L’epidemia di SARS-CoV-2 e lo scontro per l’egemonia regionale in Medio Oriente
Con la fine del mondo bipolare, nel sistema di sicurezza internazionale hanno iniziato a manifestarsi tendenze alla regionalizzazione, e con esse l’emergere di una potenza egemone o più potenze regionali a contendersi la leadership. Quest’ultimo è il caso del Medio Oriente, che al momento vede uno scontro per l’egemonia regionale tra Iran e Arabia Saudita. L’emergenza sanitaria internazionale determinata dal coronavirus SARS-CoV-2 sembra porsi al momento come nuovo attore attivo nella regione, capace di provocare una nuova destabilizzazione in un sistema di sicurezza regionale già molto precario. In un momento eccezionale – con il conseguente evolversi della situazione regionale e globale, capace di mettere sotto scacco giorno dopo giorno punti di forza e apparati consolidati – questo contributo si propone di condividere alcune riflessioni a caldo riguardo le implicazioni geopolitiche che tali sconvolgimenti possono avere in materia di cooperazione e sistemi di alleanze.
Definire il Medio Oriente
La fine della guerra fredda ha avuto un profondo impatto sull’intero modello di sicurezza internazionale, poiché con il venir meno della rivalità tra superpotenze che si intromettevano in tutte le regioni, le potenze locali hanno ottenuto più spazio di manovra, mostrando tendenze che combinavano processi di regionalizzazione e globalizzazione. Una regione è caratterizzata da un ordine di sicurezza egemonico quando uno Stato ha una preponderanza di forza strutturale tale da poter creare e mantenere regole, norme e modalità operative essenziali per varie dimensioni del sistema internazionale. Questi potenti Stati derivano la loro legittimità dalla sicurezza che garantiscono ai membri regionali, mantenendoli una posizione competitiva l’uno verso l’altra. Come sostiene John J. Mearsheimer nel suo La tragedia della grande politica di potere, questo è ciò che ogni Stato si sforza di fare nella sua regione.
Esaminando le dinamiche della regione del Medio Oriente ci troviamo subito di fronte ad un problema relativo al territorio da prendere in considerazione. Non esiste infatti una definizione concorde di Medio Oriente, poiché ogni definizione prende in riferimento parametri differenti portando ad estendere o ridurre i confini fino a 3-4000 km a Est e Ovest. Il Medio Oriente che vogliamo qui esaminare non è legato quindi a definizioni fondate sull’identità etnica, religiosa o nazionale di un’area, ma riguarda una concettualizzazione dei termini di sicurezza della regione e dei suoi partecipanti nell’area. Come affermano Ali Eddin Hillal Dessouki e Jamil Matar (in P. Biligin, Regional security in the Middle East – a critical prospective, Routledge Curzon, New York 2005):
«Il termine Medio Oriente non si riferisce a un’area geografica, ma piuttosto rappresenta un termine politico nella sua creazione e utilizzo; (2) il termine non deriva dalla natura dell’area o dalle sue caratteristiche politiche, culturali, di civiltà e demografiche; perché quando usiamo il termine “Medio” dobbiamo chiedere “Medio” in riferimento a cosa?; (3) il termine inficia la patria araba come unità distinta poiché ha sempre incluso gli Stati non arabi».
