La fine dell’epoca del carbone è oggi necessaria dal punto di vista storico. Si tratta di un presupposto fondamentale del rapporto che quasi tutti condividiamo per ragioni di sicurezza delle miniere, di salute pubblica ed anche, semplicemente, per la conservazione dell’ecosistema della terra.
Partendo da questo presupposto, il rapporto fornisce delle indicazioni sui passi operativi e sui tentativi per stilare una serie di buone pratiche per i paesi produttori di carbone al fine di assicurare la fattibilità della transizione oltre il carbone e per contenerne il costo economico. Inoltre, l’approccio adottato è quello dell’analisi costo-efficacia, che consiste nell’identificare il modo più efficace, rapportando costi e risultati, per raggiungere un obiettivo predeterminato.
Questo quadro analitico è basato sulla teoria del second best che, nell’ambito dell’economia del benessere, ricerca la seconda miglior soluzione quando l’ottimo (cosiddetto paretiano) non può esser raggiunto, e riducendo il ruolo dello stato ad interventi limitati per ridurre i danni e correggere nel mondo reale i fallimenti del mercato (vedere sotto). Pertanto, si punta all’ottimizzazione tenendo conto dei vincoli di bilancio. Di conseguenza, la questione intuitiva di fronte a noi, sebbene non menzionata esplicitamente nel rapporto, è di domandarci se, al fine di finanziare la sopraccitata transizione, dobbiamo consentire ai paesi direttamente (produttori) o indirettamente (consumatori – vedere sotto il punto 5) coinvolti di aumentare i deficit di bilancio oltre i limiti usuali consentiti. Inoltre, possiamo adottare un criterio di sostenibilità del debito includendo anche aspetti sociali ed ambientali? Questa questione va certamente oltre l’ambito analizzato dal rapporto ed è molto complessa, considerato che richiede scelte di carattere etico. Comunque, la risposta data è quella di una complessa ma necessaria combinazione di elementi, se si vuole affrontare seriamente il problema della transizione verso un mondo a bassa intensità di carbone.
Questo rapporto raccoglie una serie di indicazioni provenienti da parte dei paesi cha hanno già effettuato la loro transizione dal carbone, per così dire, ed è ricco di lezioni apprese, proponendosi di offrire suggerimento ai paesi che ne vorranno seguire l’esempio. Leggendo il rapporto si evidenziano cinque elementi degni di nota:
Prima osservazione
La prima e più importante osservazione, secondo chi scrive, è di carattere generale e metodologica. Il rapporto sembra simile alla ricetta di un dottore che diventa parte di un processo (ampiamente diffuso in economia dello sviluppo) e che consiste nello stabilire buone pratiche/incentivi/riforme (basati su un’ideologia oppure un’esperienza passata, sebbene condizionata dalle specificità spazio-temporali) fissando le norme sulla base delle quali saranno valutate le azioni di un paese.
Questo approccio richiede come prerequisito la conoscenza di tutte le relazioni causali ed una capacità di identificare il contributo di ciascuna di esse al risultato finale. È inoltre deterministico e non considera né il ruolo dell’incertezza (variabilità) né il peso della storia dei territori, trascurando le aspettative e le aspirazioni delle persone coinvolte (oltre al fatto che i processi partecipativi proposti sono successivi alle decisioni prese ed a malapena queste ultime sono discusse nel merito) e sottostimando la capacità dei soggetti direttamente coinvolti di innovare, adattarsi e trovare soluzioni ai nuovi scenari.
Inoltre, secondo le linee guida per la transizione oltre il carbone, il rapporto sarebbe più efficace se adottasse l’attitudine di uno psicologo che incoraggia il suo paziente a praticare l’auto-aiuto fornendogli gli strumenti tecnici necessari per svolgere bene il compito, anziché l’atteggiamento di un dottore che prescrive meccanicamente lo stesso trattamento a tutti i pazienti affetti da sintomi simili. La ragione per cui alcune politiche pubbliche riscuotono successo è contingente e correlata a fattori come la storia e la natura del contratto sociale che regola il futuro delle persone coinvolte. Il rapporto trarrebbe beneficio dall’essere di stimolo anziché impartire solo direttive e norme.
