La donna algerina, nel corso degli anni, ha raccolto molte sfide. Dalle eroine della resistenza anticoloniale dell’Ottocento, alle ragazze, donne, mogli e madri che da più di un anno scendono in strada per protestare contro il regime e contro una condizione di perpetua subordinazione all’uomo.
Tutte donne. E tutte algerine.
Il percorso di emancipazione femminile in Algeria è stato (e continua a essere) lungo e molto tortuoso, complice una intrinseca complessità etnica, culturale e religiosa.
Sono molti, infatti, i fattori da prendere in considerazione quando si parla di donne, emancipazione e parità di genere in contesto arabo-islamico, e, ancora di più, in un contesto peculiare come quello algerino, segnato da cambiamenti storici traumatici, profonde crisi socio-economiche e da un radicato fondamentalismo religioso che ha elargito violenza e brutalità.
Sebbene la componente femminile abbia giocato un ruolo fondamentale per l’indipendenza algerina e nonostante una Costituzione che, sin dalla sua promulgazione, sanciva e garantiva la parità di genere, la donna non ha mai cessato di essere considerata una appendice dell’uomo, a causa, soprattutto, di alcune norme presenti nel ‘Codice di famiglia’ (Qānūn al-’usra), una raccolta di norme basate sulla Sha‘ria, ovvero la legge islamica che regola la capacità giuridica di un individuo, disciplinandone tutti gli aspetti della vita privata, dal matrimonio alla successione. Tali norme, a differenza di altre, sono rimaste estranee alle influenze del diritto europeo, evidenziando le solide basi islamiche su cui questa branca del diritto poggia. A un lettore occidentale potrebbe risultare strana una fonte del diritto così strettamente legata alla religione, ma non si dimentichi che l’islam, a differenza del cristianesimo per esempio, permea ogni aspetto della vita del musulmano con precetti da considerarsi vincolanti e dalla cui interpretazione dipende l’espansione o la contrazione dei diritti.
In tema di donne e partecipazione politica e islam, c’è una grande diatriba tra coloro che affermano una presunta incompatibilità tra i principi religiosi e il ruolo della donna nella società e coloro che, agli antipodi, sostengono la partecipazione delle donne alla vita pubblica, come retaggio dell’originaria interpretazione dei versetti del Corano e della Sunna che favorivano l’uguaglianza di genere. Interpretazione che nel corso degli anni si è guastata per mano delle élites maschili, cui spettava il compito dell’esegesi coranica.
Il grande problema dell’emarginazione femminile e della disparità di genere deriverebbe, quindi, dalla profonda interferenza che si è creata tra religione e società, la quale ha ereditato pensieri e pratiche finalizzati a screditare il ruolo della donna e la sua partecipazione alla vita politica del paese, e i dettami del Codice di Famiglia ne sono un esempio. Infatti, l’Algeria è uno di quei paesi in cui il Codice, promulgato nel 1984, è interpretato in maniera discutibile, motivo, questo, della spiccata inferiorità giuridica della donna rispetto all’uomo. Le prime grandi mobilitazioni femminili risalgono proprio al periodo di stesura della suddetta raccolta, chiamata ancora oggi ‘Codice della vergogna’; sono gli anni delle grandi rivendicazioni da parte delle donne: parità di genere, uguaglianza in caso di divorzio, abolizione della poligamia e parità di trattamento in caso di successione. Sono anche gli anni in cui vedono la luce le prime realtà associative femminili e femministe che, sin da subito, si sono dovute confrontare con un clima ostile e con delle autorità che mal tolleravano quei tentativi di migliorare uno status così limitato. Sulla scia delle conquiste femminili in occidente, la condizione della donna stava subendo delle importanti trasformazioni e, anche in Algeria, le più giovani iniziavano a rivendicare un ammodernamento dei costumi e del loro ruolo all’interno della famiglia e della società, rivendicazioni frenate sul nascere proprio dalla promulgazione del Codice di famiglia, frutto di una società maschilista e misogina. In fondo, nonostante il fervido patriottismo mostrato durante la lotta per la liberazione dalla Francia e i tanti sacrifici fatti, i diritti delle donne hanno continuato a essere considerati marginali e tutt’altro che prioritari.
Per una prima riforma del Codice, si dovrà attendere il 1990, quando le donne riescono ad ottenere la possibilità di votare in presenza (fino a quel momento l’uomo poteva votare per procura, annullando, di fatto, il diritto di voto femminile), mentre un secondo emendamento si è avuto nel 2005: annunciata come una grande riforma in favore della donna e dei suoi diritti, questa si è rivelata al di sotto delle aspettative. Quella componente femminile che tanto aveva lottato per l’abolizione del tutore legale (wālī) e della poligamia, si è dovuta accontentare solo di riforme più marginali, quali la possibilità di scegliere il proprio tutore e di trasmettere la nazionalità ai figli, o una poligamia sottoposta al benestare della/e precedente/i mogli.