Intendiamo, quindi, una regione come un insieme di unità i cui principali processi di «cartolarizzazione [ovvero il processo con cui gli attori statali trasformano temi in questioni di “sicurezza”], desecurizzazione [ovvero il processo con cui vengono declassati problemi in precedenza definiti come urgenze bisognose di misure straordinarie] o entrambi sono così interconnessi che in materia di sicurezza non possono essere analizzati considerando queste unità separate l’una dall’altra» (B. G. Buzan, O. Wæver, & J. H. de Wilde, Security: A New Framework for Analysis, Lynne Rienner, London-Boulder 1998). Pertanto, nonostante si possano osservare raggruppamenti distinti nel Levante (Egitto, Giordania, Libano, Siria) e nel Golfo (Iran, Iraq, CCG), la nostra definizione più appropriata per il Medio Oriente è l’area che si estende dalla Libia ad Ovest all’Iran a Est e dalla Siria a Nord allo Yemen a Sud, perché c’è così tanta interazione tra le parti che non possono essere scollegate. L’Afghanistan è inteso come “cuscinetto” tra questo complesso e l’Asia meridionale, mentre la Turchia, sebbene abbia governato gran parte del territorio a maggioranza araba, dagli anni ’20 del Novecento ha iniziato a perseguire una visione occidentale del suo futuro, diventando un “cuscinetto” tra Medio Oriente ed Europa. Tornando alla lotta per il predominio regionale all’interno della regione da noi delimitata, ho scelto di rimuovere intenzionalmente Israele dai contendenti perché, anche se geograficamente legato all’area, altri membri non lo riconoscono come una potenza regionale al di là del suo ruolo militare.
Le rivolte arabe del 2011 e lo scontro tra Iran e Arabia Saudita per la leadership regionale
Se nel corso degli anni Novanta l’ordine regionale è stato garantito da una potenza sunnita, l’Egitto, con il sostegno degli Stati Uniti, dalla seconda metà dei primi anni 2000 il declino della grande strategia americana neoconservatrice di George W. Bush e la caduta di regimi di lunga data causata dalle rivolte arabe del 2011 hanno portato ad un vuoto di potere ed al conseguente emergere di nuovi attori regionali: Iran e Arabia Saudita in testa. L’Egitto sembra ora completamente assorbito dalle proprie problematiche interne, mentre dall’elezione di Barack Obama gli Stati Uniti hanno cambiato il loro approccio alla regione, tanto da portare il direttore della rivista The Atlantic Jeffrey Goldberg ad affermare nel 2016 che «il Medio Oriente non è più tremendamente importante per gli interessi americani».
Secondo Obama, infatti, le rivolte rappresentavano un cambiamento fondamentale che avrebbe giovato sia alla popolazione della regione che agli Stati Uniti. Il Presidente sottintendeva anche che gli Stati Uniti non avrebbero assunto la guida dei movimenti: «dobbiamo procedere con un senso di umiltà. Non è l’America a portare le persone nelle strade di Tunisi o del Cairo: sono state le persone stesse a lanciare questi movimenti e sono loro che alla fine devono determinarne l’esito». Il governo di Washington aveva compreso che gli Stati Uniti potevano comunque svolgere un ruolo vitale nella regione attraverso l’offerta di assistenza economica e nel coordinare le risposte regionali; ma la dignità dei manifestanti in Bahrein, Yemen o Arabia Saudita sembrava avere meno valore, come dimostrato dalla continua vendita di armi all’Arabia in funzione anti-iraniana.
Nonostante le rivolte arabe abbiano portato milioni di persone comuni, uomini e donne, giovani e vecchi, religiosi e laici, musulmani e non musulmani, a scendere in piazza per chiedere libertà e il rovesciamento dei regimi, l’area rimane ancora segnata dall’assenza di diritti politici e sociali. Anni dopo l’inizio della “primavera araba”, le aspettative di una transizione democratica nella regione non sono state esaudite. L’ascesa dell’ISIS in Iraq e Siria, il caos e il collasso della politica libica, il ritorno di un regime militare in Egitto e la sopravvivenza di regimi autocratici e monarchie: tutto questo ha ampiamente contribuito al rilancio di un vecchio e ingenuo cliché sul Medio Oriente. Mentre il numero delle democrazie elettorali è quasi raddoppiato in tutto il mondo dal 1972, nella regione del Medio Oriente tale numero ha registrato un calo assoluto, portando gli studiosi a parlare di Arab exceptionalism.