Questo è ancora più vero considerando che le esperienze passate di paesi che hanno scelto la transizione dal carbone sono in gran parte fallite, anziché avere successo (vedere la pagina 13 del rapporto). Questo dovrebbe insegnare a focalizzarsi su cosa non ha funzionato in un particolare contesto e fare in modo che i paesi coinvolti fissino il loro percorso sulla base dei loro vincoli e delle loro aspirazioni.
Un approccio di tipo normativo può diventare ancora più dannoso quando è applicato a paesi in via di sviluppo nei quali i funzionari responsabili per l’attuazione delle raccomandazioni stilate dai consulenti delle organizzazioni internazionali non mostrano, di solito, un approccio critico. Questi funzionari non provano neppure a mediare tra le indicazioni fornite dai consulenti internazionali e le più sfumate indicazioni dei ricercatori delle istituzioni nazionali (un esempio rilevante è quello delle raccomandazioni che spronavano il Marocco all’adozione di un sistema con un tasso di cambio flessibile o con una politica di protezione sociale e assistenza ai poveri sotto forma di trasferimento di denaro contante).
Seconda osservazione
Il rapporto evidenzia, in diverse occasioni, il ruolo proattivo dello stato, sia nell’attivare una dinamica di transizione dal carbone (parte 2: Drivers) che nel gestire la citata transizione (parte 3: Lezioni) senza comunque ricomprendere la creazione, per esempio, di nuove attività produttive o di altri interventi pubblici per compensare, almeno parzialmente, la perdita di posti di lavoro causata dalla chiusura delle miniere di carbone.
Le politiche di sostegno proposte nel rapporto si riducono alla ricerca di soluzioni per il singolo lavoratore nella forma di aiuto per rendere la riforma socialmente accettabile. In effetti, la maggior parte delle azioni citate nel rapporto hanno il carattere di incentivo (incentivo alla creazione di piccole imprese – quando alcune ricerche mostrano che si producono semplicemente forme di disoccupazione camuffate -, contributi una tantum, trasferimenti temporanei di denaro, formazione, mobilità, flessibilità nel mercato del lavoro minerario, ecc.). Questo induce a pensare che il sistema di supporto per coloro che perdono il lavoro derivi dalla razionalizzazione del loro processo decisionale (nel senso di G. Becker e della sua teoria delle scelte razionali, formalizzata per comprendere e modellare formalmente il comportamento sociale ed economico degli individui). La premessa di base della teoria della scelta razionale è che il comportamento sociale di aggregazione risulta dal comportamento dei singoli attori, ognuno dei quali prende le decisioni individualmente, secondo il cosiddetto individualismo metodologico. Le soluzioni collettive semplicemente non sono prese in considerazione e possiamo solo sperare che il mondo reale si comporti come la microeconomia del consumatore prevede!
In sintesi, questo è un appello specifico ma selettivo rivolto allo Stato, che non è soggetto a nessuna argomentazione logica nel rapporto della Banca Mondiale né a un’attenta verifica delle specificità dei paesi coinvolti. Questa strategia può essere compresa solo se l’analisi è inquadrata in un contesto di ricerca di ottimizzazione di second-best, accettandone le conseguenze. L’approccio normativo torna nuovamente come principio ispiratore di tipo ideologico.
Terza osservazione
Per un sistema di transizione morbida dal carbone, il rapporto raccomanda la strategia di stratificare i lavoratori del settore minerario in diversi sotto-gruppi per assicurare (in base al rapporto) un miglior adattamento alle soluzioni indirizzate alla popolazione obiettivo. Perciò, per esempio, quando una miniera di carbone chiude, i più anziani preferiranno uscire prima ed andare in pensione e, inoltre, sarà meglio offrire loro una copertura previdenziale addizionale (soluzione ispirata, in modo curioso, dal caso cinese, che non fornisce certo il miglior esempio per considerare le preferenze delle persone: vedere a pag. 39-40). Inoltre, secondo il rapporto (vedere pag. 36), le donne sono più propense ad accettare altre offerte di lavoro anche a condizioni meno vantaggiose.
