che si inseriscono le più recenti riforme in merito ai diritti delle donne.
Con il decreto reale rilasciato da Re Salman il 17 aprile 2017 si sancisce che tutti gli apparati governativi non debbano richiedere ad una donna di presentare il consenso del guardiano se i servizi pubblici per cui stanno facendo richiesta non lo prescrivono per legge. Ciò si traduce nella possibilità per le cittadine saudite di aver un più agevole accesso sia al sistema educativo sia a quello sanitario e di poter concorrere con più facilità per posizioni occupazionali nel settore pubblico. Infatti, in precedenza una donna doveva presentare il consenso del proprio guardiano sia per sottoporsi ad un’operazione chirurgica sia per poter lavorare o avviare un’attività economica.
Cinque mesi dopo, nel settembre 2017, si registrano due importanti eventi. Il primo ha avuto luogo in occasione delle celebrazioni per l’ottantasettesimo anniversario della fondazione del regno saudita, in cui per la prima volta viene concesso alle donne di poter prender parte insieme agli uomini agli eventi ed ai concerti organizzati presso lo Stadio Internazionale di Re Fahd. Pertanto, in tale occasione si sancisce l’attenuarsi del rigido regime di segregazione di genere fino ad allora imposto dalla Commissione per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. La Commissione, nota come Hai’a, rappresentava una vera e propria polizia religiosa il cui scopo era quello di vigilare e punire ogni comportamento o azione che violasse la “pubblica moralità”. In questo contesto, ciò che non viene più sanzionato è la khilwa, ovvero la mescolanza di genere tra persone tra loro non legate da vincoli di parentela.
Questa nuova prassi trova la propria origine nella volontà di incentivare uno dei pilastri su cui si regge Vision 2030, ovvero quello che viene definito come “entertainment industry”, il settore dell’economia che si basa sulla partecipazione ad eventi pubblici, siano essi legati allo sport o all’intrattenimento come ad esempio concerti, rappresentazioni cinematografiche o teatrali. Ciò si concretizza nel gennaio 2018 con la concessione alle donne di poter prendere parte come spettatrici ad eventi sportivi maschili e nell’aprile 2018 con la decisione di riaprire i cinema rimasti chiusi dal 1983 in seguito all’implementazione di un regime di condotta conservatrice imposto dalle correnti religiose più tradizionaliste.
Il secondo evento riguarda, invece, il decreto reale che ha posto fine al divieto che impediva alle donne di guidare, che rendeva l’Arabia Saudita l’unico paese al mondo ad avere ancora in vigore una norma di tal tipo. La conquista del diritto alla guida ha rappresentato una delle partite più importanti per i movimenti femministi sauditi e trova la propria origine nell’iniziativa che ebbe luogo nel novembre del 1990 quando un gruppo di 47 donne decise di protestare contro il divieto guidando per le strade di Riyadh. Mentre all’epoca il governo saudita reagì con durezza incarcerando le attiviste, requisendo loro i passaporti e rendendole oggetto di una campagna mediatica denigratoria, ora il circolo di potere vicino al principe ereditario presenta il diritto delle donne alla guida come una condizione capace non solo di accrescere l’indipendenza delle cittadine saudite, ma anche di facilitare la loro inclusione nel mercato del lavoro.
Ulteriori passi in avanti per quanto concerne l’emancipazione femminile vengono raggiunti grazie ad una serie di emendamenti approvati nell’agosto del 2019. Per quanto concerne la legge sulla mobilità, il quadro giuridico aggiornato prevede la possibilità per le cittadine saudite, una volta compiuti i 21 anni, di poter richiedere il passaporto e di poter uscire dai confini nazionali senza il permesso del proprio guardiano e senza essere accompagnate dal mahram, ovvero un parente maschio con il quale non può intrattenere un rapporto coniugale e che aveva il compito di viaggiare insieme alla donna nei suoi spostamenti oltre le frontiere saudite.
