I migranti in genere, e più ancora nello specifico i rifugiati e richiedenti asilo, sono particolarmente vulnerabili alle epidemie. Il distanziamento sociale nei luoghi sovraffollati dove comunemente risiedono è impossibile e la diagnosi precoce dei casi è difficile a causa della loro esclusione dai piani sanitari nazionali in molti paesi. Per questa ragione sono temuti e, al contempo, ritenuti probabili focolai locali dell’epidemia tra rifugiati e migranti, che rischiano di non essere controllati o addirittura tenuti nascosti.
L’OMS, l’UNHCR e l’OIM hanno ripetutamente raccomandato ai piani di salute nazionale e ai sistemi di sorveglianza e allerta predisposti per fronteggiare il Covid-19 di integrare rifugiati e migranti. Occorrerebbe dare priorità ai piani concreti di decongestione dei campi o degli insediamenti sovraffollati in cui vivono, trasferendo le persone vulnerabili in alloggi più sicuri e sani.
È un fenomeno e un problema che attraversa i paesi e i continenti, interessando anche un paese come l’India che figura – come già visto – tra quelli che stanno registrando un andamento preoccupante del numero confermato dei contagiati negli ultimi giorni.
In India, l’imposizione di un improvviso e rigoroso blocco annunciato nella notte del 24 marzo, a seguito della pandemia di Covid-19, ha determinato un movimento forzato di molte migliaia di migranti desiderosi di tornare nei loro villaggi e città, spinti dalla paura o dalla perdita di mezzi di sostentamento, o da entrambe. Un’inchiesta sul tema, apparsa sull’ultimo numero di India Today, interpreta questa lunga marcia dei migranti in India come prova della loro mancanza di fiducia che i governi centrali e statali possano offrire soccorso adeguato, sotto forma di cibo, trasporti e alloggi.
Provocatoriamente, l’esperienza del Covid-19 può essere letta come la metafora di un virus portato in India e nei vari paesi da una classe di persone relativamente privilegiate e globalizzate che viaggiano nel mondo in prima o in seconda classe e che ha causato le maggiori sofferenze ai lavoratori migranti e agli abitanti delle baraccopoli nelle città: persone che viaggiano nella terza classe della globalizzazione, struttura portante per le economie integrate, e che erano totalmente impreparati a una tale situazione.
Secondo il Center for Monitoring Indian Economy (CMIE), circa 122 milioni di persone hanno perso il lavoro solo in aprile, di cui tre quarti sono piccoli commercianti e lavoratori con retribuzione giornaliera, e in gran parte migranti interni. Confinati in spazi di vita congestionati, persi i loro guadagni col blocco delle attività anche nel settore informale dell’economia e non avendo soldi per comprare cibo o pagare l’affitto, hanno visto nel viaggio di ritorno nelle case e famiglie di origine l’unica scelta praticabile, in modo simile a quello che – su scala ovviamente ridotta e lontano dai riflettori dei mass media – accade anche in Italia. Nelle città indiane, in effetti, il preavviso dato alle persone prima dell’attuazione del blocco è stato solo di quattro ore, molto meno di quanto capitato in paesi vicini come il Bangladesh e Singapore.
In India, come in Italia e probabilmente anche altrove, i governi si sono impegnati per dare un sostegno ai connazionali bloccati all’estero cercando di facilitarne il rientro in patria. È mancato un piano simile per i migranti interni in un paese esteso come un continente, come è l’India, per favorire il loro ritorno a casa. Lo stesso è capitato in Italia: anzi ricordiamo forse come un fatto già lontano, a causa dell’accelerazione degli eventi degli ultimi mesi, quanto è successo a inizio marzo alla stazione di Milano, presa d’assalto per una fuga di lavoratori meridionali a caccia dell’ultimo posto in treno prima che il blocco annunciato nella “zona rossa” diventasse operativo. Quei lavoratori in fuga sono stati giudicati in molti casi sconsiderati se non folli, senza verificare in quali condizioni si trovassero.
Certo è che in India la situazione dei migranti interni è in genere più difficile che in Italia. Malgrado si stimi che contribuiscano a circa il 10% del PIL indiano attraverso il loro lavoro nelle città, inizialmente non sono state predisposte risorse per aiutare l’evacuazione di masse di migranti presenti in India. È occorso del tempo per l’istituzione di un sistema nazionale di informazione sui migranti, essenziale perché gli stati potessero monitorare il movimento delle persone all’interno del paese.
Il fatto che i bisogni dei migranti non siano al centro delle prime priorità dei governi nel mondo è dimostrato anche dalla disattenzione statistica. In India, il National Sample Survey del 2008-09 indicava che i migranti interni rappresentavano oltre il 28% della forza lavoro indiana e oltre il 40% della popolazione a Delhi e Mumbai. Nel marzo di quest’anno, il governo ha informato il Parlamento che erano presenti circa 100 milioni di lavoratori migranti nel paese. In India, molto più che in Italia, i migranti possono diventare una massa di popolazione in ombra, perché impiegata principalmente nel settore informale dell’economia.