In realtà, il successo di questa strategia si basa sulla validità di un forte presupposto, ossia l’assenza o la debolezza di solidarietà nelle miniere di carbone. Tuttavia, lo stesso rapporto afferma che le miniere sono spesso situate in località remote e i minatori, insieme alle loro famiglie ed ai loro parenti, vivono nelle stesse località organizzandosi in comunità.
Quarta osservazione
Il rapporto cita un esempio di solidarietà, nel Nord della Macedonia, relativo al caso della chiusura di miniere di carbone che si verificò in un clima di tensione sociale a causa della rigidità della legislazione del mercato del lavoro. In sintesi, Il rapporto della Banca Mondiale ne deduce (un po’ in fretta) che la regolamentazione che cerca di bilanciare i poteri nel mercato del lavoro potrebbe essere la causa del degenerare della situazione nel caso di chiusure di miniere (vedi pagina 32). Un esempio contrario arriva dalla Francia, che chiuse la sua ultima miniera di carbone nel 2004 in un contesto del mercato del lavoro non particolarmente noto per la sua flessibilità. La legislazione del lavoro potrà influenzare il costo della transizione, ma non certo la sua fattibilità.
Quinta osservazione
L’obiettivo centrale del rapporto è di aiutare ad anticipare gli effetti diretti (sui minatori) ed indiretti (indotti sull’ambiente che li circonda) di questa transizione per riuscire a controllare i costi. Inoltre, c’è un altro effetto non trascurabile che deriva direttamente da questa scelta che non è stata esplicitata nel rapporto, neppure segnalata sinteticamente per indicare che sarebbe stata oggetto in un rapporto futuro.
Penso all’effetto della transizione sul mercato internazionale del carbone e, come corollario, nel mix di fonti energetiche dei paesi che vi dipendono, in particolare i paesi in via di sviluppo che non dispongono energia primaria, cioè già disponibile in natura. Visto che questi ultimi paesi non hanno risorse a sufficienza né per aumentare la loro efficienza energetica, né per sviluppare fonti di energia alternativa (come fu il caso dell’energia nucleare in Francia, del gas naturale nei Paesi Bassi o più recentemente il caso del gas metano negli Stati Uniti o le energie rinnovabili in Germania), ne risulta un costo più alto del carbone che dovrebbe essere assimilato all’ingiusta “carbon tax” (ingiusta perché ha un effetto regressivo tra i paesi) pagata da paesi che storicamente non sono responsabili del cambiamento climatico. Un’eccezione ci sarebbe nel caso in cui le energie rinnovabili diventassero più competitive dell’elettricità, come suggerisce il rapporto riferendosi a uno studio, oi cui risultati sono stati però contraddetti da altri studi più recenti e, in ogni casi, bisognerebbe ricordare che l’ammortamento delle centrali elettriche termiche viene raggiunto dopo lunghi periodi di tempo nel fare un rapido passaggio a forme di energie rinnovabili più costose.
Questo aspetto mi pare cruciale perché la lotta contro il riscaldamento globale non abbia l’effetto di impoverire ancora di più i paesi più poveri ed escludere dal mercato energetico i paesi giù esclusi.
Tenendo presente tutto ciò e se analizziamo il caso del Marocco come esempio, la reazione dei donatori internazionali sembra davvero inconsistente: si è limitata sinora a supportare grandi progetti per le energie rinnovabili, nello sviluppare le quali non c’è stato un visibile effetto virtuoso a catena sulla produzione nazionale (evidenziando, invece, un basso livello di integrazione, configurando interventi avulsi dal resto del sistema) e ha avuto come conseguenza solo l’aumento del debito estero ed un aumento nel prezzo dell’energia al consumo.
Versione originale dell’articolo