Con lo scoppio delle guerre civili del 2011 e 2015, i territori di Siria e Yemen si sono trasformati nelle principali arene di guerra per procura dell’Arabia Saudita e dell’Iran. Il ruolo delle organizzazioni terroristiche salafite-jihadiste ha acuito il fattore settario nella lotta per l’egemonia regionale e ha messo in relazione le organizzazioni ufficiali saudite wahhabite e le organizzazioni salafite-jihadiste; da parte iraniana, invece – con gli sciiti adesso in posizione di governo in Iraq, Hezbollah in Libano e la Siria ancora nelle mani di Bashar al-Assad – l’Asse della Resistenza ha ritrovato vigore, scongiurando i timori della Repubblica islamica di ritrovarsi nuovamente isolata nella regione, soprattutto a seguito della rinnovata politica sanzionatoria perseguita dall’amministrazione Trump. Sulla base delle sue dimensioni e del retaggio storico, l’Iran si considera la potenza regionale naturale; al contrario, l’Arabia Saudita si considera il leader naturale del Golfo e degli Stati della regione a credo sunnita.
La pandemia acuisce lo scontro
L’epidemia di SARS-CoV-2, scoppiata dapprima in Cina nella provincia dell’Hubei sul finire del 2019, ha trovato territorio fertile in Iran, portando la Repubblica islamica a diventare nel mese di marzo uno tra i maggiori focolai al mondo e il paese più colpito della regione. A metà aprile il numero di persone contagiate confermato ufficialmente in Iran aveva superato la soglia degli 80 mila casi; a fine aprile si attesta attorno ai 90 mila casi.
L’infezione da nuovo coronavirus, rotti gli argini della città di Qom epicentro dell’epidemia, si è abbattuta con violenza sulle provincie di Teheran, Guilan, Kashan e Isfahan, con un tasso di mortalità di circa il 3% e con il sistema sanitario non in grado di far fronte all’emergenza per l’assenza di strumentazioni, strutture e di un piano di contenimento. Lo stato di criticità nel paese ha portato il governo di Teheran a chiedere un prestito di 5 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale, la prima richiesta dell’Iran di accesso al Fondo dal 1962. L’epidemia valutata dall’OMS come una pandemia si è presto diffusa in tutta la regione con Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar tra i paesi più colpiti nel mese di aprile dopo l’Iran.
I dati in forte aumento dell’infezione si sono rivelati presto un nuovo terreno di scontro tra i due paesi contendenti per la leadership regionale. Il regno saudita ha predisposto la chiusura della regione orientale di Qatif, abitata da circa 500 mila abitanti a maggioranza sciita. Dopo aver registrato il maggior numero di contagi all’interno della regione, il governo di Riyad ha infatti accusato l’Iran di non aver segnalato i cittadini sauditi di ritorno dai suoi territori in pellegrinaggio. Non è la prima volta che la regione saudita a maggioranza sciita si trova a pagare le spese più alte a causa della rivalità regionale tra le due potenze. Già nel 1979, incoraggiati dalla rivoluzione iraniana, gli sciiti sauditi si ribellarono dando vita a manifestazioni conosciute come “Intifada della Provincia Orientale”, ma questi disordini vennero fermamente repressi. Stessa cosa accadde nel 2003 dopo la caduta del Presidente iracheno Saddam Hussein. Nel 2011-2012 l’unica forma di “primavera araba” registrata in Arabia Saudita si è manifestata nella provincia orientale: Riyad ha represso le rivolte nel sangue ed accusato il governo di Teheran di aver incoraggiato i rivoltosi.
La cooperazione sanitaria nella regione
Di fronte al costante aumento dei numeri di contagiati e morti nel paese, il Ministro degli affari esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha lanciato l’invito alla cooperazione contro l’epidemia su scala regionale, invito che si è tradotto in appello contro le sanzioni volute e mantenute da Trump. Parlando con l’agenzia di stampa iraniana Tsnim, Akbar Torki, portavoce della Commissione per la salute, ha denunciato le sanzioni statunitensi sulle importazioni iraniane di prodotti farmaceutici e attrezzature mediche, equiparando la misura ad un crimine di guerra sanzionabile dalla comunità internazionale. Ad epidemia in corso infatti, il ministro Javad Zarif e il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres hanno avuto un colloquio telefonico nell’ambito delle consultazioni internazionali sulla lotta all’epidemia, durante il quale Antonio Guterres ha espresso solidarietà e sostegno al paese e ha sottolineato la necessità di eliminare le sanzioni statunitensi.