A questa, nel 2012 se ne è aggiunta una ulteriore che ha introdotto il sistema delle quote rosa nel voto per le assemblee elettive, permettendo alle donne in Parlamento di passare da poco meno dell’8% nel 2011 al 31% nell’anno successivo, in termini di presenza.
Nonostante le riforme e gli aggiustamenti legislativi – reali o di facciata – ancora oggi le donne algerine sono considerate delle eterne minorenni, proprio a causa della situazione di subordinazione in cui versano, situazione che pesa anche da un punto di vista lavorativo e di partecipazione femminile ai processi decisionali. A confermare questa condizione di marginalità, intervengono i dati dello Human Development Report che, nella sezione dedicata all’empowerment femminile, provano una concreta disparità tra uomini e donne in termini di partecipazione al mondo del lavoro (per esempio, nel 2019 la disoccupazione maschile si attestava al 10%, mentre quella femminile superava il 20%, al contrario, il tasso di attività maschile era sopra il 70%, mentre quello femminile superava di poco il 15%). Questi dati sono negativi, soprattutto se li si paragona all’elevata percentuale di donne iscritte ad un qualunque percorso di studi di grado universitario: nel 2017, a un tasso di donne iscritte dell’80% ne corrispondeva uno di donne economicamente attive di poco più del 20%.
Sarebbe superficiale negare che la donna algerina non abbia fatto progressi in fatto di empowerment, ma i dati mostrano che c’è ancora una accentuata disparità di genere che stenta a essere colmata, sebbene, negli anni, il quadro giuridico sia stato modificato. Questo solo per affermare che l’impatto di una politica non si misura con mere trasformazioni di facciata o con qualche riforma finalizzata a placare le rivendicazioni femminili. Le riforme dovrebbero portare a una trasformazione concreta e sostanziale, cosa ancora non avvenuta, o avvenuta solo in parte, in Algeria, dove la questione femminile è stata ignorata a causa di congiunture sociali, culturali e politiche. Per decenni le priorità sono state altre: la liberazione nazionale prima, l’islam radicale poi e, nel mezzo, numerosi problemi socio-economici che hanno portato, di fatto, a trascurare qualsiasi tema riguardasse la donna, relegata al ruolo di figlia, moglie e madre, senza possibilità di avere altri interessi oltre alla casa e alla famiglia.
La verità è che le (poche) conquiste ottenute dalla donna nel corso degli anni, rischiano di restare fine a se stesse se le istituzioni non si impegnano a migliorare il suo status, intervenendo sulle norme più vessatorie e discriminanti del Codice e cambiando anche l’atteggiamento misogino e maschilista della società. Basti pensare che, nonostante le riforme occorse nel tempo (significativa quella costituzionale del 2012) e le mobilitazioni che stanno ancora oggi infiammando le principali città algerine, la svolta è ancora lontana: agli inizi del 2020 è stato formato e presentato il nuovo governo e, dei 39 membri nominati, solo 5 sono donne e tutte con ruoli secondari. La radice del problema sembrerebbe essere tanto di natura culturale, quanto legislativa.
La discrepanza tra la Costituzione, che garantisce parità di genere, e il Codice di famiglia che mina questa garanzia, crea disagio e disorientamento nella donna algerina che comunque, nel corso degli anni, non si è mai stancata di reclamare a gran voce i suoi diritti. La riforma del Codice è senza dubbio una priorità urgente, ma miglioramenti vi saranno solo se l’integralismo – profondamente radicato nella società e in continua crescita – non prenderà il sopravvento.
Nonostante il contesto particolarmente ostile e difficile in cui si sono sviluppati, i movimenti femminili sono cresciuti, si sono ampliati e, oggi, sembrano essere riusciti a catturare la scena, soprattutto nelle più recenti manifestazioni, di cui le donne sono diventate le vere protagoniste. Infatti, dal 2019 scendono in piazza ogni venerdì per manifestare contro il regime e contro un sistema maschilista. Marciano e manifestano per i loro diritti e le loro libertà negate e per la conquista di uno spazio pubblico limitato da troppo tempo. Lo hanno fatto le prime associazioni femminili negli anni ’80, che lottavano per il diritto al voto e i diritti delle donne e continuano a farlo quelle nate più recentemente, associazioni che tentano di smontare una morale maschilista, anche attraverso delle rivolte come quella ‘del bikini’ che ha visto migliaia di ragazze arabe scendere in spiaggia indossando solo il due pezzi. Non una semplice provocazione, ma una dimostrazione dell’importanza della libertà di scelta della donna, che non può essere solo quella di indossare in spiaggia il tradizionale Burqini (che copre interamente il corpo) e dell’importanza di far cambiare gradualmente la società.
Quello che riconduce la condizione della donna a un problema di natura culturale è che nessuna legge algerina vieta formalmente il bikini in spiaggia. Però, questo è considerato immorale da una larghissima fetta della società e non solo dalle frange musulmane più integraliste. Ecco perché le donne, a oggi, oltre a sperare in una modifica del Codice di famiglia, devono sfidare i numerosi e retrogradi pregiudizi. Una sfida forse molto più ardua rispetto all’espunzione di un articolo o all’abrogazione di una legge.