Le riforme coinvolgono inoltre la Legge sullo Stato Civile e si concretizzano in un più agevole accesso da parte delle donne ai documenti familiari, possibilità che prima era unica prerogativa degli uomini. Mediante la revisione degli articoli 33, 47 e 53, le cittadine saudite possono finalmente registrare rispettivamente la nascita dei figli, i divorzi e i decessi, mentre con l’aggiornamento dell’articolo 50 sono in grado di ottenere la carta famiglia, prerogativa che dal 2016 era già stata riconosciuta alle donne ma unicamente a vedove, divorziate o a quelle sposate con cittadini stranieri. In precedenza, tale documento era detenuto unicamente dal capo famiglia e in esso venivano indicati i suoi dati civili e quelli delle persone che da lui dipendono, nominalmente mogli e figli. Nel sistema saudita la carta famiglia rappresenta un documento fondamentale in quanto consente alle madri di essere responsabili per i figli minori in materia di mobilità interna, di pratiche ospedaliere e scolastiche. Infatti, senza tale documento le madri che viaggiano con i loro figli non possono fare una prenotazione per una stanza unica in una struttura alberghiera, non possono prenotare delle visite mediche o iscrivere i loro figli a scuola. L’accesso alla carta famiglia sembra pertanto garantire alle donne saudite, almeno dal punto di vista formale, più semplicità nel completamento di pratiche governative, amministrative e legali.
Un’ulteriore importante modifica alla Legge sullo Stato Civile riguarda l’articolo 30; in questo caso l’emendamento prevede che una donna non sia più obbligata a vivere con il proprio guardiano, condizione che invece viene mantenuta valida per i figli minori. Questo aggiornamento consente di porre fine, almeno in linea teorica, ai casi di taghayyub, ovvero a quella procedura che consentiva ai guardiani di riportare forzatamente a casa o di trasferire nelle Dar Al-Reaya, “case di cura”, le donne che avevano lasciato il nucleo familiare senza il loro consenso.
Criticità latenti
Sebbene le riforme introdotte negli ultimi anni abbiano segnato un innegabile miglioramento della condizione dei diritti delle donne, non si può negare che delle forti criticità continuino ad ostacolare un pieno riconoscimento della donna quale cittadino pari ed eguale all’uomo.
In primo luogo, bisogna evidenziare come i decreti reali sopra citati, per quanto rappresentino un’iniziativa di rinnovamento, restino il risultato concesso, controllato e circoscritto di una decisione politica assunta ed implementata da parte dell’élite governativa saudita che non coinvolge minimamente i movimenti sociali legati all’attivismo femminista. A conferma di ciò vi è l’esempio delle decine di attiviste legate al “Women to Drive Movement”, come Loujain al-Hathloul, Aisha Al-Mana ed Madeha al-Ajroush, le quali sono state arrestate nel maggio 2018 con l’accusa di “tentare di destabilizzare la monarchia” e che restano tuttora in carcere.
In secondo luogo, per quanto le riforme abbiamo introdotto delle importanti novità nella struttura sociale e civile saudita, queste ultime spesse volte si limitano a rimanere sul piano dei proclami formali e non si traducono in politiche concrete. Ciò si riconduce al fatto che le autorità burocratiche ed amministrative godono di ampi margini di discrezionalità nell’implementazione delle leggi; infatti, queste ultime possono redigere regolamenti interni ad hoc o rallentare di proposito i tempi di svolgimento delle pratiche, introducendo degli ostacoli capaci di annullare il carattere innovatore delle riforme.
Le misure politiche, sociali ed economiche implementate dal principe ereditario Mohammed bin Salman stanno senza ombra di dubbio ponendo la società saudita ed i suoi modelli identitari sotto una pressione crescente. Per un paese che cerca sia di aprirsi al mondo che di preservare i propri aspetti più conservatori e tradizionali, le contraddizioni divengono una realtà quotidiana, specialmente quelle legate ai diritti ed alle libertà delle donne. Se formalmente le misure adottate dalle autorità governative invitano le donne ad apparire con più frequenza nella vita pubblica, nei luoghi di lavoro e di intrattenimento e disincentivano l’utilizzo della abaya, il vestito tradizionale saudita, informalmente la marginalizzazione, la discriminazione e la segregazione di genere restano fortemente radicate negli ambienti religiosi più conservatori. Sebbene molti passi dell’agenda politica da seguire per realizzare una piena cittadinanza per le donne saudite siano ancora assenti, bisogna riconoscere che un efficace processo di trasformazione non può realizzarsi attraverso riforme calate dall’alto, ma solo attraverso un dialogo inclusivo tra istituzioni governative e società civile.