Come spiega in un interessante articolo Palagummi Sainath, giornalista specializzato nelle disuguaglianze sociali ed economiche, nella povertà e le conseguenze della globalizzazione in India (e che il famoso economista Amartya Sen ha definito “uno dei maggiori esperti mondiali di carestia e fame”), si è consumato un esodo di massa in pochissimi giorni: il governo ha dichiarato, a fine maggio, che nel corso del mese 9,1 milioni di lavoratori erano stati spostati e fatti tornare nelle terre di origine, organizzando migliaia di treni speciali delle Ferrovie Indiane (Shramik Special) per i “manovali” migranti. Manovali, cioè lavoratori che vivevano e mangiavano negli stessi luoghi in cui lavoravano nelle metropoli e che si sono trovati improvvisamente senza un tetto e senza cibo.
Il problema dei migranti, scrive Palagummi Sainath, esiste da decenni a causa della crisi agraria, cui è stata prestata scarsa attenzione. Il censimento del 2011 ha rivelato che, per la prima volta dal 1921, la crescita della popolazione dell’India urbana aveva superato quella delle campagne. In media, 2000 agricoltori hanno perso lo stato di coltivatore ogni giorno dal 1991. Questi sono fatti scioccanti. Il fenomeno dei migranti sottolinea inoltre lo sviluppo economico disomogeneo degli stati, che ha spinto la migrazione e creato i problemi che stiamo vedendo oggi. Queste sono cause fondamentali e strutturali che devono essere affrontate, per non ritrovarsi di nuovo nella stessa situazione.
In questi giorni leggiamo spesso della messa in discussione di un modello di sviluppo e integrazione globale basato su filiere produttive globali e “lunghe” che fanno dipendere l’approvvigionamento (anche di mascherine chirurgiche e dei più complessi dispositivi di protezione individuale) da una catena globale che ha al suo centro la Cina, che smista nel mondo parti di ricambio di tutti i generi e un cui blocco finisce col paralizzare tutti.
Molto meno abbiamo letto della messa in discussione di un modello di sviluppo che ha rivoluzionato in silenzio in pochi decenni gli equilibri territoriali e che, per esempio, in India ha visto crescere esponenzialmente strade, ferrovie e servizi di autobus che collegano le aree urbane con le metropoli. Nel 1993 – cioè non un secolo fa – c’era una sola corsa alla settimana di un bus che collegava Mahbubnagar, nello stato federato dell’Andhra Pradesh, a Mumbai. Soltanto dieci anni dopo gli autobus erano diventati decine al giorno, e tutti sovraffollati. La crisi delle aree interne in Italia o (sempre con le dovute differenze di scala e gravità dei problemi) delle aree rurali in India e la crisi del modello e della società rurale hanno a che fare con una politica che ha favorito migrazioni di massa dalle aree rurali e anche casi di pendolarismo da periferie sempre più lontane dal centro, fino a molte ore di viaggio a distanza.
La “scoperta” di un mondo sotterraneo per occhi distratti, in India come altrove, fatto di una moltitudine di persone in condizioni disagiate, eppure ossatura del sistema economico, diventa anche un modo per smitizzare l’immaginario che domina – come osservava acutamente Cornelius Castoriadis quarantacinque anni fa – l’organizzazione industriale e post-industriale centrata sulle metropoli e sull’annullamento delle distanze attraverso l’alta velocità. Il paradosso della modernità, incarnato dai migranti in India ai tempi del Covid-19, ci indica che quanto più assumiamo il punto di vista della banalità per descrivere in modo sempre più triviale la realtà e la modernità della globalizzazione, tanto meno cogliamo la complessità sottostante alle crisi macroeconomiche, ambientali, sociali, culturali e politiche, che producono effetti visibili nella vita urbana e rurale, nell’istruzione, nei trasporti e (come è a tutti evidente) nella sanità. E troppo rapidamente si liquida, in India come altrove, la crisi agraria come crisi essenzialmente della produzione agricola, che può trovare una compensazione nella migliore efficienza delle rese o nell’integrazione mondiale dell’economia. La realtà della crisi agraria, invece, ha investito anche tutte le attività non agricole che affiancavano la coltivazione dei campi, a cominciare da quelle artigianali dei falegnami o dei tessitori, determinando una crisi di civiltà o del mondo contadino pre-industriale, come ripeteva Pasolini.
L’esodo dei migranti in India aggiunge in queste settimane una dimensione importante alla crisi economica in atto, intensificata dalla pandemia: l’India rurale non può assorbirli ma ha bisogno delle loro rimesse; l’India urbana ne ha bisogno, perché la loro assenza potrebbe ritardare la ripresa economica.
Chi vuole ricostruire una società vivibile a partire dal disastro che questa crisi lascerà dietro di sé – scrive Noam Chomsky nel primo capitolo del libro “Crisi di civiltà. Pandemia e capitalismo” (che raccoglie interviste rilasciate nelle settimane scorse sull’evolversi della crisi e dato recentemente alle stampe da Ponte alle Grazie) farebbe bene ad ascoltare l’appello di Vijay Prashad, perché non stiamo affrontando soltanto un’emergenza sanitaria ma la manifestazione quasi paradigmatica della crisi di un sistema che è globale e che a livello di coordinamento globale deve trovare una risposta: «Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema».
L’impressione in superficie, per il momento, rimane però quella di un sistema che nel suo complesso ci coinvolge tutti, e che non dimostra sufficiente visione, coraggio e passione per uscire dal miraggio del ritorno alla normalità.