Come riportato dall’emittente Al Arabiya, gli Emirati Arabi sono stati tra i primi nella regione a cogliere l’invito del Ministro degli esteri iraniano inviando materiale medico e facilitando i voli degli aerei dell’Organizzazione mondiale della sanità verso l’Iran. È giusto ricordare come la storia recente delle relazioni tra Iran ed Emirati Arabi sia stata contrassegnata da momenti di forte tensione in ambito sia diplomatico che economico. Basti pensare alla disputa ancora in corso sulla sovranità sulle Isole di Tunb e di Abu Musa, attualmente sotto il controllo iraniano ma rivendicate dagli Emirati; o alla partecipazione del governo di Abu Dhabi al conflitto yemenita al fianco dell’Arabia Saudita, per quanto poi l’emirato abbia cominciato le operazioni di ritiro nell’estate del 2019, lasciando sole le milizie anti-houthi ed i sauditi. Allo stesso modo, il Qatar ha inviato circa 8,5 tonnellate di forniture sanitarie e mediche, tra cui 1.173.000 mascherine chirurgiche, insieme a articoli igienici e disinfettanti, secondo il sito web ufficiale del governo iraniano. Ancora, sempre per quanto riguarda i paesi del Golfo il clima di apparente distensione e reciproca cooperazione ha indotto il portavoce del Parlamento iraniano e i suoi omologhi di Kuwait ed Oman a scambiarsi diverse opinioni ed impegnarsi in reciprochi aiuti sul contenimento del COVID-19. Il presidente dell’assemblea consultiva dell’Oman Khalid Al Maawali ha anche sottolineato la necessità di rafforzare la cooperazione tra Oman e Iran in varie aree, compresa la campagna contro le malattie infettive; il Kuwait invece, attraverso il suo Ministro degli esteri Sheikh Ahmad Nasser Al-Mohammad Al-Sabah, ha espresso solidarietà al governo iraniano ed ha presentato piani per 10 milioni di dollari per la lotta contro il COVID-19, come riferito dal Kuwait Times.
Le misure adottate da questi Stati si pongono in netto contrasto con le disposizioni americane in materia di sanzioni alla repubblica iraniana, nonostante il rapporto decennale che lega i paesi del Golfo agli Stati Uniti. Gli USA mantengono infatti basi militari dell’esercito nei campi Arifjan e Buehring in Kuwait e a Camp As Sayliyah in Qatar. Washington ha anche mantenuto diverse decine di militari in Oman e una presenza consultiva in Arabia Saudita. Dall’estate 2013 la Marina statunitense ha dislocato altre dieci navi, tra cui la portaerei USS Nimitz, nel Mar Rosso in preparazione di un possibile attacco limitato contro la Siria. Più a Sud, il Bahrein ha ospitato la quinta flotta americana, mentre gli Emirati Arabi Uniti hanno ospitato diversi sistemi di difesa aerea statunitensi e accettato di acquistare oltre dieci miliardi di dollari di equipaggiamenti dagli USA, inclusi fino a 80 F-16.
La diffusione del contagio nella regione
La conferma del primo caso da contagio di COVID-19 in Siria ha creato preoccupazione non solo all’interno dei confini nazionali, con la stessa OMS che si è detta allarmata per il rischio che un aumento dei contagi potesse portare il bilancio delle vittime a salire in fretta. L’OMS è in apprensione per la Siria – ma anche per paesi come Libia e Yemen – perché, come dimostrato dalle statistiche, il sistema sanitario in queste aree è provato da anni di guerra, oltre che dall’assenza o dalla debolezza di un sistema istituzionale centrale. In Arabia Saudita, lontana dal clima di cooperazione regionale, il principe ereditario Mohammed bin Salman, ormai sovrano de facto del regno, con l’emergenza da pandemia in corso ha dato il via ad un giro di vite che ha portato all’arresto di eminenti chierici e attivisti, nonché principi ed élite economiche. Il Nazaha, l’ente anticorruzione del paese, ha reso note le cifre degli arrestati ed accusati di corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere, per una cifra totale di 379 milioni di riyal (101 milioni di dollari). Tra gli implicati, secondo il Nazaha, vi sono funzionari del Ministero della difesa, giudici e alcuni reali di alto rango come il principe Ahmed, fratello minore del sovrano ancora in carica.
Nella regione, non solo l’Iran è costretto ad affrontare l’emergenza più grande: la diffusione dell’epidemia di SARS-CoV-2 ha sferrato un duro colpo all’economia delle petromonarchie del Golfo Persico legate all’esportazione del greggio, il cui prezzo registra un crollo vertiginoso a causa della continua crescita delle scorte mentre la domanda ristagna a seguito della pandemia. Il confinamento domestico di un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo nel mese di marzo ha causato una drastica di riduzione della domanda, creando ripercussioni a catena su scala internazionale. In aggiunta, la disgregazione dell’alleanza Opec+ in seguito al mancato accordo sui tagli alla produzione per 1,5 miliardi di barili al giorno ha generato una guerra dei prezzi tra Russia e Arabia Saudita determinando, secondo l’agenzia Bloomberg, un crollo di oltre il 30% dei mercati petroliferi, il calo più grande dal post Guerra del Golfo nel 1991. Il prezzo del greggio, sceso sul finire del mese di marzo a meno di 30 dollari al barile, ha toccato i 15 dollari a metà aprile, un livello ritenuto insostenibile nella regione non solo per Iraq ed Iran ma anche per gli Emirati Arabi e le altre petromonarchie e ha provocato un grosso shock, tanto da costringere il governo di Riyad a ridurre di circa il 5% il suo budget annuale. L’Arabia Saudita infatti dipende dagli idrocarburi per circa il 46% del suo PIL e per l’88% delle entrate erariali (secondo le stime del periodo 2005-15).
La pandemia come fattore di cambiamento degli equilibri regionali
L’emergenza creata dall’epidemia del SARS-CoV-2 sul lungo periodo sembrerebbe configurarsi come nuovo “attore” determinante per un ulteriore cambiamento degli equilibri regionali, non solo per le conseguenze sulle economie nazionali e regionale, ma anche per i rinnovati contatti diplomatici e soprattutto per il trasferimento di percentuali di PIL nazionale verso nuovi settori per far fronte all’emergenza. Secondo i dati del 2018 forniti dall’FMI sulla spesa militare sul PIL pro capite, le petromonarchie del Golfo risultavano essere nelle prime posizioni per quel che riguarda l’acquisto di navi, aerei, blindati e armi, con un trend di aumento di oltre il 50% dal 2015. La richiesta di nuove strumentazioni mediche, la necessità di un sostegno statale nei confronti dei cittadini e delle imprese, nonché la riduzione del commercio e dell’esportazione del greggio: tutto questo potrebbe portare ad un forte calo delle spese militari, con conseguente rallentamento dei conflitti in corso e l’apertura di nuovi possibili scenari nella regione.
Dal canto loro, le istituzioni regionali come la Lega Araba e il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) non hanno ancora fornito risposte alla crisi. Il vertice della Lega Araba previsto per il mese di marzo è stato sospeso per timore di diffusione dell’epidemia. La Lega degli Stati arabi e il Consiglio di cooperazione del Golfo non hanno quasi mai soddisfatto le aspettative in materia di cooperazione e risoluzione dei conflitti. Tuttavia, l’emergenza in corso e l’apparente clima di cooperazione tra le parti nella regione potrebbero dar vita ad un processo di rivitalizzazione delle istituzioni regionali, processo che la Lega Araba sembrava aver deciso di intraprendere all’indomani delle rivolte arabe quando, nonostante il criterio di non interferenza negli affari di stato sancito dalla carta della Lega, nel febbraio 2011 notificò la sospensione della Libia dalla membership a causa della repressione praticata da Gheddafi, o quando promosse un Piano di Pace per la crisi siriana nel 2012.